
mardi, 02 octobre 2018
Il viaggio atlantico dell’impubblicabile Jünger
Il viaggio atlantico dell’impubblicabile Jünger
Andrea Scarabelli
Ex: http://blog.ilgiornale.it/scarabelli
Londra, 1947. A due anni dalla fine del conflitto mondiale viene pubblicato un singolare volumetto, in una collana destinata ai prigionieri di guerra tedeschi detenuti in Inghilterra. È Ernst Jünger l’autore di Atlantische Fahrt, appena uscito con il titolo Traversata atlantica per Guanda, nella traduzione di Alessandra Iadicicco e con una curatela finalmente degna di questo nome. Oltre al testo, infatti, il volume contiene un ricco apparato epistolare, appendici biobibliografiche, una gran mole di note e una recensione di Erhart Kästner del 1948. Ricostruita attraverso questi ricchi apparati, la storia editoriale di Atlantische Fahrt ha del comico. Il primo libro pubblicato da Jünger nel dopoguerra, infatti, non uscì in Germania, complice il repulisti democratico che mise al bando lui e altri numi della filosofia novecentesca, tra cui Martin Heidegger e Carl Schmitt. La piazza pulita culturale e antropologica della nuova Germania finì per colpire anche lui, abbandonato a se stesso, impossibilitato a scrivere e pubblicare eppure stampato e ristampato all’estero (soprattutto in Svizzera, in quegli anni), nonostante una lunga cordata d’intellettuali fosse intervenuta a suo favore. Il veto durerà fino al 1949. Fino ad allora, nulla da fare. «Bisogna essere prigionieri tedeschi per poter leggere un certo autore proibito in Germania?» noterà amaramente lo scrittore Stefan Andres, recensendolo nel 1949.
Alla fine degli anni Quaranta, insomma, il futuro premio Goethe è in catene: ma Jünger, il reietto, si metamorfosa, cambia pelle, assumendosi il compito di fari aristocratico del dolore, come dirà pochissimi anni più tardi. È la carne degli sconfitti a reclamare attenzione in queste luminose pagine, che la sapienza europea non potrà a lungo ignorare. Un grido che di certo risulterà sgradito a certe anime belle, ma che fa delle sue parole uno dei canti più intensi del secolo XX.
Il libro, ad ogni modo, esce nel ’47, ma è il resoconto di un viaggio compiuto undici anni prima in Brasile: da Amburgo a Belém, Recife, San Paolo, Rio de Janeiro e Bahia. Con uno scalo preliminare alle Azzorre, occasione ideale per fare il punto sulla situazione della Germania, che si è appena lasciato alle spalle: «Il loro arcipelago mi è parso un simbolo della nostra situazione: come una catena di vulcani che, sull’estremo confine dell’Europa, si leva in mezzo a infinite solitudini». Decide di prendersi una pausa da una civiltà di cui comincia a intravvedere le ombre, cambiando emisfero, sotto un sole e costellazioni differenti. Un viaggio che segnerà una svolta profonda nella sua visione del mondo, spostando l’asse dalla situazione della Germania a quella mondiale, nella sua totalità, come nota Detlev Schöttker nel suo saggio in conclusione del libro. Ma Jünger ancora non lo sa, e nel Nuovo Mondo, nella sua sovrabbondanza proteiforme, cerca le immagini, i fenomeni originari di cui ha parlato Goethe nei suoi scritti sulla metamorfosi delle piante. Ognuna di queste immagini risveglia antiche reminiscenze, rendendo ogni uomo artista e artefice. L’Atlantico come specchio, nel quale il poeta delle Tempeste d’Acciaio si riconosce, ritrovandosi. Qui ogni scoperta è una (auto)rivelazione, un ritorno a casa. Lo intuisce scorgendo un pesce dalla forma bizzarra, sconosciuto alle classificazioni occidentali. Qualcosa di sopito si risveglia in lui:
«Alla vista di simili creature favolose, ciò che colpisce è soprattutto l’accordo tra apparizione e immaginazione. Non le percepiamo come se le scoprissimo, ma come se le inventassimo. Ci sorprendono e al tempo stesso le sentiamo intimamente familiari, come fossero parti di noi stessi che si realizzano in immagini. A volte, in certi sogni e, molto verosimilmente, nell’ora della morte, questa immaginazione acquista in noi una forza straordinaria. I miti nascono dove realtà superiori e supreme si accordano con la forza dell’immaginazione».
Ma il Sudamerica non è solo natura incontaminata. Tra i dedali vegetali e gli umbratili argini di fiumi senza fine svettano imponenti megalopoli ancora sconosciute agli europei di quegli anni. È proprio al cospetto di questi vertiginosi agglomerati che avviene la rivoluzione copernicana dello scrittore: la tecnica, vista all’opera nella Prima guerra mondiale e poi nelle industrie, è diventata un fenomeno planetario. Gli accoliti del Lavoratore hanno invaso il globo, trasfigurandolo, ridisegnandone le frontiere. Rio de Janeiro lo sgomenta: «La città esercita su di me un’impressione possente. È una residenza dello spirito del mondo». E proprio in queste pagine compare il nome di Oswald Spengler, che ne Il tramonto dell’Occidente aveva indicato nelle metropoli, inorganiche e amorfe, uno dei sintomi delle fasi terminali di una civiltà. Profezie amare quanto attuali, anche a distanza di un secolo dalla pubblicazione del monumentale trattato di morfologia delle civiltà.
Eppure, come scrisse Hölderlin, dove cresce il pericolo nasce anche ciò che salva, e, nel corso di questo viaggio al termine dell’Occidente, a far da buen retiro, da contrappeso alla sfrenata tecnicizzazione planetaria è ancora una volta la natura selvaggia e illibata. Lo testimonia una lettera a suo fratello Friedrich Georg, scritta il 20 novembre 1936 a Santos: «Da queste parti c’è un proverbio che mi piace tanto; dice: Il bosco è grande, e significa che chiunque si trovi in difficoltà o sia vittima di persecuzioni può sempre sperare di trovare rifugio e accoglienza in questo elemento». Probabilmente la pensano così anche alcuni dei suoi compagni di viaggio, i quali, giunti in Brasile, decidono di scendere dalla nave, non tornando in Germania. Cosa che lui invece farà, vivendo la tragedia europea sino al suo ultimo atto ma portando con sé questa immagine del bosco, sviluppata pochi anni dopo ne Il trattato del ribelle. Nel bosco vedrà l’autentica patria spirituale dell’uomo, contrapposta alla nave, dominio della velocità e del progresso, e il ribelle sarà colui che passa al bosco, dandosi alla macchia – scendendo dalla nave, appunto.
Di questo, però, non c’è ancora traccia nella sua biografia. Per ora non vi è che mare aperto e isole, l’immensità dell’Atlantico e il riparo di atolli e arcipelaghi, a ribadire quella dualità irriducibile che costituisce la quintessenza letteraria – ma non solo – di Ernst Jünger. L’oceano, nella cui malia «il nostro essere fluisce e si dissolve; tutto ciò che in noi è ritmico si ravviva, risonanze, battiti, melodie, il canto originario della vita che va cullandosi nei tempi. Il suo incantesimo ci fa tornare indietro svuotati, eppure felici come dopo una notte trascorsa danzando». Le isole, invece, che custodiscono la promessa di una gioia «più profonda della quiete, della pace in questo elemento tempestoso mosso fin dai fondali. Anche le stelle sono isole nel mare della luce dell’etere».
Le isole, il mare… Si è fatto tardi. Il nostro viaggiatore annota queste parole mentre torna nella sua Europa, martellata dall’urgenza della storia, squassata da venti che ben presto riveleranno la loro forma mostruosa e titanica. Le ultime parole del diario brasiliano sono datate 15 dicembre 1936:
«Mi sento soddisfatto del viaggio. Eolo e tutti gli altri dèi sono stati propizi. Ancora più intenso appare il piacere che vi ho provato rispetto ai tempi minacciosi che si annunciano in maniera sempre più evidente, le cui fiamme anzi già guizzano all’orizzonte».
Quelle fiamme che finiranno per incendiare una civiltà intera, una civiltà di cui Jünger sceglierà di farsi testimone, pagando in prima persona, come tanti altri, la propria inattualità.
02:43 Publié dans Littérature, Révolution conservatrice, Voyage | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : ernst jünger, voyage atlantique, atlantique, lettres, lettres allemandes, littérature, littérature allemande, révolution conservatrice | |
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dimanche, 27 octobre 2013
Aux frontières de l’Europe de Paolo Rumiz
Aux frontières de l’Europe de Paolo Rumiz
Ex: http://fahrenheit451.hautetfort.com
Pour écrire ce livre, Paolo Rumiz a entrepris un périple original de 33 jours sur plus de 6000 km, à travers 10 pays, en bus, en train, en auto-stop, à pied, simplement muni d’un sac à dos de 6 kilos contenant le strict minimum : de quoi se vêtir et de quoi écrire. Pourquoi alors traverser l’Europe à la verticale, depuis le cap Nord en Norvège jusqu’à Odessa en Ukraine ? Né en 1947 à Trieste, ville carrefour, à cheval entre l’occident et l’orient, aux premières loges des bouleversements géopolitiques des confins de l’Europe, Paolo Rumiz est parti à la recherche de la frontière, cette ligne d'ombre que l’on franchit avec le sentiment de l'interdit, mais aussi à la poursuite de l’âme slave, cette chimère disséminée toujours plus à l’Est.
C’est donc un voyage intéressant qui nous conduit dans ces terres oubliées du tourisme, aux noms exotiques disparus dans le grand chambardement géopolitique du siècle dernier, voire bien avant (Botnie, Livonie, Latgale, Polésie, Carélie, Courlande, Mazurie, Volhynie, Ruthénie, Podolie, Bucovine, Bessarabie, Dobrogée). Tous ces noms à la magie incertaine sont de formidables lieux de rencontres diverses et marquantes qui dessinent par petites touches, par micro récits du quotidien ou du passé, une autre Europe. Voici, les Samis, les derniers pasteurs de rennes dans la péninsule de Kola, le jeune Alexandre, un orphelin au grand coeur qui rentre chez lui après 2 ans de prison, les pélerins ou les moines des îles Solovki et encore tant d’autres.
Il y a dans l’écriture de Paolo Rumiz beaucoup de tendresse et de mélancolie par rapport à ces endroits qu’il traverse et ces personnages qu’il rencontre. On sent qu’il a un amour profond pour cette région du monde, pour le style de vie des personnes qu’il rencontre et pour ce qu’il appelle l'âme slave. Il a envie de montrer à quel point cette âme slave est partie intégrante de l’Europe alors même que cette dernière ne cesse de prendre ses distances avec elle et de la maintenir plus ou moins à l’écart, à sa périphérie. Mais qu’est-ce que cette âme slave au juste ? Difficile à dire exactement. Et c’est peut-être là où le bât blesse avec le livre de Paolo Rumiz.
Ce voyage à la marge de l’Europe finit par être un voyage chez des gens plus ou moins en marge. Paolo Rumiz fait-il l’éloge de la rusticité, de la simplicité, voire du dénuement – pour ne pas utiliser le terme pauvreté? Serait-ce alors ça la fameuse âme slave ? L’âme du pauvre ? Certainement pas, et j’exagère sans doute un peu mais il est clair qu’un certain dégoût de l’Europe occidentale et de son développement est présent de manière plus que diffuse dans le livre. S’il ne s’agissait seulement que de la détestation de l’Europe bureaucratique et de sa forme institutionnelle (UE), passe encore, mais il s’agit de quelque chose de plus viscéral et qui présente le monde ouest-européen comme faux, artificiel, superficiel, chronophage, loin de la nature etc.
Alors quoi, la solution, ce serait pour les autres parties de l’Europe de rester dans cette marge, ce dénuement que Paolo Rumiz décrit durant son périple ? Alors quoi, on ne rencontre pas de gens simples, authentiques, partageant des valeurs de partage, d’empathie en Europe occidentale, admirateurs de la nature (ok, peut-être un peu moins) ? Alors quoi la solution, c’est juste ça ; aller à l’Est, l’âme slave ? Paolo Rumiz n’est certes pas dans une totale idéalisation de cette partie du monde (un peu quand même), mais clairement la violence, le racisme latent, le myticisme inquiétant, le culte de l’argent ou de la fraude ou encore les ravages de l’alcoolisme - pour citer en vrac quelques éléments – ne sont qu’à la périphérie de son propos. Le livre n’avait pas vraiment besoin d’être accompagné de cette sourde antipathie – qui n’est pas une critique – de l’Europe occidentale.
Malgré cet aspect parfois irritant, le livre de paolo Rumiz est intéressant en nous faisant découvrir des contrées peu courues et en revenant sur l’existence de frontières dures, de leurs logiques de mur, de périphérie et d’exclusion dont l’Européen lambda peut avoir de nos jours perdu la notion, la tangibilité.
00:05 Publié dans Littérature, Voyage | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, voyage, livre, littérature, littérature italienne, lettres, lettres italiennes, paolo rumiz | |
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vendredi, 02 mars 2012
Sven Hedin, la vita avventurosa del "Marco Polo" che veniva dal freddo
Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/
Sven Hedin, la vita avventurosa del "Marco Polo" che veniva dal freddo
00:05 Publié dans Biographie, Voyage | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : voyages, sven hedin, scandinavie, suède, asie, asie centrale, explorations, explorateurs | |
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lundi, 18 octobre 2010
Henry de Monfreid
Henry De Monfreid, il fascista che ispirò Hergé e Pratt finalmente pubblicato in Italia

00:05 Publié dans Littérature, Voyage | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : mer rouge, voyages, henry de monfreid, littérature, lettres, lettres françaises, littérature française, france, aventure, mer, marine, marins | |
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