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La Russia sbarra il passo allo scudo antimissile USA

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La Russia sbarra il passo allo scudo antimissile Usa

 

Gli stati canaglia-terroristi e i nemici della globalizzazione

 

di Federico Dal Cortivo / Ex: http://www.italiasociale.org/

La Russia è decisa a creare le misure adatte per contrastare il tentativo neppure tanto nascosto degli Stati uniti di accerchiarla, mediante stati “vassalli” e uno scudo antimissile, che nelle intenzioni di Washington, dovrebbe essere costituito in funzione anti-terrorismo. Se il primo motivo è quello più temuto dai Russi, il secondo ,sia pur non più così in voga come ai tempi di Bush , resta pur tuttavia una reale possibilità.
Ma per la politica globale Usa, vi sono anche altri obiettivi, i cosiddetti” terroristi”, che sono tutti coloro che si oppongono alla politica egemone della globalizzazione, dal Venezuela di Hugo Chavez, alla Corea del Nord, dall’Iran alla Russia. Nel recente passato vi erano inclusi anche la Serbia di Milosevic, rea di interpretare una via autonoma in politica interna ed estera, e l’Iraq di Saddam, vecchio alleato degli Stati Uniti ai tempi della guerra contro l’Iran di Khomeini, trasferito poi nella lista dei cattivi quando c’era da impossessarsi delle immense riserve petrolifere di cui abbonda il sottosuolo iracheno.

E di queste giorni la notizia proveniente da Vladivostok ,nell’Estremo Oriente, per bocca del Primo Ministro Putin, che la Russia svilupperà nuove armi offensive per contrastare le batterie antimissile statunitensi, questo a salvaguardia dell’equilibrio internazionale che si regge sulla reciproca dissuasione. Nulla di nuovo quindi da parte della Russia, che negli ultimi anni ha ripreso in mano il proprio destino grazie all’accorta politica di Putin e di Medvedev. Russia che ha già dato prova della propria fermezza durante le operazioni militari condotte in Georgia, sbaragliando in poco tempo le forze locali appoggiate dai consiglieri israeliani e dell’Us Army.Ma non è solo la Russia ad impensierire la politica estera di Washington, proprio nel cosiddetto cortile di casa si stanno materializzando “nuovi nemici” . L’America Latina sembra aver imboccato una strada a senso unico che va a cozzare contro gli equilibri che gli Stati Uniti avevano sapientemente costruito per meglio depredare il continente delle sue immense ricchezze naturali, fondamentali per l’industria statunitense,per non dire vitali. La Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael Correa e il Venezuela di Chavez stanno creando un fronte unico incentrato sull’alleanza politica Alba, che a fatto proprie le idee rivoluzionarie di Simon Bolivar e del migliore socialismo nazionale. E se il Brasile di Lula ancora indugia su dove posizionarsi apertamente e l’Argentina della presidente Kirckner potrebbe fare la differenza in un prossimo futuro tra chi ha scelto la via nazionale e socialista e chi è ancora vassallo Nord Americano come Cile ,Perù e Colombia ; qualcosa sta finalmente cambiando negli equilibri di questa parte del mondo. Un nuovo asse di speranza sta nascendo e ha gettato le proprie basi , lo si potrebbe chiamare Sud-Sud oppure America Latina - Eurasia, sta di fatto che il recentissimo viaggio del presidente iraniano Ahmadinejad che ha toccato Brasile, Venezuela e Bolivia, è doppiamente significativo: sotto il profilo geopolitico è volto a creare quell’alleanza che permetterà all’Iran di uscire da una sorta d’isolamento in cui l’Occidente lo vorrebbe relegare( la Russia al momento è troppo impegnata nel delicato scacchiere dei rapporti con Washington e si è per il momento defilata dal prendere una posizione più netta nei confronti di Teheran)e al tempo stesso darà la possibilità alle nazioni Latino Americane di avere un alternativa all’Occidente con cui relazionarsi, da affiancare ai buoni rapporti con Russia , Cina e India. Sul versante economico invece gli accordi bilaterali che sono stati stipulati durante la visita del presidente iraniano, rappresentano un qualcosa di assolutamente nuovo perché non sono più basati sul rapporto sfruttatore e sfruttato, con tutto quello che ne consegue in termini di intromissione negli affari interni del continente Sud Americano, ma su base paritaria, volta al reciproco sviluppo.

Tutto ciò non poteva non provocare apprensione al Dipartimento di Stato, che come al solito ha scatenato la ben oliata macchina mediatica tesa a criminalizzare tutti coloro che si oppongono alla globalizzazione o al cosiddetto “ volere di Washington”. E così come da copione non passa giorno che dalle colonne del Financial Times, New York Times, fino ad arrivare agli allineati Le Monde e Corriere della Sera, non si faccia l’esame di democrazia agli Stati canaglia, non si enfatizzi marginali episodi di piazza, come di recente in Iran, che riguardano sparuti gruppi di protesta, su una popolazione che sfiora i settanta milioni di persone. Inflazionato è poi l’uso del termine “regime”, per designare tutti gli Stati sulla lista nera Usa,così come dare del dittatore anche a chi come Chavez o lo stesso Ahmadinejad sono stati regolarmente eletti in libere elezioni. Ma questi sono dettagli e fanno parte del copione recitato da oltre un secolo dalle plutocrazie occidentali ogni qualvolta volevano scatenare una guerra d’aggressione,oggi anche affiancate dal “cane da guarda sionista”, che per sopravvivere in un mondo sempre più arabo, e dopo essersi macchiato ripetutamente di “crimini di guerra”, ha l’estrema necessità delle inarrestabili forniture di armi a fondo perduto che la potenza Nord Americana elargisce a piene mani.

E proprio l’entità sionista, dotata di armi nucleari, rappresenta il pericolo più grave per la pace del Vicino Oriente e non certamente la Repubblica Islamica dell’Iran, che cerca solamente di dotarsi di centrali nucleari in prospettiva futura, quando anche l’abbondante petrolio della regione comincerà a scarseggiare.
Israele ha manifestato più volta la precisa volontà di un attacco preventivo volto a distruggere gli impianti nucleari iraniani, la sua aviazione avrebbe già pronti i piani operativi, ma su tutto necessita sempre il disco verde degli Usa e la collaborazione dell’intelligence statunitense ed eventualmente delle sue aereo cisterne strategiche, le sole che possano garantire la riuscita di un attacco ad una distanza maggiore di quello già effettuato dalla Israeli Air Force nel 1981 contro il reattore nucleare di Tammuz in Iraq.
Per funzionare il piano israeliano deve essere pressoché perfetto ed anche per l’allenata macchina bellica sionista la cosa potrebbe presentare qualche problema di troppo, sempre che non ci metta lo zampino il potente alleato di sempre che ha tutt’oggi un interesse primario nel vedere scomparire l’attuale governo iraniano . “Dopo aver distrutto i centri nevralgici della sua economia, ecco pronto qualche doppiogiochista alla Karzai, che consegnerebbe il Paese alle grandi Corporation statunitensi, libere di mettere le mani sulle grandi riserve petrolifere iraniane”. Ma il grande incubo degli Stati Uniti è la possibilità neppure tanto remota, che le future transazioni del petrolio possano essere fatte non più in dollari ma in euro,e la costruenda borsa di Kish potrebbe segnare la svolta.

In questo progetto monetario,l’Iran ha incontrato il favorevole appoggio di Caracas e un domani vicino potrebbe trovare l’assenso della Russia e della Cina, trascinandosi dietro l’India ed altri Stati Latino Americani.” Nel 2003 Giampaolo Caselli esperto di economia politica scriveva:Tutti i contratti petroliferi sono fatturati in dollari, qualora alcuni Stati produttori dovessero preferire l’euro, il tasso di cambio fra le due valute sarebbe sottoposto a ulteriore tensione, e si comincerebbe ad assistere alla sostituzione del dollaro con l’euro come moneta di riserva di molti Paesi produttori di petrolio, ed eventualmente da parte della Cina ,che ha già annunciato un tale movimento di fronte alla perdita di valore del dollaro.”(1)
Nel 2000 fu proprio la decisione di Saddam Hussein di adottare l’euro come moneta per i pagamenti delle forniture del piano Oil for food ad innescare il processo che portò poi alla guerra del 2003. Ora gran parte degli scambi di idrocarburi avviene sulle borse di Londra e New York, in pratica gli angloamericani controllano le maggiori transazioni a livello mondiale, la borsa di Kish, sarebbe un’azione ostile verso gli interessi vitali degli Stati Uniti e il fatto che il dollaro sia l’unica moneta finora utilizzata permette alla sofferente economia Usa di finanziare gran parte del proprio enorme passivo. Nel vertice degli Stati dell’Opec nel 2007 affiorò una linea di pensiero che sinteticamente così recitava:L’Impero del dollaro deve finire”, dissero all’unisono Chavez e Ahmadinejad .
La sfida per i futuri assetti economici non è mai cessata, ma ora stanno entrando in campo diverse variabili a livello geopolitico che potrebbero riservare non poche sorprese nei prossimi anni, con un mondo che potrebbe non essere più unipolare, con la potenza egemone attuale costretta sulla difensiva su vari teatri, anche se i rischi di pericolosi colpi di coda ed annesse guerre di aggressione sono sempre possibili…Ma intanto Mosca ha deciso di giocare da subito la carta del riarmo. Come dicevano i Romani,che di queste cose se ne intendevano “Si vis pacem para bellum”.


Federico Dal Cortivo


1)”I predatori dell’oro nero e della finanza globale”.
Benito Livigni

SISTEMA DI DIFESA ANTIMISSILE IN EUROPA


Il Progetto dell’Amministrazione Bush


L’Amministrazione Bush e la MDA (Missile Defense Agency, Agenzia per la Difesa Antimissile) presentano il sistema di difesa antimissile americano, inclusa la sua componente da basare in Europa, come uno strumento urgente ed essenziale per garantire la protezione del territorio statunitense ed europeo da un attacco missilistico da parte di quelli che essi chiamano “stati canaglia”, quali la Corea del Nord e l’Iran ( eventualità alquanto improbabile).
Il sistema europeo di difesa antimissile, GMD (Ground-based Midcourse Defense, Difesa basata a terra contro i missili in fase intermedia di volo), sarebbe uno degli elementi del più vasto BMDS (Ballistic Missile Defense System, Sistema di difesa contro i missili balistici), analogo alla componente già basata in Alaska e in California. Quest’ultima è costituita, oggi, da una ventina di missili intercettori a tre stadi (diventeranno più di quaranta entro tempi brevi) per proteggere il territorio statunitense da un attacco missilistico da parte di stati come la Corea del Nord.
 

02/01/2010

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vendredi, 08 janvier 2010 | Lien permanent

Kriegstreiberei führt USA in den Staatsbankrott

 

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Kriegstreiberei führt USA in den Staatsbankrott

von Jürgen W. Gansel 

Ex: http://www.deutsche-stimme.de/

Pulverfaß: Die schwindelerregend hohe Staatsverschuldung der USA geht auf das Konto ihrer Kriegspolitik

 

Aufgrund ihres billionenschweren Schuldenberges sind die USA de facto pleite und damit „griechischer als die Griechen“, wie der „Spiegel“ spöttisch feststellte. US-Politiker üben sich nur noch in der Kunst der Insolvenzverschleppung. Der Anspruch als ständig kriegsbereite Imperialmacht hat die USA in die tödliche Schuldenfalle geführt.

 

Seit ihrem Eintritt in den Zweiten Weltkrieg führen die USA fast ohne Unterbrechung Krieg. Davon profitieren Hochfinanz und Rüstungsindustrie, aber die Staatsfinanzen zerrütten vollends. Aus aktuellem Anlaß soll an die Kriegstreiber-Tradition erinnert werden, die dieser multiethnischen Kunst-Nation nun zum finanziellen Verhängnis wird.
Der erste Krieg, den die USA außerhalb des nord- und mittelamerikanischen Festlandes anzettelten, war der spanisch-amerikanische Krieg des Jahres 1898. Bereits seit 1845 kam es zu massiven politischen und wirtschaftlichen Einflußnahmen von US-Kreisen auf Kuba, das spanische Kolonie war. Im Ostend-Manifesto (1854) wurde ein amerikanisches Okkupationsrecht gegenüber Kuba behauptet, und als sich 1895 die Kubaner gegen Spanien erhoben, finanzierten bestimmte US-Kapitalisten den Umsturzversuch.
Während die Eliten in Kuba den Schlüssel zur Beherrschung der Karibik sahen, herrschte in der US-Bevölkerung Kriegsunwilligkeit. Dies änderte sich schlagartig, als auf bis heute ungeklärte Weise das amerikanische Kriegsschiff »Maine«, das im Hafen von Havanna lag, explodierte. Der Tod von 260 Seeleuten gab dem US-Präsidenten McKinley den Vorwand für die Kriegserklärung an Spanien im April 1898. Durch die vorherige Hochrüstung ihrer Seestreitkräfte konnten die USA Spanien schnell in die Knie zwingen und endlich die Karibik als Ausbeutungszone gewinnen. Im Dezember 1898 kam es zum Friedensvertrag, der den USA das Protektorat über Kuba einbrachte und die Annektierung von Puerto Rico, Hawaii, den Philippinen und Guam ermöglichte.

 

Dollar-diktierter Imperialismus

 

Der Startschuß zum Dollar-diktierten Imperialismus war gefallen und wurde von Theodore Roosevelt, der 1901 das Präsidentenamt antrat, mit großer Skrupellosigkeit vorangetrieben. Von ihm stammt eine denkwürdige Losung, die noch die heutige Verkleidung von amerikanischer Macht- und Geldgier inspiriert: »Sprecht sanft und tragt immer einen großen Knüppel bei euch, und ihr werdet es weit bringen.«
Roosevelt griff ältere Pläne zur Schaffung einer Kanalverbindung zwischen Atlantik und Pazifik auf und schürte bewußt den Panama-Konflikt. Als Kolumbien dem von den USA betriebenen Abfall seiner Provinz entgegentrat, schickte der Präsident Kriegsschiffe nach Panama und verwandelte das Land um den Panama-Kanal de facto in ein US-Protektorat (1903). Mittels finanzieller Durchdringung wurde noch die Dominikanische Republik in US-Abhängigkeit gebracht. »Teddy« Roosevelt erhielt für seinen mittelamerikanischen und karibischen Raubzug im Jahre 1906 den Friedensnobelpreis.
Ein weiterer Präsident von »God‘s own country«, der für seine eigentümliche Moralvorstellung mit dem Friedensnobelpreis (1920) ausgezeichnet wurde, war Woodrow Wilson. Als »Friedensengel« erklärte er im April 1917 dem kaiserlichen Deutschland den Krieg, um US-Kapital in Europa zu retten und seinen Fuß in die europäische Tür  zu bekommen.

 

Die »Lusitania«-Provokation

 

Unmittelbar vor Ausbruch des Ersten Weltkrieges steckten die USA in einer wirtschaftlichen Rezession, die nach massiver Ankurbelung der Konjunktur schrie. Der Krieg der europäischen Völker kam dem Big Business wie gerufen: Durch massive Rüstungsexporte und großzügige Vergabe von Kriegskrediten an die Entente-Mächte strich das US-Großkapital immense Gewinne ein.
Da Deutschland keinerlei Anlaß für eine amerikanische Kriegserklärung bot und in der US-Bevölkerung keine Kriegsstimmung herrschte, ließ man von New York aus den britischen Passagierdampfer »Lusitania« mit großen Waffen- und Munitionsmengen auslaufen. Geheimdienstlich »verriet« man der deutschen Seite den Waffentransport, und infolgedessen torpedierte ein deutsches U-Boot im Mai 1915 das Schiff. 139 US-Bürger wurden Opfer dieses »heimtückischen« Überfalls.
Für den Kriegseintritt der USA sorgte letztlich aber die Gefährdung der hohen Kriegskredite, die vor allem das jüdische Bankhaus Kuhn, Loeb & Co. in den Sieg der Entente gesteckt hatte. Im Verlauf des Jahres 1917 waren nämlich die Mittelmächte unter größten Opfern dabei, ihre Gegner niederzuringen. Ohne die US-Intervention hätte die Entente nach Lage der Dinge die Niederlage davongetragen, wodurch die US-Finanziers Milliardenbeträge verloren hätten. Der Weltöffentlichkeit gegenüber aber sprach Wilson nicht von den Profitinteressen einer Banker-Clique, sondern gab für seine Kriegstreiberpolitik edelste Motive an: »to make the world save for democracy.«
Auch das Versailler Diktat trug mit seinen Reparationsbestimmungen deutlich die Handschrift des US-Finanzkapitals: Deutschland sollte über Jahrzehnte hinaus finanziell ausgepreßt werden, damit die Entente-Staaten ihre Kriegskredite an die USA würden zurückzahlen können.

 

Krieg zur Konjunkturbelebung

 

Die Weltwirtschaftskrise, ausgelöst durch den Zusammenbruch der New Yorker Börse im Oktober 1929, bescherte den USA bis zum Frühjahr 1933 eine Zahl von nahezu 15 Millionen Arbeitslosen. Nachdem auch das Wirtschaftsprogramm des »New Deal« unter dem Präsidenten Franklin D. Roosevelt (1933-1945) nicht fruchtete und 1937 eine scharfe Rezession eintrat – in Deutschland herrschte zu dieser Zeit Vollbeschäftigung! –, erschien dem US-Establishment wieder einmal Krieg als probates Mittel der Wirtschaftserholung.
Krieg oder Wirtschaftskrise: Roosevelt entschied sich für Krieg, kurbelte die Rüstungsindustrie an und schwor die Westmächte auf eine antideutsche Linie ein. Von Kriegsbeginn an unterstützten die USA insbesondere Großbritannien ideell wie materiell gegen ein Deutschland, das sich erfolgreich von der Wall-Street-Weltordnung abzukoppeln begonnen hatte. Im März 1941 wurde offiziell das Leih- und Pachtgesetz beschlossen, mit dem den Briten in großem Umfang Kriegsmaterial und Lebensmittel zur Verfügung gestellt wurden – bei angeblicher Neutralität der USA. Mit der Atlantik-Charta vom August 1941 beschloß Roosevelt ein Programm zur Niederwerfung Deutschlands.
Die US-Bevölkerung wollte sich aber nicht auf dem europäischen Kriegsschauplatz verheizen lassen, und Deutschland unterließ alles, um die Kapitalmacht der Welt zu provozieren. Der kriegsbesessene Roosevelt wählte indes eine Hintertür zum Kriegseintritt durch unerträgliche Druckmaßnahmen auf den deutschen Verbündeten Japan. Da auch der wirtschaftliche Einfluß Japans in China den US-Geldmächten mißfiel, war bereits im September 1940 ein Stahl-Embargo über Japan verhängt worden. Im Juli 1941 wurden alle japanischen Vermögenswerte in den USA eingefroren und zudem ein Öl-Embargo durchgesetzt.
Weiteren Erpressungsversuchen traten die Japaner mit ihrem Angriff auf die US-Pazifikflotte in Pearl Harbor entgegen. Der US-Präsident wollte unbedingt den Krieg und hatte Japan in die Rolle des »bösen« Angreifers gezwungen. Roosevelt war durch die Entzifferung des japanischen Codes über den geplanten Angriff auf Hawaii genau unterrichtet, opferte aber über 2.300 US-Soldaten, um seine Bevölkerung auf blinden Kriegskurs einstimmen zu können.

 

Verknechtung Europas

 

Mit dem siegreichen Zweiten Weltkrieg hatten die USA ihr Ziel erreicht, große Teile Europas – keinesfalls nur Deutschland – auf einen Vasallen-Status herabzudrücken, und das eigene Wirtschafts- und Politikmodell einem beträchtlichen Teil Europas aufzuzwingen. Noch im August 1945 warfen die USA in einem bislang einmaligen Akt der Barbarei zwei Atombomben über den japanischen Städten Hiroshima und Nagasaki ab.
Im Jahr 1950 mischten sich die USA, unterstützt von einem hörigen UN-Sicherheitsrat, in die inneren Angelegenheiten Nord- und Süd-Koreas ein. Dabei eroberten sie nicht bloß Süd-Korea von den nördlichen Truppen zurück, sondern marschierten trotz aller Warnungen Pekings bis zur chinesischen Grenze. Als chinesische Truppen zum Gegenangriff übergingen, drohte die Ausweitung zu einem großen Ostasien-Krieg. 1953 kam es jedoch zu einem Waffenstillstand und zur endgültigen Teilung Koreas.
Kuba schüttelte 1959 nach der siegreichen Beendigung des Guerillakrieges durch Fidel Castro die Abhängigkeit von den USA ab. Diese reagierten im Frühjahr 1961 mit der Unterstützung von Exil-Kubanern, die einen Invasionsversuch in der Schweinebucht unternahmen. Nachdem die militärische Intervention gescheitert war, verhängten die USA im Februar 1962 ein totales Handelsembargo gegen Kuba. Die Sowjetunion begann daraufhin mit der Installierung von Raketenstellungen auf der Zuckerrohr-Insel. Im Oktober 1962 führte eine amerikanische Seeblockade gegen Kuba die Welt an den Rande eines Nuklearkrieges.
Nach Abschluß des französischen Indochina-Krieges (1954) verschärften sich die Spannungen zwischen den Machthabern im Norden und Süden Vietnams. 1960 entsandte US-Präsident John F. Kennedy 2.000 Militärberater nach Süd-Vietnam. Ab Februar 1965 wurden die Bombardements auf Nord-Vietnam systematisiert und als Terrorinstrument auch gegen die Zivilbevölkerung eingesetzt. Nach Offensiven der Nord-Vietnamesen stellten die USA ihren Bombenterror im März 1968 ein, wenngleich es erst 1973 zum Waffenstillstandsabkommen kam.
Anfang der achtziger Jahre griffen die USA wiederholt in das Selbstbestimmungsrecht mittelamerikanischer Staaten ein und bedienten sich dabei zahlreicher völkerrechtswidriger Maßnahmen gegen Nicaragua und El Salvador.
Ein weiteres widerwärtiges Kapitel amerikanischer Kriegstreiberei ist der Zweite Golfkrieg (1990-1991), der gegen den Irak geführt wurde. Selbstverständlich folgte auch hier die Bombardierung der Zivilbevölkerung den Geboten von »Freiheit, Demokratie und Menschenrechten« und nicht etwa Öl- und Kapitalinteressen.
Eine Woche vor dem Einrücken des Iraks in seine historische Provinz Kuwait versicherte die US-Botschafterin in Bagdad Saddam Hussein, daß die USA dieses Vorgehen dulden würden. Auf den am 1. August 1990 beginnenden Einmarsch irakischer Truppen reagierten die USA jedoch mit der Mobilisierung der Vereinten Nationen und der Einschaltung einer PR-Agentur, die den Irakis angelastete Greuelmärchen erfand und die US-Amerikaner in Kriegshysterie versetzte. Am Ende stand die gezielte Zerstörung jeder irakischen Infrastruktur, die Verhängung eines Handelsembargos und die Rückkehr des US-hörigen Emirs nach Kuwait.
Ende der 90er Jahre bombten die USA mit ihren NATO-Vasallen Rest-Jugoslawien zusammen, um eine gute geopolitische Ausgangsposition für die Durchsetzung ihrer Pipeline-Interessen gegenüber der Erdöl-Region um das Kaspische Meer zu haben und den balkanischen Völkerkonflikt am Kochen zu halten. Es folgten bekanntermaßen der neuerliche Einmarsch in den Irak und die Tötung Saddam Husseins, die Besetzung Afghanistans und die Bombardierung Lybiens bis vor wenigen Wochen.
Die USA waren nie eine Opfer-Nation, sondern eine von kapitalistischen Cliquen beherrschte Täter-Nation. Der französische Ministerpräsident Georges Clemenceau formulierte richtig: »Amerika? Das ist der direkte Weg von der Barbarei zur Dekadenz ohne den Umweg über die Kultur.«

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mercredi, 14 décembre 2011 | Lien permanent | Commentaires (2)

Huurlingen en drones, de oorlog van de toekomst

Huurlingen en drones, de oorlog van de toekomst

BrennanJohn Brennan werd door president Obama gevraagd om de CIA te leiden. Voor week, begin februari 2013, zei hij nog in de aanloop van een hoorzitting in de Senaat die over zijn aanstelling handelt, dat het inzetten van drones 'menselijker' is dan het gebruik van bommen en artillerie, en dat burgerdoden schaars zijn.

De manier van oorlogsvoering is de voorbije tien, vijftien jaar grondig gewijzigd. De militaire doctrine van Washington en zijn bondgenoten stelt het streven centraal naar “zero doden” in eigen rangen, en een maximum impact bij diegene die als vijand is gebrandmerkt. Daarom worden opdrachten uitbesteed aan privé-ondernemingen, en worden onbemande vliegtuigen ingezet om 'gerichte' aanvallen uit te voeren.

Regelmatig worden we geconfronteerd met berichten in onze grote media over de preciesheid van Amerikaanse aanvallen met drones tegen de  vijanden, niet zelden moslims. Dat is ook de stelling van de kandidaat-directeur voor de CIA. Drones zijn onbemande vliegtuigen van allerlei formaat, van lichtgewicht modellen tot toestellen met raketten aan boord.

Media willen ons voorschrijven hoe en wat we moeten denken. Ze besteden dan ook veel aandacht aan de afschuwelijke schiet- en moordpartijen in de VS, maar zijn door de band veel stiller over de moordende drone-aanvallen op individuen, op dorpen en huwelijkfeesten in Afghanistan of Pakistan. Ze willen het officiële beeld over het dronegebruik en de zogenaamde 'preciesheid' van deze bombardementen helemaal niet in vraag stellen. Vallen er burgerslachtoffers dan worden die afgedaan als een jammerlijke vergissing. Naar verluidt spreekt men in bepaalde kringen liever over UAV (onbemand vliegtuig) dan over drones, omdat die laatste term toch meer aan willekeurig doden lijkt gekoppeld.

nieuwe vijand

Na de implosie van de Sovjet-Unie in de jaren negentig van de 20ste eeuw, had de Amerikaanse supermacht geen imperium van het kwaad meer dat moest bestreden worden. Wilde Washington zijn immense oorlogsmachine en wapenindustrie draaiende houden, moest het op zoek gaan naar een nieuwe satan. Die werd snel gevonden bij de islam. Dit nieuw vijandbeeld paste perfect om de imperiale controle over de energiegrondstoffen, rijkelijk voorhanden in de Arabische regio, te helpen garanderen. De Westerse leiders doen er alles aan om de economische belangen veilig te stellen. Het is daarom onontbeerlijk een sterke militaire macht te ontwikkelen en die in te zetten tegen weerbarstige landen die zich niet willen onderwerpen; vooral als er olie en gas te vinden is.

De ware doelstelling is drievoudig: de invloed van de islam ondergraven door landen tot een puinhoop te herleiden; het bemachtigen van de controle over de olie en gasvelden en het uittesten op hun doeltreffendheid van nieuwe hoogtechnologische wapensystemen.

De vriendenkring van het Westen is nogal wisselvallig, vandaag kan men vriend zijn en morgen gedoodverfde vijand. Dit hebben we nog in het recente verleden kunnen vaststellen in Irak en Libië.
In Irak was Saddam Hoessein de grote vriend toen hij met Amerikaanse hulp en de autocratische feodale heersers van de petrodollarmonarchieën een oorlog tegen Iran ontketende na de val van de trouwe Amerikaanse bondgenoot, de sjah van Perzië. De vriendschap met Bagdad bekoelde toen Saddam Hoessein het aandurfde in conflict te komen met zijn beschermheren – de Iraakse inval in Koeweit - die hem steunden tegen het Iran van ayatollah Khomeini. Er werd besloten om hem te vervangen door meer volgzame marionetten – in de praktijk is dat uitgedraaid op een intern sterk verdeeld Irak – om zo de greep op de Iraakse olie en gas voor het Westen veilig te stellen. Dit alles in naam van het bewerkstelligen van democratie naar westers model. De aanval paste in de 'war on terror' politiek van G.W. Bush, hoewel het duidelijk was dat Irak niets van doen had met Al-Qaeda. Er werd niet geaarzeld om het land in puin te leggen, de infrastructuur zoals elektriciteitscentrales, waterzuiveringstations, havenstructuur, hospitalen te verwoesten, behalve het ministerie voor olie. Het land werd terug naar het stenen tijdperk gebombardeerd.
In Libië hebben we een gelijkaardig scenario kunnen vaststellen, Qadafi was na een periode van paria-statuut geëvolueerd naar vriend en geldschieter voor bepaalde Europese politici bij hun verkiezingscampagne en goede klant van de westerse wapenindustrie, tot hij niet langer paste in de westerse strategie voor Noord-Afrika en het Midden-Oosten.

privé legers

Nieuw in de Amerikaanse en NAVO strategie in vergelijking met de klassieke oorlogsvoering, is de uitbesteding van militaire taken aan privé militaire ondernemingen. Het beroep doen op en inzetten van huurlingen uit privé ondernemingen vormt een groeiend bestanddeel van de westerse militaire doctrine in de oorlogen in Irak, Afghanistan, Libië en Syrië om de doelstelling van zero doden in eigen rangen te bewerkstelligen.

Wat we vandaag vaststellen is dat de Verenigde Staten militair aanwezig zijn in meer dan 50 landen. Een politiek om militaire opdrachten uit te besteden aan privé maatschappijen, laat het Pentagon toe om een deel van het militair optreden te onttrekken aan parlementaire goedkeuring. Tevens wordt kritiek van de bevolking op zijn optreden vermeden. Het is een oorlog met volmachten voor de privé militaire ondernemingen. Dode huurlingen worden niet beschouwd als soldaten. Sinds het begin van deze eeuw kennen de militaire privé ondernemingen een gestage groei. Deze huurlingenmaatschappijen zijn voor hun aandeelhouders zeer rendabel. Blackwater – vandaag heet deze onderneming Academi – haalde voor 1 miljard dollar aan contracten met de VS regering binnen. Het aantal huurlingen van deze maatschappij werd op 23 duizend geschat en het zakencijfer steeg voor de periode van 2001 tot 2006 met 80 procent. In de periode van 2005 en 2007 werden er 195 ernstige incidenten geteld waarbij Blackwater betrokken was.

de toekomstige oorlogen

Onze gevestigde media laten zich lovend uit over de succesrijke inzet van de moderne wapens. De efficiëntie van deze wapens wordt dan ook ijverig gepromoot op de internationale wapenbeurzen waar de oliemonarchen hun honger naar nieuwe wapens komen stillen. Hun wapenarsenaal wordt dan tegen hun eigen volk of tegen buurlanden ingezet, zoals in Bahrein, om er de heersende monarch op zijn troon te houden. Het nieuwe aan de moderne wapens is dat ze onderdeel zijn van een hoog elektronisch technologisch netwerk. Het gaat hier niet om sciencefiction maar om realiteit. De strijders dragen op hun rug een elektronische uitrusting die verbonden is met de rest van de troepen, met de gevechtsvliegtuigen, pantserwagens en onbemande vliegtuigen. Deze operationele logistieke uitrusting is een belangrijk onderdeel om de militaire operatie met succes te voeren. Het is ook een belangrijk component in de toekomstige oorlogen om zo de doelstelling van zero doden in eigen rangen en een maximum aan vernietiging en doden bij de tegenstanders te bereiken.

doden met de joystick

Een belangrijke, technologische, helse nieuwigheid in de moderne oorlogsvoering, is het doden met drones. Deze onbemande vliegtuigen zijn zeer geliefd in militaire middens: sinds de jaren negentig van vorige eeuw worden ze steeds vaker ingezet. Ze werden uitgetest tegen de zwakkeren die hoopten te ontsnappen aan aanvallen, zoals bij het elimineren van Palestijnse leiders door Israël. Israël is een pionier in productie en gebruik van drones.  De drones hebben de manier van oorlogvoering grondig gewijzigd. Men doodt de tegenstrever door een druk op de knop vanuit een controlekamer, en op een computerscherm op duizenden kilometer afstand volgt men het projectiel van het type Helfire. Bij de US Air Force noemt men dat de “cockpit”. Het grote voordeel is dat er in eigen rangen geen materiële of menselijke schade is. Het is voor de VS en NAVO een comfortabele manier van oorlogsvoering zonder nadelige psychologische gevolgen.

Het gebruik van drones wordt gepromoot als een precieze manier om de vijand uit te schakelen en om bij te dragen tot het redden van mensenlevens. Dat is de lijn die de toekomstige CIA-baas mee propageert. Echter, de oorlogen van het Westen uit naam van democratie en vrijheid zijn geen rechtvaardige oorlogen en kennen geen moraal. Ze zijn nog meer immoreel wanneer er satellieten, drones en robots worden ingezet. Men doodt zijn tegenstrever, vrouwen, kinderen en burgers zonder ze te kennen, vanop duizenden kilometers afstand vanuit een operatiekamer ergens in de VS. Men doodt tegenstrevers of verdachten zonder juridisch proces. Dit is standrechtelijke executie.  

Obama heeft zich tijdens zijn eerste ambtsperiode ontpopt tot de specialist voor het gebruik van deze drones. De terroristen worden geselecteerd om op de dodenlijst te komen, en de president geeft het bevel om de drones in te zetten. Dat is een doortastende methode, maar ze is heel vatbaar voor discussie.

De Amerikaanse drone aanvallen zijn het provocatie symbool geworden van de Amerikaanse macht, waardoor de nationale soevereiniteit van de staten met de voeten getreden wordt. Er wordt zomaar opgetreden tegen burgers van een ander land. Drones zijn zogenaamd bijzonder precies maar in de praktijk veroorzaken ze wel de dood van talrijke burgers. De officiële cijfers worden door onderzoek tegen gesproken. Het gebruik van drones is een consequent doortrekken van de militarisering van maatschappelijke problemen. Het gaat om fysieke eliminatie zonder verweer, met veel onschuldige slachtoffers. Van bij het begin van zijn intrede in het Witte Huis, heeft Obama het gebruik van de drones opgedreven: in Pakistan, Afghanistan, Yemen vooral.  
De drone observeert zijn slachtoffers en zendt de beelden naar de commandocentrale in de VS. Daar druk de man van dienst, die geen besef heeft van de reële toestand op het terrein, op een knop om het moordend projectiel gericht af te schieten. Dat is de toepassing van de tactiek zero doden in eigen kamp. IJverige sabelslepers van Washington, het Pentagon en NAVO bazuinen z'n doeltreffendheid uit. Het is een aanmoediging om ongestraft conflicten op te starten, het luchtruim van landen binnen te dringen en zonder vorm van justitie over te gaan tot moord, onder de handige verpakking van de strijd tegen het internationaal terrorisme. Met John Brennan aan het hoofd van de CIA zal hier zeker geen verandering in komen.

Antoine Uytterhaeghe

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jeudi, 21 février 2013 | Lien permanent

Kirkouk au cœur de la nouvelle crise irakienne

Kirkouk au cœur de la nouvelle crise irakienne

par Alan Kaval


Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

kir.jpgLe 16 janvier 2013, une voiture piégée explosait à Kirkouk, causant la mort de 33 personnes. Cet attentat survenu dans un quartier très fréquenté où se trouve la majeure partie des bâtiments officiels, a marqué le retour de la violence dans cette ville multiethnique, disputée entre Bagdad et le Gouvernement régional du Kurdistan (GRK). Près de deux semaines plus tard, le 3 février, 36 personnes périssaient à leur tour dans un nouvel attentat à la voiture piégée, combiné à une attaque de kamikazes à pieds contre les locaux de la police. Depuis, des missiles légers s’abattent toutes les semaines sur plusieurs quartiers résidentiels de Kirkouk tandis que des explosions, la découverte régulière de bombes dans des lieux publics et des fusillades sporadiques achèvent de plonger la ville dans une nouvelle période d’incertitude. Le dernier attentat en date, le 5 mars, a frappé à nouveau les forces de police, tuant cinq de leurs membres. Et pourtant, il y a quelques mois seulement, Kirkouk commençait à peine à se remettre d’une décennie de violence et ses habitants pouvaient espérer voir leur sort s’améliorer. Un climat sécuritaire relativement clément permettait alors un début de retour à la prospérité dans l’ancienne capitale pétrolière du nord de l’Irak, dont l’économie végète depuis 2003, tandis qu’à un peu plus d’une heure de route, Erbil, capitale de la Région kurde, grosse bourgade provinciale il y a dix ans, voit sortir de terre gratte-ciels, hôtels de luxe et centre commerciaux.

Ces espoirs de lendemains meilleurs étaient déjà condamnés à l’automne dernier avec l’aggravation du conflit larvé qui oppose Massoud Barzani, Président du GRK, au Premier ministre irakien Nouri al-Maliki. Depuis la fin de l’année 2011, Erbil et Bagdad s’affrontent sur la négociation, par l’entourage de Massoud Barzani, de contrats d’exploitation avec des compagnies pétrolière étrangères de première importance. En signant directement avec Exxon mobil, Chevron, Total ou Gazprom, sans passer par l’aval de l’Etat central irakien, les dirigeants kurdes ouvrent en effet la voie à la constitution d’un secteur énergétique indépendant. Déjà très largement autonome de jure et contrôlant de facto la grande majorité des zones de peuplement kurde, le GRK serait susceptible, grâce aux recettes engrangées, de fonctionner en totale indépendance vis-à-vis de Bagdad. Nouri al-Maliki, l’homme fort de la capitale irakienne, y est naturellement hostile. Ce conflit énergétique se double d’un conflit territorial, Bagdad et Erbil se disputant une large bande de territoire séparant les zones majoritairement arabes des régions kurdes. Prétendant pouvoir rétablir la souveraineté de l’Etat irakien sur l’ensemble de son territoire alors qu’elle ne s’y exerce que partiellement depuis les années 1990, le Premier ministre irakien a mis sur pied une force militaire, le Commandement des opération du Tigre ou Force Dijla, qui n’a pas tardé à être déployée vers le nord, et notamment dans la région de Kirkouk entre octobre et novembre 2012.

La réaction des autorités kurdes a été immédiate. Les peshmergas, qui dépendent uniquement du GRK et pas Bagdad, ont coupé la route aux Irakiens, leur interdisant l’accès à la ville et aux zones kurdes situées à proximité. Les deux forces militaires qui ont déployé des armes lourdes sur leurs positions respectives se font face depuis, dans les environs de Kirkouk, sans que les quelques accrochages enregistrés ne les aient pour l’instant entrainées dans l’engrenage d’une guerre civile. Cette situation de conflit a fait fuir les investisseurs. Des dizaines de compagnies étrangères avait déjà quitté la ville à l’automne et les conditions de vie de la population se détériorent progressivement. L’essence vient à manquer et les prix augmentent. Riche en pétrole, la province de Kirkouk est revendiquée par le mouvement kurde en Irak depuis les années 1970. La ville et sa province font partie des « territoires disputés » entre le GRK et Bagdad, dont le sort est suspendu à l’application de l’article 140 qui prévoit depuis 2005 l’organisation d’un recensement communautaire et d’un référendum censé déterminer le statut de la province. Or, si elle est systématiquement réclamée par les dirigeants du GRK, la mise en œuvre du texte de loi n’a jamais eu lieu, et depuis la chute du régime de Saddam Hussein, Kirkouk est dans les faits aux mains des Kurdes. L’Union patriotique du Kurdistan, la formation du Président irakien Jalal Talabani, actuellement hospitalisé en Allemagne, dont le foyer ne se trouve pas à Erbil mais dans le Kurdistan méridional, à Suleymanieh, y contrôle l’essentiel des leviers sécuritaires, politiques et économiques. S’il est rendu possible par la courte majorité démographique détenue par les kurdes, ce contrôle n’est cependant pas total, et à Kirkouk, qui comporte de très fortes minorités arabe et turkmène, tout dépend des rapports de force entre les communautés.

Chacune d’entre elles est structurée par ses propres institutions, guidées par des chefs rivaux qui aspirent à des desseins divergents et disposent de relais non seulement au sein des instances politiques représentatives mais également des administrations et des services de sécurité. S’ajoutent à cela de nombreuses milices partisanes et communautaires et un port d’arme généralisé au sein de la population, éparpillant encore la possession d’une force qui prime bien souvent sur le droit dans cette zone grise des confins kurdes et arabe. Concourant à ce chaos relatif, les responsables communautaires contractent des alliances avec des acteurs extérieurs, ce qui aboutit à une compénétration généralisée entre les rapports de force les plus locaux et les conflits qui se nouent à l’échelle de l’Irak, voire du Moyen-Orient. La Turquie est singulièrement impliquée sur la scène politique de Kirkouk, disposant de longue date de relais importants dans la communauté turkmène. Initialement, l’action d’Ankara à Kirkouk et son utilisation de certains partis turkmènes avaient pour objectif de contrebalancer l’influence et les ambitions des Kurdes. La donne a cependant changé. Non seulement, l’influence dont disposait la Turquie auprès des Turkmènes de Kirkouk était le fait de réseaux affiliés aux milieux kémalistes et militaires balayés ces dernières années par l’AKP au pouvoir, mais les rapports entre Ankara et les Kurdes d’Irak ont considérablement évolué.

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L’émergence d’une entité kurde autonome à ses portes a longtemps été perçue par la Turquie comme une menace directe pour sa sécurité intérieure, Ankara craignant qu’un Kurdistan institutionnalisé accroisse les revendications irrédentistes des 20 à 25 millions de Kurdes qui habitent derrières ses frontières. Depuis de la fin des années 2000 cependant, la Turquie commence à percevoir l’autonomie kurde en Irak comme une opportunité. Le Kurdistan irakien est un marché prometteur pour ses entreprises et il recèle surtout des richesses en gaz et de pétrole dont elle a besoin pour répondre aux besoins de sa croissance. Par ailleurs, la dégradation des relations entre Ankara et Bagdad, où dominent les groupes chiites alliés de l’Iran, a conduit la diplomatie turque à favoriser les ambitions des Kurdes en reconnaissant la légitimité de Massoud Barzani à qui elle réserve les égards dus à un chef d’Etat et à soutenir les Arabes sunnites avec qui elle entretient par ailleurs des liens anciens. Déjà dominante sur le plan économique et de plus en plus influente politiquement dans les régions kurdes, Ankara perçoit les territoires disputés, où se trouvent d’importants gisements d’hydrocarbures, comme le débouché naturel de son influence. En août 2012, la visite à Kirkouk du ministre turc des Affaires étrangères, Ahmet Davutoglu, avait déjà suscité la colère de Bagdad. Nouri al-Maliki avait alors accusé le chef de la diplomatie turque de ne pas avoir effectué sa demande de visa à l’ambassade irakienne à Ankara et d’être passé par la route, à travers la Région kurde, comme si celle-ci était indépendante et que Kirkouk en faisait partie.

Dans cette configuration nouvelle, les Turkmènes tendent à infléchir leur position vis-à-vis des Kurdes. Historiquement conflictuels, marqués par le souvenir des émeutes de 1959 au cours desquelles des milices kurdes s’étaient livrées à des massacres sur la population turkmène, les rapports entre les deux communautés pourraient s’améliorer sous le patronage de la Turquie. Les Turkmènes peuvent même profiter, à court terme, de la rivalité entre Massoud Barzani et Nouri al-Maliki pour accorder leur allégeance aux plus offrants. C’est dans cette perspective qu’il faut comprendre la création, en février, par Nouri al-Maliki, de 3000 postes relevant du ministère de l’Intérieur irakien et réservés aux Turkmènes de Kirkuk. L’annonce de cette mesure a conduit certains responsables politiques de la communauté à réclamer en retour à Massoud Barzani la formation d’une milice turkmène liée aux Peshmergas. Les Turkmènes n’ont en effet pas intérêt à se rapprocher d’un Premier ministre irakien qui considère leur puissance protectrice, la Turquie, comme un ennemi potentiel. Aussi, des représentants de cette communauté commencent à évoquer l’éventualité d’une inclusion de Kirkouk dans le Kurdistan autonome et posent leurs conditions, tandis qu’Ankara demeure attentive à la situation qui prévaut dans la ville malgré les pressions de Bagdad. À la mi février, Ahmet Davutoglu disait qu’Ankara avait vocation à intervenir à chaque fois que Kirkouk était la cible d’un attentat, notamment sur le plan humanitaire, par le transfert et le traitement des blessés dans des hôpitaux turcs.

Les conflits entre Massoud Barzani et Nouri al-Maliki aboutissent de fait à une situation paradoxale. Les Kurdes, alliés traditionnels des chiites en Irak, conservent des liens suivis avec Moqtada al-Sadr mais se rapprochent progressivement de leurs ennemis héréditaires. Les convergences qui commencent à se faire jour entre Kurdes et Turkmènes n’en sont d’ailleurs pas la seule illustration. Malgré le souvenir du régime de Saddam Hussein, dominé par des clans sunnites, ainsi que les politiques d’arabisation de Kirkouk visant à éliminer sa composante kurde, Nouri al-Maliki a associé contre sa personne les Kurdes et les Arabes sunnites. Politiquement marginalisés après 2003, ces derniers protestent contre le pouvoir central depuis le début de l’année et sont soutenu dans leurs revendications par les dirigeants du GRK. Or, dans un contexte régional déterminé par la guerre civile syrienne, leurs manifestations laissent planer la menace d’affrontements confessionnels renouvelés, et c’est notamment le cas à Kirkouk. Si les manifestations menées par les Arabes sunnites de la ville ont été ciblées par des attaques ponctuelles, ce climat de tensions intercommunautaires aurait favorisé le retour dans la ville de l’Etat islamique d’Irak, branche d’Al-Qaïda dans le pays. Lié au groupe djihadiste montant en Syrie, Jabhat al-Nosra, l’Etat islamique d’Irak serait en effet responsable des multiples attaques survenues depuis le début de l’année.

Le climat d’instabilité favorise cependant toutes les provocations, toutes les attaques sous faux drapeau, car Kirkuk est en proie à une crise multiple, au niveau de complexité infini. Chaque conflit, chaque clivage en cache un autre. L’avidité, la quête de pouvoir des chefs locaux s’articulent aux ambitions des puissances régionales dans un climat délétère. Les rues de Kirkouk sont imprégnées par des haines tenaces, entretenues par des souvenirs de massacres et des récits identitaires affrontés, chacun revendiquant l’appartenance historique de la ville à sa communauté. Les trois principales composantes de la population ne sont pourtant pas séparées depuis longtemps par des limites claires, n’ayant cessé de s’interpénétrer à travers l’histoire. Dans l’état actuel de l’Irak et de la région, on voit mal cependant comment Kirkouk pourrait retrouver la paix. Dans les campagnes qui environnent la ville, les troupes kurdes et les combattants de la Force Dijla s’installent le long d’une ligne de front de plus en plus prégnante. Dans les faubourgs, on creuse un fossé censé arrêter les poseurs de bombes. Et pourtant, que ceux-ci soient affiliés ou non à al-Qaïda, leurs relais dans les services de sécurité leur permettent toujours de pénétrer dans la ville et d’y semer une terreur aveugle, susceptible de frapper à tout moment. Début mars, un engin explosif était ainsi retrouvé dans la cour de récréation d’un jardin d’enfant de la ville. Si une dégénérescence militaire de la situation s’apparenterait à un suicide collectif, aucune solution politique ne peut être envisagée. Prévue pour avril 2013 dans le reste de l’Irak en dehors du GRK, les élections locales ne se tiendront pas dans la province de Kirkuk. Tout concourt en fait à la persistance d’un paradoxal statu quo instable avec lequel les habitants ont appris à composer.

 

Alan Kaval

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mercredi, 13 mars 2013 | Lien permanent | Commentaires (1)

Plaidoyer pour une Europe puissance

Plaidoyer pour une Europe puissance

Il faut dissoudre l'OTAN


Contre-amiral François Jourdier
Ex: http://metamag.fr/
 
L’Alliance Atlantique et son bras armé l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord, l’Otan, datent de la fin de la deuxième guerre mondiale. Elles avaient été créées pour assurer la sécurité de l’Occident devant la menace que constituait l’Union Soviétique. Depuis l’Union Soviétique a disparu, la Russie ne constitue pas une menace et devrait intégrer à terme l’Europe, même si elle ne fait pas partie de l’Union Européenne et pourtant l’Otan existe toujours.
 
 
L’Europe et la France ont elles intérêt à son maintien ? N’empêche-t-il pas la constitution d’une défense européenne digne de ce nom, et n’entraine-t-il pas l’Europe et la France dans des interventions extérieures où elles n’ont pas d’intérêt ?
 
L’Alliance Atlantique
 
Alliance défensive, l’Alliance Atlantique a été fondée par le traité de l’Atlantique Nord à Washington, le 4 avril 1949. Créée pour développer la capacité de résister à toute attaque armée, elle s’est également fixée une mission complémentaire de prévention et de gestion des crises qui peuvent porter atteinte à la sécurité européenne. Elle a théoriquement pour objectif de sauvegarder la liberté, l’héritage commun et une civilisation qui déclare se fonder sur les principes de la démocratie, de la liberté individuelle et de l’état de droit comme le stipule son préambule repris de la Charte des Nations-unies.
 
 
L’article 5 du traité sur la solidarité entre ses membres en cas d’agression, en est le point primordial. Le traité va finalement être l’élément qui soudera réellement le bloc occidental derrière les États-Unis, installant peu à peu une hégémonie américaine et une vassalisation de l’Europe. L’Alliance Atlantique rassemble vingt-huit nations raccordant l’Europe de l’Ouest à l’Europe de l’Est. Elle dispose d’une organisation militaire intégrée sous commandement américain.
 
 
Le Sommet du Cinquantenaire de l’Organisation qui s’est tenu à Washington du 23 au 25 avril 1999 a débattu, entre autres, de la transformation de l’Otan dans le nouveau contexte géopolitique de l’après-guerre froide, un débat centré en Europe sur la nature des relations entre l’Union et l’Alliance atlantique. La guerre du Kosovo menée alors, au même moment, a symbolisé le triomphe de la conception anglo-américaine : d’alliance défensive, l’Organisation tend à devenir l’instrument d’interventions offensives et l’Union européenne s’est placée sous sa tutelle.
 
L’organisation militaire intégrée.
 
L’alliance ayant pour but de protéger l’Europe d’une attaque du bloc soviétique, les européens furent heureux de bénéficier du parapluie américain. Ils l’ont instamment réclamé à l’origine. L’organisation militaire fut donc dominée par l’Amérique qui en exerça les principaux commandements.
 
Voulant secouer la tutelle américaine et garder l’indépendance de décision, le général de Gaulle décida de constituer une force nucléaire autonome et de quitter le commandement militaire intégré de l’Otan. Le siège de l’Otan quitta Paris pour Bruxelles en 1966 et toutes les infrastructures étrangères quittèrent la France. Celle-ci ne quitta pas pour autant l’Alliance Atlantique et des accords prévoyaient la réintégration des forces armées françaises en cas de conflit ouvert entre les deux blocs. Elle maintint des forces en République fédérale d’Allemagne (RFA). Déjà en 1962, au moment de la crise de Cuba, la France avait montré sa solidarité avec l’Alliance. De fait les forces françaises continuèrent à s’entrainer avec les forces de l’Otan et à s’aligner sur leurs normes, c’est à dire les normes américaines.
 
Après la chute du mur, à quoi sert l'OTAN ?
 
Après la chute du mur et la disparition de la menace soviétique, la France participa pour la première fois à une opération de l’Otan dans les Balkans. C’était le début d’une réorientation de l’Otan qui avait perdu son ennemi naturel. Les attentats du 11 septembre lui ont offert un nouveau rôle, la lutte contre le terrorisme. L’islamisme remplace ainsi le communisme comme principale menace du monde libre. En 2009, la France réintègre l’Otan.
 
L’OTAN ne sert pas les intérêts de la France et de l’Europe.
 
La chute du mur de Berlin le 9 novembre 1989, est la date symbolique de la fin de la guerre froide et marque la victoire sans combat de l’Alliance Atlantique sur l’Union Soviétique. La menace ayant disparu on aurait pu penser que l’Alliance, défensive, ou au moins son organisation militaire, allait disparaître. Il n’en a rien été, l’Europe n’ayant pas voulu ou pas pu constituer une défense crédible préféra rester sous le parapluie américain. Certains pays de l’Europe de l’Est, la Hongrie, la Pologne et la République Tchèque choisirent même de la rejoindre, voulant se protéger d’un éventuel retour de la menace russe.
 
D’une alliance défensive contre un ennemi défini, elle devint une alliance politique dont les objectifs furent peu à peu définis par les Etats-Unis qui assuraient, il est vrai, la plus grande part de la charge. Néanmoins, quand on récapitule les interventions militaires auxquelles l’Otan et ses alliés participèrent on peut se demander si elles servaient vraiment les intérêts de l’Europe et singulièrement de la France.
 
En 1990, si l’intervention était bien cautionnée par l’ONU, ce sont les Etats-Unis qui entrainèrent une coalition de 34 états dans la guerre contre l’Irak de Saddam Hussein pour la défense du Koweit. Le principal mobile de cette guerre était la défense des intérêts pétroliers et économiques des Etats-Unis. En 2003 la France refusera de suivre les Etats-Unis dans la guerre qui éliminera Saddam Hussein. Cette guerre durera jusqu’en décembre 2011 jusqu’au retrait du dernier soldat américain, laissant l’Irak dans le désordre et la violence.
 
Dans les Balkans cela commencera avec l’éclatement de la Yougoslavie. D’abord en Bosnie où en 1995, l’Otan intervient contre les milices Serbes au profit des Bosniaques et des Croates. En 1999, avec l’accord implicite des Nations unies, l’Otan attaque la Serbie pour la contraindre à évacuer la Kosovo où la majorité albanaise est en rébellion, les bombardements durent 70 jours et obligent les forces Serbes à quitter le Kosovo. Le Kosovo est maintenant indépendant, mais la situation n’est toujours pas stabilisée et l’Otan y maintient encore des troupes (KFOR).
 

Colin Powell et les armes de destrctions massives de Sadam Hussein !
 
La guerre d’Afghanistan débute en 2001 à la suite des attentats du 11 septembre, dans le but de capturer Oussama Ben Laden, elle est menée par une coalition réunie par l’Otan et à laquelle le France prend part, sous commandement américain. Peu à peu les buts de la guerre changent : on veut établir un gouvernement démocratique et chasser les taliban. La mort de Ben Laden en mai 2011 n’arrête donc pas les combats. Les Américains transfèrent peu à peu la responsabilité du conflit à l’armée afghane en annonçant leur retrait pour 2014. Il est peu probable que l’Afghanistan y gagne le calme et la démocratie.
 

Irak : les dommages collatéraux
 
L’intervention en Libye en 2011, se fit apparemment à l’initiative de la France et de la Grande Bretagne mais fut en fait une intervention de l’Otan : les Etats-Unis assurèrent le succès de l’opération par des frappes initiales détruisant la défense anti aérienne de la Libye et fournissant un soutien en renseignements, en transports aériens, en ravitaillement en vol. Sans les Etats-Unis, quoiqu’on pense par ailleurs du bien-fondé de cette intervention, elle n’aurait pas abouti dans les mêmes conditions. 
La question que l’on peut d’abord se poser, c’est de savoir si ces interventions voulues par les Américains et motivées par la défense de leurs intérêts surtout en Irak et en Afghanistan, ont été d’un quelconque bénéfice pour la France et même pour l’Europe. Elles ont en général abouti à la déstabilisation des zones de conflit et à la propagation d’un l’Islam radical.
 
 
L’intérêt des Etats-Unis se porte de plus en plus vers l’océan Indien et le Pacifique, faut-il les suivre ? En réalité la défense de l’Europe ne passe pas par-là, nous n’allons pas nous battre pour les Spratleys et les Paracels.
 
Remarquons de plus que là où il s’agit de défendre les intérêts de la France, actuellement au Mali, l’Otan ne nous est d’aucune aide. Dans l’océan Indien pour lutter contre la piraterie, l’Europe s’est organisée et a mis sur pied l’opération Atalante à laquelle participe neuf nations européennes, ce qui prouve que, quand on veut on peut.
 
L’OTAN nous impose les choix d’équipements.
 
L’Otan fonctionne aux normes américaines, ce qui revient à dire qu’elle s’aligne sur les méthodes de combat américaines ce qui est toujours couteux et pas forcément efficace.
 
On est étonné quand on a connu les méthodes de combat du temps de Bigeard de voir crapahuter des hommes chargés de quarante kilos d’équipement, ce qui oblige à les véhiculer sur des itinéraires obligés et accroit leur vulnérabilité. Mais surtout la conception et les performances de nos matériels sont peu ou prou alignées sur les matériels américains.
 

L'armée de l'air espagnole : des avions US
 
Prenons un exemple évident, le Rafale, un avion dit polyvalent supposé bon pour toutes missions. Il s’agit en fait d’un intercepteur bi-sonique adapté à l’assaut et à l’appui au sol. C’est un excellent avion mais fort cher. Pour quelles missions avons-nous besoin d’un intercepteur bi-sonique ? Sommes-nous menacés par des avions de son niveau ? Il ne semble pas et pour faire la police de l’espace aérien français ou même européen, le Mirage 2000 n’était-il pas bien suffisant. D’ailleurs les Suisses sont sur le point de lui préférer le Gripen suédois, mono-réacteur moins performant mais moins cher.
 
Le Rafale est adapté à l’assaut et à l’appui au sol mais pour ces missions, il n’est nul besoin, bien au contraire, d’un avion bi-sonique si cher qu’on n’ose pas le risquer à basse altitude. Il aurait fallu développer un avion rustique, d’une grande autonomie et capable de grande capacité d’emport en armes, en quelque sorte un successeur de l’A-10 Thunderboldt II américain. Le Rafale de Dassault se trouve de plus confronté à l’Eurofighter Typhoon construit par un consortium européen. Les deux avions européens sont en concurrence, à ce jour Dassault n’a vendu aucun appareil hors de France, le Typhoon étant retenu par l’Autriche et l’Arabie Saoudite.
 
On constate de plus que la tendance mondiale, y compris en Europe, est d’acheter, pour des raisons souvent pol

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vendredi, 01 février 2013 | Lien permanent

La stratégie du chaos des néocons touche l’Europe

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La stratégie du chaos des néocons touche l’Europe

Auteur : Robert Parry
Traduction Christine Abdelkrim-Delanne/Afrique Asie
Ex: http://zejournal.mobi

Le chaos des réfugiés qui se développe en Europe, aujourd’hui – médiatisé par les photos poignantes du petit Aylan Kurdi dont le corps a échoué sur une plage de Turquie – est né des ambitions démesurées des néocons américains (conservateurs américains) et leurs acolytes les libéraux interventionnistes qui ont décidé de transformer le Moyen Orient et d’autres parties du monde par la stratégie du « changement de régime » .

Au lieu des mirifiques promesses de « promotion de la démocratie » et de « droits de l’homme », ces « anti-réalistes » n’ont fait que répandre la mort, la destruction et la déstabilisation à travers le Moyen Orient et certaines régions d’Afrique, puis, aujourd’hui, en Ukraine et au cœur de l’Europe. Cependant, comme ces forces néocons contrôlent toujours le « Discours Officiel », leurs théories, comme le fait qu’il n’y a pas assez de « changements de régime », bénéficient toujours la Une des médias.

Par exemple, Fred Hiatt, éditorialiste néocon du Washington Post, a accusé les « réalistes » d’être responsables de la cascade de catastrophes. Hiatt les a accusés, eux et le président Barack Obama, de ne pas être intervenus plus agressivement en Syrie dans le but de renverser le président Bachar al-Assad, depuis longtemps candidat des néocons au « changement de régime ».

En réalité, on peut faire remonter cette explosion accélérée de souffrances humaines à l’influence sans égale des néocons et de leurs compagnons de route libéraux qui se sont opposés à tout compromis politique, et, dans le cas de la Syrie, ont bloqué tout effort réaliste de trouver un accord de partage de pouvoir entre Assad et ses opposants politiques non terroristes.

Dès 2014, les néocons et les « faucons libéraux » ont saboté les accords de paix syriens à Genève en bloquant la participation iranienne et en transformant la conférence sur la paix en compétition unilatérale de vociférations durant laquelle les dirigeants de l’opposition syrienne financée par les États-Unis ont hurlé sur les représentants d’Assad qui sont rentrés chez eux. Pendant ce temps, les journalistes du Post et leurs amis n’ont eu de cesse de harceler Obama pour bombarder les forces d’Assad.

La folie de l’approche des néocons est devenue plus évidente l’été 2014 lorsque l’IS (l’État islamique), un rejeton d’Al-Qaïda qui a massacré des Syriens soupçonnés d’être favorables au gouvernement, a intensifié sa campagne sanglante de décapitation en Irak où ce mouvement hyper brutal a d’abord émergé comme « Al-Qaïda en Irak » en réponse à l’invasion américaine en 2003.

Il aurait dû être clair à la mi-2014 que si les néocons avaient réussi et si Obama avait lancé une campagne massive de bombardement pour détruire l’armée d’Assad, le drapeau noir du terrorisme aurait flotté sur la capitale syrienne de Damas et le sang aurait coulé à flots dans les rues.

Mais, aujourd’hui, un an plus tard, les « Hiatt » n’ont pas appris la leçon, et le chaos que fait exploser la stratégie néocons est en train de déstabiliser l’Europe. Aussi choquant et dérangeant que cela puisse l’être, rien de cela ne devrait être une surprise, les néocons ayant toujours entraîné le chaos et la destruction dans leur sillage.

La première fois que j’ai rencontré les néocons dans les années 1980, on leur avait donné l’Amérique latine comme terrain de jeu. Le président Ronald Reagan avait accrédité plusieurs d’entre eux, et fait entrer dans le gouvernement américain des illuminés comme Eliott Abrams et Robert Kagan. Mais Reagan les avaient maintenus relativement hors du « Royaume de la toute-puissance » : le Moyen Orient et l’Europe.

Ces zones stratégiques étaient réservées aux « adultes », des gens comme James Baker, George Schultz, Philip Habib et Brent Scowcroft. Les pauvres centre-Américains, occupés à essayer de se débarrasser de générations de répression et de sous-développement imposés par des oligarchies de droite dure, ont dû affronter les idéologues néocons qui ont généré escadrons de la mort et génocides contre les paysans, les étudiants et les travailleurs.

Sans surprise, il arriva un flot de réfugiés, particulièrement du Salvador et du Guatemala, vers le nord et les États-Unis. Le « succès » des États-Unis, dans les années 1980, en écrasant les mouvements sociaux progressifs et en renforçant les contrôles oligarchiques, a laissé la plupart des pays d’Amérique centrale dans les griffes de régimes corrompus et des syndicats du crime, entraînant toujours plus de vagues de ce que Reagan appelait les « feet people » (les gens à pied) par le Mexique à la frontière sud des États-Unis.

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Installer le chaos au Moyen Orient

Mais les néocons n’étaient pas satisfaits d’être assis à la table des enfants. Pendant l’administration Reagan, ils ont essayé de se hisser parmi les « adultes » à la table des grands. Par exemple, des néocons comme Robert McFarlane et Paul Wolfowitz, ont poussé la politique de leurs amis Israéliens contre l’Iran que les Israéliens considéraient alors comme un contrepoids à l’Irak. Cette stratégie a finalement conduit à l’« affaire Iran-Contra », le pire scandale de l’administration Reagan.

L’aile droite et les médias dominants américains n’ont jamais admis l’histoire compliquée de l’Iran-Contra et l’information sur différents aspects de criminalité dans ce scandale n’a jamais été diffusée. Les démocrates ont, également, préféré le compromis à la confrontation. C’est pourquoi, la plupart des néocons importants ont survécu aux affres de l’Iran-Contra, laissant leurs membres bien en place pour la phase suivante de leur montée en puissance.

Dans les années 1990, les néocons ont mis en place une infrastructure bien financée de think-tanks et de médias, bénéficiant à la fois des largesses des militaro-industriels qui finançaient les think-tanks et des organismes financés par le gouvernement comme le National Endowment for Democracy (NDM) (Fonds national pour la démocratie) dirigé par le néocon Carl Gershman.

Les néocons ont politiquement tiré le plus grand parti de la guerre du Golfe 1990-1991 grâce à l’armée américaine. De nombreux Américains ont commencé à considérer la guerre comme amusante, un jeu vidéo dans lequel les forces « ennemies » étaient détruites à distance. Dans les programmes TV d’actualités, les commentateurs au discours musclé ont fait fureur. Si vous vouliez être pris au sérieux, vous ne pouviez pas vous tromper en prenant la position la plus machiste, ce que j’appelle parfois l’« effet grondement er-er-er ».

Combiné avec l’écroulement de l’Union soviétique en 1991, la notion de suprématie militaire américaine fut sans égale et sans contestation, et a engendré les théories néocons visant à transformer la « diplomatie » en « ultimatums » américains. Au Moyen Orient, cette vision fut partagée par les Israéliens de la ligne dure qui en avaient assez de négocier avec les Palestiniens et autres Arabes.

À la place des négociations, il y aurait un « changement de régime » pour tout gouvernement qui n’adopterait pas la ligne. Cette stratégie a été élaborée en 1996, quand un groupe de néocons, dont Richard Perle et Douglas Feith, sont intervenus en Israël pour soutenir la campagne de Benjamin Netanyahu et ont concocté un document stratégique intitulé : « A Clean Break : A New Strategy for Securing the Realm ».

L’Irak a été la première cible sur la liste des néocons, mais suivait immédiatement la Syrie et l’Iran. L’idée centrale était qu’une fois éliminés ou neutralisés les régimes aidant les Palestiniens et le Hezbollah, Israël pourrait dicter ses conditions de paix aux Palestiniens qui n’auraient d’autre choix que d’accepter ce qu’on leur offrait.

En 1998, le projet Project for the New American Century, élaboré par les néocons Robert Kagan et William Kristol, appelait à une invasion américaine de l’Irak, mais le président Bill Clinton a reculé devant une décision aussi extrême. La situation a changé, cependant, à l’arrivée du président George W. Bush et les attaques du 9/11 (attentats des Twin Towers) qui ont terrifié et rendu furieuse l’opinion publique américaine.
Immédiatement, les néocons ont eu un Commandant en Chef pour approuver la nécessité d’éliminer Saddam Hussein, et il ne fut pas difficile de persuader les Américains, bien que l’Irak et Saddam Hussein n’avaient rien à voir avec le 9/11 (cf www.consortiumnews.com « The Mysterious Why of the Iraq War »)

La mort du « Réalisme »

L’invasion de 2003 a sonné la mort du « réalisme » en matière de politique étrangère à Washington. Vieux ou morts, les « adultes » se turent ou ont fait la sourde oreille. Du Congrès et de l’Exécutif aux think-tanks et aux principaux médias d’information, pratiquement tous les « leaders d’opinion » étaient des néocons et de nombreux libéraux se rangèrent derrière les arguments de Bush en faveur de la guerre.

Et même si le « groupe pensant » de la guerre d’Irak avait pratiquement complètement tort à la fois sur les armes de destruction massive comme justification de la guerre et sur l’idée que ce serait « du gâteau » de mettre en place un nouvel Irak, pratiquement aucun de ceux qui avaient soutenu le fiasco, n’a été sanctionné pour l’illégalité de l’invasion ou pour le soutien à un plan totalement dénué de bon sens.

Au lieu de répercussions négatives, ceux qui ont soutenu la guerre en Irak – les néocons et leurs complices Libéraux et Faucons (aile dure des Républicains) ont essentiellement renforcé leur contrôle sur la politique étrangère américaine et les majors du secteur médiatique d’information. Du New York Times et Washington Post à la Brooking Institution et l’American Entreprise Institute, le programme de « changement de régime » a continué d’élargir son influence.

Peu importait que la guerre sectaire en Irak tue des centaines de milliers de personnes et provoque le déplacement de millions d’autres ou qu’elle donna l’occasion d’émerger à la branche impitoyable d’al Qaïda en Irak. Pas même l’élection de Barack Obama, en 2008, pourtant un opposant à cette guerre, n’a changé cette dynamique globale.

Plutôt que de résister au nouvel ordre en matière de politique internationale, Obama s’est incliné, retenant des joueurs clefs de l’équipe de sécurité nationale du président Bush, tels que le Secrétaire à la Défense, Robert Gates et le général David Petraeus, et recrutant des va-t-en-guerre démocrates, dont Hillary Clinton qui est devenue Secrétaire d’État, et Samantha Power du Conseil national de sécurité.

Ainsi, le culte du « changement de régime » n’a pas seulement survécu au désastre irakien, il s’est développé. Chaque fois qu’un problème émergeait à l’étranger, « La » solution était le « changement de régime », accompagné de l’habituelle diabolisation d’un dirigeant ciblé, du soutien à une « opposition démocratique » et d’appels à l’intervention militaire. Le président Obama, probablement un « closet realist » (réaliste de cabinet) s’est retrouvé dans le rôle du « timoré en chef », poussé, à contrecœur, d’une croisade pour un « changement de régime » à une autre.

En 2011, par exemple, la Secrétaire d’État, Hillary Clinton et Power, du Conseil national de sécurité, ont convaincu Obama de s’allier avec quelques dirigeants européens « chauds pour la guerre » pour réussir le « changement de régime » en Libye, où Mouammar Kadhafi s’était lancé dans l’offensive contre des groupes qu’il avait identifiés comme des terroristes islamistes, dans l’est libyen.

Pour Clinton et Power il s’agissait de tester leurs théories de « guerre humanitaire » – ou « changement de régime » – visant à chasser du pouvoir un « voyou » comme Kadhafi. Obama a rapidement adhéré et, avec le soutien technologique crucial de l’armée américaine, une campagne de bombardements dévastateurs a détruit l’armée de Kadhafi, l’a chassé hors de Tripoli, pour finalement le conduire à son assassinat par la torture.

Nous sommes venus, nous avons vu, il est mort !

Hillary Clinton s’est dépêchée de tirer parti de ce « changement de régime ». Dans un échange d’email, en août 2011, son ami de longue date et conseiller personnel, Sidnay Blumenthal, fit l’éloge de la campagne de bombardement visant à détruire l’armée de Kadhafi et salua l’expulsion du dictateur gêna

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jeudi, 24 septembre 2015 | Lien permanent

La Nato contro l’Europa?

La Nato contro l’Europa?

di Daniela Coli
Fonte: istitutodipolitica


untitledIl summit della Nato reduce dagli insuccessi in Afghanistan, Iraq e Libia poteva essere l’occasione di una riforma o addirittura di una scomparsa della Nato, come auspica Sergio Romano, per il quale l’Unione europea è prigioniera della Nato e non può sviluppare una propria politica estera autonoma dagli Stati Uniti. E’ difficile però immaginare un’Unione europea di ventotto paesi diversi per storia, interessi e geopolitica con una politica unica per Russia, Medio Oriente ed Africa. Ventotto paesi diversi che, in definitiva, affidano la direzione della propria difesa agli Stati Uniti possono anche essere giocati l’uno contro l’altro, o gli uni contro gli altri, se conviene al più forte. Basta pensare alla Libia, con francesi e inglesi alleati con Obama sotto le insegne della Nato a bombardare la Libia per mandare via gli italiani da un paese con cui l’Italia aveva appena firmato un trattato di collaborazione, come la Francia con l’Algeria. La Libia è la porta dell’Africa e destabilizzare la Libia significa destabilizzare l’Africa: non c’è da stupirsi se adesso l’Africa è insidiata dal terrorismo islamico e vari stati rischiano di trasformarsi in una nuova Somalia e in una nuova Libia. Il pericolo è ritrovarci con le bandiere nere di ISIS in casa, mentre gli Stati Uniti sono lontani, protetti da due oceani. L’Unione europea è troppo debole per avere una politica estera autonoma, da nord a sud è un’immensa base per ogni impresa americana: è diventata il cortile di casa americano, mentre l’America Latina si è emancipata, ha buoni rapporti con SCO (la Shanghai Cooperation Organization il cui summit si tiene il prossimo 11-12 settembre) capeggiata da Russia e Cina, e può addirittura vantare una piccola “reconquista” negli stati meridionali dell’America del Nord, dove lo spagnolo è ormai la seconda lingua.

Il summit Nato di Newton si è concluso con le dichiarazioni di Obama di una coalizione per distruggere ISIS e di cinque basi di intervento nei Paesi baltici per difendere l’Unione europea dall’imperialismo di Putin, anche se il presidente US ha dichiarato che non saranno inviati soldati americani nelle aeree di conflitto, ma solo aerei e droni. Il ministro della difesa britannico Philip Hammond ha precisato subito che per ora non vi è alcun impegno UK per attacchi aerei su ISIS. È lo stesso Hammond che nel giugno 2013, in visita in Afghanistan, disse che l’Iraq era il Vietnam britannico e l’UK non voleva altre guerre. Dopo il G8 in Irlanda, dove solo il nuovo Hitler Putin si oppose alla proposta di Obama di bombardare la Siria, il 29 agosto 2013 il parlamento britannico votò contro l’intervento in Siria: non accadeva dal 1872 che un governo britannico fosse battuto sulla guerra in parlamento. Poi è venuto il ciclone Farage alle europee a minacciare i partiti atlantici tory e laburista e un importante leader tory ha recentemente defezionato per il UKIP. Se teniamo conto degli interventi di Patrick Cockburn, corrispondente dal Medio Oriente dal 1979 per il Financial Times e ora per l’Independent, autorevole voce londinese, qualcosa sta muovendosi in Gran Bretagna. Per Cockburn l’invasione dell’Iraq del 2003 ha cambiato l’equilibrio globale del potere e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Nei giorni inebrianti della caduta di Saddam, gli americani dichiararono che dopo l’Iraq sarebbero caduti l’Iran e la Siria, provocando la mobilitazione iraniana e siriana a sostegno di tutti i nemici dell’America nell’area. Come se non bastasse, sciolsero l’esercito iracheno, che non aveva deciso di morire per Saddam e non aveva combattuto, innescando il conflitto tra sunniti, sciti e curdi. La Siria, in guerra civile da tre anni, è un pantano molto più profondo e pericoloso di quello iracheno, perché la guerra civile siriana ha devastato tutta la regione e non si comprende quale sarà il nuovo assetto del Medio Oriente dopo la fine dell’ordine Sykes-Picot: per ora sembrano trarne vantaggio solo i curdi sparsi tra Iraq, Siria, Turchia e Iran. In Siria hanno vissuto tranquillamente per secoli sciti, sunniti, cristiani e perfino ebrei. L’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) è il risultato della guerra in Iraq e dei tentativi americani e dei loro alleati di far cadere Assad, armando ribelli che adesso decapitano giornalisti americani. Nonostante gli attacchi aerei, sarà difficile fermare ISIS per il corrispondente britannico e anche un’azione della Nato insieme ad Assad è difficile riesca. Per Cockburn non è una guerra di religione, ma di YouTube. Sono i video postati su YouTube da attivisti politici e rilanciati dai media occidentali a caccia di immagini e notizie sensazionali che alimentano l’esercito di ISIS, il cui obiettivo è affermarsi anche in Europa e in Cina. I tanti giovani britannici di origine araba che vanno a combattere per ISIS non sono il risultato del Corano e di iman malefici. Sono il risultato di processi psicologici simili a quelli descritti nel Fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid: il giovane pakistano Changez, PhD a Princeton, superpagato analista finanziario di Wall Street, riscopre l’identità pakistana e musulmana nella New York post-9/11 terrorizzata da ogni faccia araba, che lo umilia trattandolo come un terrorista. Changez si sente diverso, è diverso, recupera la sua identità e vola in Pakistan. Nell’isteria della guerra globale al terrorismo possiamo immaginare quali effetti possano avere avuto sui giovani cittadini britannici, francesi, italiani, tedeschi o americani di origini araba i video della prigione di Abu Graib, dei piloti americani che da un elicottero Apache sparano su civili iracheni nelle strade di Baghdad o dei soldati americani che urinano su talebani morti in Afghanistan, senza contare le campagne di droni che uccidono civili come se fossero animali. Come sostiene Giovanni Sartori, la Gran Bretagna non è diventata multietnica e multiculturale per buonismo, ma per rifare l’impero. Un’idea antica: l’impero ottomano aveva i giannizzeri: rapiva bambini cristiani nei Balcani, soprattutto in Albania, li cresceva ed educava come ottomani e poi li mandava a uccidere nelle terre d’origine. I giovani britannici ed europei di origine araba che vanno a combattere per ISIS, come nel 2003 partivano per combattere in Iraq, non vogliono essere i giannizzeri dell’impero americano. ISIS non è una solo una sfida militare, ma, come sostiene Ernesto Galli della Loggia (Il Corriere della Sera, 7 settembre 2014), anche una sfida al multiculturalismo e ai valori americani, considerati astrattamente universali e da imporre in ogni caso a tutto il globo. È la sfida all’impero globale americano, ai suoi valori e miti, che noi europei accettiamo passivamente, trasformandoli subito in leggi sacre. Il video del giornalista americano Foley, sgozzato da un britannico di origine araba e i numerosi cittadini europei di origine araba (non solo britannici, ma anche francesi, italiani, tedeschi e americani) combattenti nelle file ISIS mostra il volto del multiculturalismo in Europa. I tanti video di giovani cittadini europei che invitano alla jihad fratelli e amici in Europa, rivelano il fallimento del multiculturalismo.

Inutile dare la colpa a Obama, accusandolo di non avere strategia: Obama si è comportato come ogni presidente americano, si è trovato ad affrontare il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e i problemi delle amministrazioni precedenti. Ha usato droni invece di aerei, ha bombardato dovunque in Afghanistan, Medio Oriente e Africa, ha ideato le arab springs o le twitter revolutions per scardinare l’assetto Sykes-Picot in Medio Oriente, ha attaccato la Siria armando ribelli islamici, ha distrutto la Libia e ora scarica droni in Somalia e Nigeria su terroristi islamici: ha prodotto il caos. Adesso c’è anche la Russia nel mirino americano. Pepe Escobar, l’autore di Globalistan: how the globalized world is dissolving into liquid war (2007), scrive spesso che gli Stati Uniti sono l’impero del caos. Nel caos, però, può esserci una strategia, una strategia pericolosa per l’Europa, perché gli Stati Uniti possono sempre ritirarsi protetti da due oceani, mentre l’Europa non può certo cambiare posizione geografica. L’Europa deve smettere di fare la bella addormentata in attesa del principe azzurro: può solo salvarsi, come ha fatto tante volte nella sua storia secolare, ritornando al realismo politico, perché la storia – sbagliava Fukuyama – non è finita.


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dimanche, 14 septembre 2014 | Lien permanent | Commentaires (1)

Washington’s Sunni Myth and the Middle East Undone

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Washington’s Sunni Myth and the Middle East Undone

Ex: http://warontherocks.com

A Westerner with extensive on-the-ground experience in Syria and Iraq tackles conventional Western views of the civil wars in Iraq and Syria and proposes a dramatic rethinking of the region.

Editor’s Note: This is the second of two articles on this topic, the first of which was published last week. There has been some controversy over my decision to allow this author to write under a pen name. I know the author’s identity and while his arguments are surely controversial, I am confident in his sourcing and subject matter expertise. I carefully considered his request to use a pen name. I decided that this case reasonably meets the standards for such protection published on our site. The author, in my view, can reasonably and seriously fear for his professional employment and safety publishing under his real name. -RE / Update: The author’s pen name has been changed to protect someone with the same name who has nothing to do with the article.

I was not surprised to see my first article greeted with so much outrage by those who adhere to the conventional Western narrative of the civil wars in Iraq and Syria as well as the larger tumult of the Middle East. In truth, these conflicts are not so easily defined by the easy sectarian narrative offered in the Western press.  I argued that Western elites were surrendering to and even embracing the Saudi definition of what Sunni identity should mean. And I provided accounts of the conflicts in Syria and Iraq that do not comport with what you likely have been reading in the newspapers.

But there is far more to the story. It is worth recounting how we got to this point. In the aftermath of the toppling of Saddam and his regime, Iraq’s Sunnis were betrayed by many of their own religious, political, and tribal leaders who demanded that they boycott the post-2003 political order by waging an insurgency against the world’s most powerful military and the government it sought to stand up and support. Of course, it did not help that the U.S.-led occupation and the security forces it empowered victimized Sunni Iraqis disproportionately. The American military’s posture was more aggressive in Sunni-majority areas, and Iraqi security forces collaborated with Shia death squads in pursuit of a vicious counterinsurgency strategy that saw bodies piled up and neighborhoods cleansed. Iraqis en masse suffered from a collective trauma that will take decades to recover from. But hardline Sunni rejectionists and their Western backers have claimed that if Sunnis are not “empowered” then there is no alternative available to them but the Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL). When adopted by Westerners, this argument seems to support Sunnis but actually represents a very low opinion of them because it holds that Sunnis require disproportionate political power to avoid becoming terrorists. Since 2003, Sunni rejectionists have pushed this narrative to hold Iraq hostage, blackmailing Baghdad and its allies like gangsters in a protection racket.

If Sunni leaders did not receive the government position or the business contract they wanted, they would then claim persecution on account of their Sunni identity, switch sides, gather their relatives, and use violence. Examples of this phenomenon from early 2013 include:

Still, the West has pressured the Iraqi government to allow into its ranks Sunni representatives like the above, who oppose the very legitimacy of the government and the notion of a Shia ruler. There were no Shias in the Anbar or Ninawa provinces to threaten Sunnis.  At best, they were politically disgruntled, which is an insufficient reason to embrace the world’s most vicious terrorist organization.

The Jihad Returns to Haunt Syria

The interplay between the conflict in Iraq and the Syrian civil war created a perfect storm. The U.S.-led occupation of Iraq and the sectarian war it ignited influenced how Syrian Sunnis thought of themselves. The Syrian government was warned that it was next in line for regime change, and it took preemptive measures to scuttle the American project in Iraq. By supporting or tolerating insurgents (including al-Qaeda) for the first three years of the occupation, Damascus sought to bog the Americans down. But by then, the Syrian government had lost control of its eastern border. After 2006, at least one million mostly Sunni Iraqis fled into Syria, including some with ties to the insurgency who either came to Syria to facilitate insurgent operations in Iraq, to find a safe place for them and their families, or both. Many former al-Qaeda in Iraq members had fled to Damascus and were living normal lives as family men and laborers before the Syrian crisis erupted in 2011. In my own interviews with detained members of Jabhat al-Nusra, I learned that when the Syrian insurgency started, these men were contacted by old friends who told them, in effect, “We’re putting the band back together.” Many of these Iraqis formed the early core of al-Nusra, which until recently was al-Qaeda’s Syrian affiliate.

By 2010 or 2011, Iraq appeared to be stable. When the uprising started in Syria and the country became unstable, many of the Iraqi Sunni rejectionists returned to Iraq from their Syrian exile. Insurgents in Syria had created failed state zones, power vacuums full of militias, and a conservative Islamist Sunni population mobilized on sectarian slogans. The Turks were letting anyone cross into Syria, which was exploited most successfully by jihadists. By the summer of 2012, many local Syrians saw the arrival of foreign fighters in a positive light, as if they were members of the Lincoln Battalion of foreign volunteers in the Spanish Civil War. As I myself witnessed, they were welcomed and housed by Syrians, who facilitated their presence and cooperated with them.

These thousands of foreign fighters in Syria eventually sided in large numbers with ISIL, seizing parts of Syria. From there, the group was able to launch its offensive into Iraq in the summer of 2014 (although the ground in Mosul had been prepared by the jihadists for quite some time). The prospect of a Sunni sectarian movement seizing Damascus evoked their dreams of expelling the Shia from Baghdad (although the difference, of course, is that Baghdad is a Shia-majority city, unlike Damascus). The Syrian uprising mobilized public and private Gulf money for a larger Sunni cause in Syria, Iraq, and elsewhere in the region. A lot of this support went to the Sunni rejectionists of Iraq, who staged sit-ins and demonstrations in majority-Sunni cities in Iraq. Meanwhile, Al Jazeera had transformed from the voice of Arab nationalism into the voice of sectarian Sunnis, virtually promoting al-Qaeda in Syria and celebrating the initial ISIL “revolutionaries” in Iraq.

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From Syria, Back to Iraq

In 2012, as jihadists gathered in centers of rebellion around Syria, Sunni rejectionists in Iraq allowed jihadists to re-infiltrate their ranks as they launched this campaign of demonstrations, thinking they could use the presence of these men as leverage against the government. At the time, al-Qaeda and ISIL forerunner Islamic State of Iraq were still united. They had systematically assassinated key leaders of the “Awakening” movement, neutralizing those that could have blocked the jihadist rapprochement with Sunni leaders in Iraq. From 2006 to 2009, they also assassinated many rival insurgent commanders to weaken alternative armed movements. Former insurgents described to me how just before the Americans withdrew from Iraq in 2011, insurgent leaders from factions as politically diverse as the Naqshbandis, the Islamic Army, the Army of the Mujahedin, and the 1920 Revolutions Brigades all met in Syria to plan to take the Green Zone in Baghdad (an ambition that was, ironically, accomplished this year by Shia rather than Sunni masses). While these groups initially lacked the ability to take the Green Zone, they made their move when the demonstrations started with the help of the Islamic State, which saw utility in cooperating with these groups, for the time being.

When Sunni protestors in 2012 and 2013 filled squares in Ramadi, Mosul, Hawija, Falluja, and elsewhere chanting “qadimun ya Baghdad (“we are coming, Baghdad”), it was hard for the government and average citizens in Baghdad not to interpret this as a threat from various Sunni-majority cities. These were not pro-democracy demonstrations. They were rejecting the new order — an elected government — and calling for overthrow of the Shia.

Sunni rejectionist leaders rode this wave of support and became a key factor in how easily ISIL later seized much of the country. According to Iraqi insurgents I spoke to, ISIL’s leaders initially thought that they would have to depend on former insurgents, including Baathists, as a cover to gain support. While ISIL’s jihadists did initially cooperate with some of these groups, it was not long until ISIL discovered it did not need them and purged them from its newly seized territories. Many Sunni rejectionist leaders, now understanding the horror of what they helped to unleash, then fled, leaving their populations displaced, destroyed, and divided. Likewise in Syria, Sunni rejectionists and their Western supporters argued that the only way to defeat ISIL is to topple Assad, and thus placate their sectarian demands. And the West somehow believes that they are representative of Syria’s Sunnis writ large. The secular or progressive opposition activists amenable to pluralism unfortunately have no influence because they have no militias of their own.

The Evolution of Sectarian Identity in the Modern Middle East

There is a major crisis within Sunni identity. Sunni and Shia are not stable, easily separable categories. Twenty years ago, these terms meant something else. The 2003 invasion of Iraq was the geopolitical equivalent of the asteroid that caused the extinction of the dinosaurs. Just as species were killed off or arose thanks to that cataclysm, so too in the Muslim world, old identities were destroyed while new ones were created, as discussed by Fanar Haddad at the Hudson Institute. One of these new identities was the post-Saddam “Sunni Arab,” treated by their Western taxonomists as if they were an ethnic group rather than a fluid, fuzzy, and diverse religious sect. For centuries, Sunni identity was conflated with “Muslim” and the identity of “Muslim” was distinct from members of heterodox or heretical sects. Generally speaking, Shias living in areas dominated by Sunnis were subordinate to them juridically and by custom. The war in Iraq helped create a sense of “Sunni-ness” among otherwise un-self-conscious Sunni Muslims,  and it also overturned an order many took for granted. To make matters worse, not only we

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lundi, 29 août 2016 | Lien permanent

Why Washington Provides Neither Peace Nor Prosperity

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Daniel McAdams: Why Washington Provides Neither Peace Nor Prosperity

The Daily Bell

From the Bionic Mosquito

Today’s DB interview is with Daniel McAdams, from the Ron Paul Institute for Peace and Prosperity.  The interview offers a valuable reminder that war is the issue for all individuals concerned with libertarian, liberal, and free-market (e.g. Austrian) ideas.

I offer only a couple of quotes from the interview:

I view [the Institute’s] number one priority to be fighting war propaganda. Calling out the lies of the neocons and a lapdog mainstream media that walks lock-step with the US regime, regardless of which party is in power.

I am not aware of many organizations that do this regularly and continuously, as a matter of principle (of course, LRC and the Mises Institute come to mind).  Speaking out against war is an end unto itself, the single-most important work that can be done by those concerned with liberty and freedom.

[The Institute] hope[s] to expand our outreach this coming year to include small seminars, conferences, and eventually a foreign policy summer school modeled on the Mises Institute’s summer program in Austrian economics.

I applaud this effort; in addition to the summer program in Austrian economics at the Mises Institute, it seems to me that there is a need for two other such programs – the one mentioned by McAdams regarding foreign policy and another on revisionist history regarding war.  I guess these latter two may be combined, as understanding the lies of wars past offers a good foundation for developing sound foreign policy today.

Read the interview; support all voices against aggressive war.

From the Daily Bell

Daily Bell: Hello. Thanks for taking time to speak to us.

Daniel McAdams: Thank you. I have been a Daily Bell reader for years and what a thrill to be interviewed by the publication!

Daily Bell: Thank you. That’s a very kind compliment. You are executive director of the Ron Paul Institute. Give us a sense of the scope and priorities of the Institute? How is it doing? Is outreach going well?

Daniel McAdams: We came up with the concept around the time Dr. Paul called us all in to his congressional office in the midst of his last presidential run to inform us that he was retiring from Congress. It was a dramatic moment for all of us on his Washington staff, as we had worked together for more than a decade through some of the most difficult times. There was definitely the feeling of us being contra mundi on the Hill.

The idea of the Institute was to continue Dr. Paul’s outreach and education in the areas of foreign policy and civil liberties, with a special focus on how a peaceful foreign policy leads to real prosperity. “Peace, commerce, and honest friendship,” as it was said. Similarly, we felt it was important to shine the light on the nexus between the financial interests of the global elites and the promotion of war and destruction. Thus we criticize the Federal Reserve as the chief banker of the war machine.

We knew we could not compete financially with the big Beltway think tanks, whose budgets overflow with the profits of the military-industrial complex. But it is also true that it only takes a few motivated people to really make a difference. So we set out to make the case for uncompromising non-interventionism. Unlike the Beltway thinkers, we never wanted to serve up tedious policy prescriptions to PhD.’s or “global chessboard” geopolitical bloviators. We put together a top-notch “beyond Left/Right” board of advisors, drawn largely from the group of guest speakers at Dr. Paul’s famous Thursday policy lunches held in his congressional office.

The Institute’s intended audience is the millions worldwide who have had their eyes opened to non-interventionism and the importance of protecting civil liberties by Dr. Paul’s 40 years in public life, and particularly those who saw the light through his last two presidential campaigns. Of course we also want to reach the many who are on the verge of having their eyes opened! Our audience is the informed and interested average reader – preferably one with a sense of humor and appreciation for a bit of sarcasm here and there.

The current centerpiece of the Institute’s outreach efforts is our increasingly influential website, on which we feature Dr. Paul’s regular weekly column, the original writings of myself and my colleague Adam Dick, and a highly-curated collection of the best writing available drawing heavily from the work of our board members and associates. Our aim is to create a highly readable product that is thought-provoking, slightly edgy, and oftentimes cheeky especially when poking fun at the neocons. We have passed 110,000 Facebook followers and I am fascinated by the lively and well-informed debate among our readers when we post our articles there. Our original work is regularly republished by hundreds of news websites around the world. I appear regularly on television and radio programs worldwide, and I speak at various conferences and events.

We are the publisher of Ron Paul’s new book, which is in its final stage of preparation for release this spring. This is to be his first book dealing with foreign policy and war since 2007 and his first book since he retired from Congress in 2013. It is a great book and people are going to be very surprised by it!

We also will launch a couple of programs as we begin our third year in operation. First planned is a unique kind of fellowship program for young communicators. We would like to help train the next generation of critical thinkers in writing about foreign policy and civil liberties for our kind of audience.

Daily Bell: Give us some background on your relationship with Ron Paul. How did you first come to know him? What is it in particular that has led you to work with him some 14 years now?

Daniel McAdams: I first came to hear the name “Ron Paul” as I was sitting in my apartment in Budapest, Hungary at the end of the 1990s while the US was gearing up for war on Serbia. I had discovered Antiwar.com and Justin Raimondo’s writing through a then-popular conservative discussion website and I noticed Antiwar.com kept posting remarkably insightful columns on the Balkans by a US Congressman called Ron Paul. At the time I was making regular trips to the Balkans, writing about the impending disaster of US intervention there. I was amazed that someone back in the US really “got it” and from then on I always hoped to at least let him know how much I appreciated his work.

I had not given a great deal of thought to the concept of non-interventionism and in fact I had a fellowship at the time to do a book on how the US needed to start supporting the “good guys” overseas instead of the “reformed” commies that Clinton had been backing. It was through reading Dr. Paul and the other greats like Lew Rockwell and his group that I came to understand that the only logical solution to the problem of the post-Cold War era was to embrace non-interventionism as the guiding principle of US foreign policy. Nothing else made sense. So…I kind of wasted a year writing book! But of course it was not a waste at all, as I discovered the practicality of the non-interventionist perspective. It was not really theoretical to me. I came to realize that not only was it impossible for the US, thousands of miles away, to accurately pick the “good guys” to support overseas, it was immoral for them to attempt to do so.

Daily Bell: You recently moved your family and the Institute to Texas so you could office closer to Dr. Paul?

Daniel McAdams: Well, because we were never going to be a think tank in the Washington, D.C. sense of the word, it made very little sense to waste our time and very limited resources trying to influence those whose vested interests were in maintaining the US empire. It made much sense to decamp to where we could work more closely with Dr. Paul, operate more cheaply, and better connect with our intended audience.

Daily Bell: Give us a sense of the priorities of the Institute. With all the issues that need addressing these days, what’s most important, from the Institute’s perspective?

Daniel McAdams: There are numerous organizations that call themselves “antiwar” and many of them legitimately so. But opposing war once it has started is akin to buckling your seat belt after an auto accident. It’s too late! I view our number one priority to be fighting war propaganda. Calling out the lies of the neocons and a lapdog mainstream media that walks lock-step with the US regime, regardless of which party is in power. That is also where you are in the bulls-eye of the war-promoters. And it’s always the same. When Dr. Paul strongly opposed the war on Iraq – and especially the propaganda that lied us into that war – he was called an apologist for Saddam. These days when we point out that the US government has yet to show any evidence of the massive Russian invasion of Ukraine they claim took place over the past year, we are called “Putin’s mouthpiece.” You will notice that the war-promoters always seek to personalize their propaganda. It is always about Saddam and Gaddafi and Assad and Putin. They rely on creating a single demon upon which we are supposed to focus our daily two minutes of hate. Worst of all, so far it works.

Daily Bell: How did you become involved in the freedom movement generally? What made you go to work with Ron Paul initially?

Daniel McAdams: I am slightly wary of what are called “movements.” Too often they can devolve into restricting doctrines and even cultish tendencies. I prefer to focus on the principles and the issues. There are plenty of young people these days who are interested in Dr. Paul’s ideas. That is absolutely terrific and encouraging. But in my opinion, many of them need to read more and concentrate less on being “activists.” That is why we formed the Institute: to help ground the energy and activism in real knowledge of the issues. Nothing wins a debate better than a deep understanding of the current facts and also the antecedents.

My work with Dr. Paul began almost by accident. When I returned from Europe at the end of 1999, I was finally able to deliver to one of Dr. Paul’s staffers my message of thanks for all the excellent articles Dr. Paul had written about US policy in the Balkans. I was moping around Washington without work after being dismissed from a very unsuited think-tank job (long story) when out of a blue came a call from that very same Ron Paul staffer asking whether by chance I was looking for work! He had been planning to leave the office and he wanted to find a suitable possible replacement before he announced his intentions to Dr. Paul. It was a life-changing moment, to say the least.

Daily Bell: Give us some background into your own education and work before joining Dr. Paul.

Daniel McAdams: Well, ha ha, I was an English major at UC Berkeley in 1988. I had no idea what to do with that! It was a time of economic recession and so I did the absolutely logical thing in such circumstances: I went to graduate school! The only useful thing that came out of that for me was an internship in the State Department’s Bureau of Intelligence and Research, which taught me how to condense three weeks of reading classified and unclassified material into three sentences in the Secretary of State’s Morning Intelligence Summary. Brevity and clarity.

Daily Bell: You worked in eastern Europe. Tell us about that.

Daniel McAdams: While working on my masters in international relations in 1992 I had an offer to go to Budapest and help the local Gallup office set up a think tank to study the sociological aspects of the regime change in Hungary and eastern Europe. I was doing my thesis on the system change in Hungary so I thought it would be a good idea to break from academia and really get a feel for what was happening on the ground.

So along with my eager wife we left San Francisco for Budapest, where we remained for seven years. Faced with the realization that the Gallup job was more or less a farce and that I did not yet want to go home, I luckily landed a position as editorial page editor of the Budapest Sun, which was then owned by the current military writer for USA Today, Jim Michaels. Jim was a great friend and mentor and he helped me bridge the gap between my former academic writing and the real world of writing for real people.

Eventually I was invited to work with a group of Oxford intellectuals in the British Helsinki Human Rights Group, where I began traveling chiefly to the Balkans to monitor elections and political unrest. I was there for what I consider one of the prototype US-led regime change operations, in Albania in 1996. In my somewhat naïve state I was astonished that the US government was overthrowing a genuinely anti-communist and free-market leader, Sali Berisha, in favor of the barely reformed and still very thuggish former communist party. Surely there must be some mistake, I was convinced. Soon I realized that the US supported the “reformed” communists in east Europe not because they were secretly pro-commie, but rather because they sought above all

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samedi, 28 mars 2015 | Lien permanent

Boko Haram : le bras armé de l’Occident pour détruire le Nigéria

US-funding-boko-haram-nigeria-al-qaeda-al-shabab.pngBoko Haram : le bras armé de l’Occident pour détruire le Nigéria et chasser la Chine du Golfe de Guinée

Ex: http://www.toutsaufsarkozy.com

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Les amis du Nigéria ne sont pas ceux qui, par une communication surfaite, proposent leur « aide » pour lutter contre la secte islamiste. Il s’agit plutôt d’embrasser l’ennemi nigérian pour mieux l’étouffer ! Premier pays producteur de pétrole en Afrique et sixième mondial avec 2,5 millions de barils par jour, le Nigéria a commis le « crime » de céder des puits de pétrole à la Chine. Une concurrence jugée insupportable pour les USA, la France et l’Angleterre qui pompent le pétrole nigérian sans inquiétudes depuis 50 ans. De leur côté, les pétromonarchies arabes s’inquiètent d’un Nigéria trop puissant qui pourra ne plus se soumettre au diktat de l’Arabie Saoudite et du Qatar sur le marché du pétrole et du gaz. A l’image de l’Iran (2ème) et du Venezuela (5ème producteur de pétrole mondial) qui gèrent leur pétrole en toute souveraineté. Boko Haram est le cheval de Troie qu’utilisent les puissances impérialistes pour contrer la Chine et détruire la première puissance économique africaine qu’est devenu le Nigéria en le divisant en deux états comme au Soudan.

Quelques questions pour briser le tabou

Première puissance économique africaine depuis le premier trimestre 2014, premier pays producteur de pétrole en Afrique, le Nigeria qui conserve par ailleurs sa confortable position de première puissance démographique (180 millions d’habitants) du continent retient de plus en plus l’attention des médias. Seulement, dans les chaînes de télévision ou les colonnes des journaux, cette triple puissance qu’est le Nigeria est désormais réduite à un nom devenu son synonyme : Boko Haram. Présenté par les« grands »médias « presstitués » comme un groupe de « fous de Dieu », Boko Haram n’aurait pas d’autres visées que de créer un Califat dans une partie du Nigeria, à défaut de soumettre tout le pays à la loi islamiste, la Charia. Aucun lien avec les puissances impérialo-capitalistes engagées dans une lutte à mort pour conserver l’hégémonie mondiale face à la Chine. Et grâce à la grande communication faite autour de l’ « enlèvement » le 14 avril 2014 de plus de 200 jeunes filles (le nombre varie en fonction des sources) dans la localité de Chibok, la secte islamiste a acquis une renommée planétaire. Ses actions sont relayées autant que celles des autorités nigérianes sont censurées. Comme pour prouver aux yeux du monde que le président nigérian, Jonathan Goodluck n’a paradoxalement aucune chance !

Mais est-ce une surprise si ces médias « oublient » systématiquement de vous dire à qui profitent en dernier ressort les crimes commis par la secte Boko Haram ? Pourquoi notre grande presse garde-t-elle un silence complice sur les origines des fonds et des armes lourdes qui permettent aux adeptes de Boko Haram de semer la mort au Nigeria, et bientôt au Cameroun ? Pourquoi les médias qui arrosent le monde ne diffusent-ils pas ce câble de Wikileaks qui citait nommément l’ambassadeur des Etats Unis d’Amérique à Abuja, Terence P. MacCulley comme le coordinateur des actions de déstabilisation du Nigeria ? Face à la redéfinition des équilibres géostratégiques imposée par la pénétration de la Chine en Afrique, Boko Haram comme la Séléka en République Centrafricaine est devenue une arme redoutable pour préserver la mainmise des multinationales occidentales sur les matières premières et accélérer la mise en place d’Africom, le Commandement militaire US pour Afrique.

BokoHaram : à qui profitent les crimes de la secte islamiste ?

Pour envahir l’Irak et tuer son président au nom du pétrole, les Etats Unis d’Amérique de Georges Bush ont trompé la planète entière en affirmant que Saddam Hussein, devenu l’ennemi à abattre détenait des armes de destruction massive. Colin Powell est allé plus loin en sortant des tubes à essai qu’il a présentés en mondovision comme les échantillons de ces armes à la disposition de Saddam Hussein. 10 ans après, tout le monde a constaté qu’il s’agissait d’un gros mensonge made in Washington.

En 2011, une vidéo sur le chef de guerre congolais Joseph Kony postée sur You Tube et largement commentée dans les médias a été regardée dit-on par plusieurs millions d’internautes. Stupéfaits par les crimes de Joseph Kony, les internautes du monde entier ont juré la perte de Kony. En retour, les USA ont proposé leur aide pour officiellement traquer les troupes de l’Armée de Résistance du Seigneur que commande l’ « invisible » Kony. Trois ans après, le résultat est le suivant : Joseph Kony est toujours en fuite. Mais au nom de sa traque, les USA ont installé des bases militaires en République Démocratique du Congo, en Ouganda, en République Centrafricaine, etc.

Autrement dit, à travers cette campagne, Washington a solidement installé les bases militaires dans cette partie de l’Afrique particulièrement riche en minerais précieux et très sollicités par la Chine qui en a grand besoin pour son industrialisation.

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Le Nigeria fait son entrée dans la gueule du loup

Membre de l’Organisation des pays exportateurs de pétrole (Opep) depuis 1971, le Nigeria garde le record de putschs en Afrique. Le pays a connu plusieurs groupes irrédentistes parmi lesquels le Mouvement pour la Survie du peuple Ogoni (Mosop) que dirigeait l’écrivain Ken Saro-Wiwa (pendu en 1995), le Mouvement pour l’Emancipation du Delta du Niger (Mend). Le Mosop et le Mend avaient des revendications clairement formulées : gestion inclusive des ressources pétrolières. Les membres des deux organisations faisaient recours aux moyens légaux descendant dans la rue pour manifester mais n’hésitaient pas à prendre les armes pour s’attaquer au pouvoir central ou aux compagnies pétrolières, sources de leurs malheurs.

BokoHaram : un fantôme à plusieurs facettes

Crée à Maiduguri par Mohamed Yusuf en 2002, au lendemain des attentats du 11 septembre, Boko Haram évolue au gré des événements politiques nigérians et des orientations géostratégiques dessinées par les grandes puissances occidentales.

De 2002 à 2006, la secte s’inscrit dans la logique de recrutement-endoctrinement. Néanmoins, elle effectue quelques actions de violence comme pour prouver sa capacité d’action et se faire connaître. De 2006 à 2009, au fur et à mesure que le sudiste Olusugun Obasanjo s’obstinait à modifier la constitution (2006) pour briguer un troisième mandant à la tête du Nigeria, Boko Haram franchit un pallier dans la violence.

Les Etats de Bauchi, Wudil, Potiskum ,Maiduguri, Borno, Yobe, Kano deviennent le théâtre des violences incessantes. Celles-ci ont fait des morts aussi bien dans les rangs des forces de sécurité que dans la population civile et les adeptes de la secte. Son fondateur a d’ailleurs été exécuté en juillet 2009. Mais, comme cette hydre mythologique dont une tête coupée en faisait renaître 1000, Boko Haramn’est pas mort avec Mohamed Yusuf .

Quand Boko Haram s’invite dans la lutte pour le pouvoir entre le Nord et le Sud

Il est un élément qui permet de comprendre le versant nigéro-nigérian du phénomène Boko Haram. Entre 2006 et 2007, le président nigérian d’alors, Olusegun Obasanjo use de tous les stratagèmes pour écarter le candidat favori du Nord à la présidentielle.

Atiku Aboubacar qui a pourtant été son vice-président de 1999 à 2007 est tantôt accusé de corruption, tantôt exclu du parti au pouvoir, le Parti Démocratique Populaire (PDP). Déçu, il quitte le PDP et se présente sans succès à l’élection présidentielle de 2007 sous la bannière du Parti populaire de Tout le Nigeria (ANPP).

Finalement, c’est le malade Umaru Yar’Adoua qui succède à Obassanjo. Yar’Adoua est certes du Nord, mais il n’a pas le poids politique, encore moins le soutien populaire dont jouit le richissime Atiku Aboubakar que l’entourage d’Obassanjo trouve trop proche de Washington. Ce qui est sûr c’est que depuis cette brouille de plus et peut être de trop entre le Nord et le Sud, Boko Haram est devenu plus violent que jamais. S’attaquant aux écoles, églises chrétiennes et autres lieux publics. Avec ce nouveau redéploiement, l’on constate que la secte devenue le cheval de Troie de l’élite du Nord Nigeria dispose désormais d’armes lourdes. Ses troupes aujourd’hui estimées à 30 000 hommes, sont plus disciplinées, semblent plus entraînées. Bref elles sont devenues plus « professionnelles » ! Ceci fait immédiatement penser au daesh en Irak c’est-à-dire une arme de chantage manipulée par des intérêts occultes…

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Finalement, le 5 mai 2010, à la mort du président nordiste OumarouYar’Adoua qui n’a pas fini son mandat, le pouvoir revient au Sud avec l’élection de Jonathan Goodluck, originaire de la région pétrolifère du Delta du Niger. Les musulmans du Nord se sentent une fois de plus floués. Ils estiment que la bande à Jonathan Goodluck et Obassanjo a violé l’accord tacite qui veut que non seulement le Nord et le Sud dirigent le pays à tour de rôle, mais aussi qu’il revient à chaque partie de choisir son candidat-président.

Une disposition que le parti au pouvoir aurait violée aussi bien en 2007 qu’en 2011. On comprend par là pourquoi à l’approche de l’élection présidentielle de 2015, Boko Haram multiplie les actes de terreur qui visent sur le plan interne à fragiliser le président sudiste Jonathan Goodluck.

Pour cette mission, les grands médias jouent un rôle déterminant. Ils font une communication sélective qui consiste à communiquer sur les actions de Boko Haram et à passer sous silence les actions des forces de sécurité nigérianes qui ont fait leurs preuves à plusieurs reprises. En 2009 par exemple, l’armée nationale a infligé une cinglante déculottée aux membres de la secte, tuant son fondateur Mohamed Yusuf et un millier de ses combattants. Dans une lettre datant du 9 août 2009, Sanni Umaru qui s’est présenté comme le successeur de Mohamed Yusuf a reconnu la perte de plus de 1 000 hommes par Boko Haram. Certes gangrené par la corruption, le gouvernement fédéral n’est pas (pour l’instant) l’éléphant mort que vous présente votre téléviseur !

Le Nigeria est confronté à la guerre de quatrième génération et dans celle-ci, la guerre de l’information est un pilier central. Les médiamensonges des journaux et télévisions « presstitués » deviennent des obus de mortier qu’on tire du matin au soir. Notre poste de télévision devient un fantassin de l’ennemi installé dans notre propre salon, tirant jour et nuit en direction de notre cerveau !

Avec les financements de l’élite du Nord et ceux des acteurs extérieurs, la secte islamiste s’est suréquipée et dispose désormais d’armes lourdes ainsi que de chars. Outre les soutiens financiers et logistiques, ces islamistes terroristes bénéficient d’importantes complicités dans l’administration et dans les forces de sécurité. Ce sans quoi il n’aurait jamais été possible d’enlever plus de 200 filles dans un établissement scolaire et disparaitre sans être appréhendé. Parmi les financiers de Boko Haram, le Qatar et l’Arabie Saoudite sont en tête de peloton bien sûr pour le compte de l’empire certes, mais avec l’avantage de déstabiliser un acteur majeur et futur rival sur le marché du pétrole et du gaz. En 2050, le Nigeria seul aura environ 400 millions d’habitants, soit la troisième puissance démographique du monde. Cela n’arrange pas les affaires de beaucoup de gens…

La dimension occidentalo-impérialiste : fragiliser le Nigeria et écarter la Chine

Les puissances sont jalouses de leur position et des privilèges y afférant. Elles s’emploient à freiner toute concurrence, aussi petite soit-elle. En tant que triple puissance (démographique, économique et pétrolière) africaine, le Nigeria s’est involontairement attiré des ennemis hors du continent. Pour ne pas arranger les choses, l’ancien président Olesugun Obasanjo a commis le « crime » de briser le monopole des entreprises occidentales dans l’exploitation des vastes gisements de pétrole du Nigeria en ouvrant les puits aux Chinois.

En effet, pendant plus d’un demi-siècle les compagnies pétrolières françaises, anglaises et étasuniennes ont régné en maîtres imperturbables dans la production pétrolière au Nigeria. Et puis, coup de théâtre ! En avril 2006, le président Obasanjo, qui n’a pas reçu l’appui des Occidentaux dans sa tentative de modifier la constitution pour se maintenir au pouvoir, se fâche et se tourne vers la Chine. Au grand dam de Shell, Texaco, Chevron…, les autorités nigérianes annoncent en grandes pompes avoir signé un contrat d’exploitation avec la compagnie pétrolière China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) pour plus de deux milliards de dollars avec une prévision de production de 225 000 barils jour. Dans la même logique, le président Obasanjo a négocié un prêt d’un milliard de dollars auprès du gouvernement chinois afin de financer la réhabilitation des voies ferrées du Nigeria et acheter du matériel roulant. La partie chinoise se donne deux ans pour produire son premier baril de pétrole au pays de Ken Sarowiwa et de Wole Soyinka.

Ce rapprochement Abuja-Pékin crée des insomnies dans les capitales occidentales. Perdre le contrôle du Nigeria qui produit 2,5 millions de barils par jour est un coup dur pour Paris, Londres et Washington. D’autant plus que le Nigeria et son voisin le Cameroun constituent une sorte de glacis stratégique incontournable pour le contrôle du Golfe de Guinée.

De leur côté, l’Arabie Saoudite et le Qatar s’inquiètent de voir le premier producteur africain de pétrole s’affranchir de leur tutelle. L’Iran, deuxième producteur de l’or noir au monde se moque des directives éditées par l’Arabie Saoudite et le Qatar. Le Venezuela, cinquième producteur mondial de pétrole s’est affranchi des directives des monarchies arabes et de l’impérialisme occidental depuis plus d’une décennie. Il gère son pétrole en toute souveraineté. Or, ad vitam aeternam, ces pétromonarchies entendent être le centre de régulation du marché du pétrole mondial. Ce qui est le seul lot de consolation que leur laisse l’impérialisme occidental.

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dimanche, 16 novembre 2014 | Lien permanent

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