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mercredi, 30 avril 2008

Céline e Alessandro Piperno

Louis-Ferdinand Céline:

Céline e Alessandro Piperno

008.jpgTratto da http://lf-celine.blogspot.com/

Riportiamo un articolo di Alessandro Piperno su Céline, apparso sul Corriere della Sera del 7 gennaio 2008.

Voyage au but de la nuit, di Louis-Ferdinand Céline andava come qualsiasi altro bestseller natalizio. Lascio ad altri la riflessione sui celiniani tempi che viviamo, e mi chiedo: chi più di Céline ha patito gli sbalzi di umore del pubblico e della critica? E tutto per via di quel libro: Bagatelle per un massacro, il primo dei pamphlet filo-nazisti, che qualcuno ritiene il prodotto di «un delirante teppismo antisemita» (la definizione è di Mengaldo), e qualcun’altro — come Emile Brami — uno dei vertici dell’opera celiniana. Contagiato da quel fermento parigino, ho acquistato Céline vivant, un cofanetto di dvd con le interviste televisive concesse da Céline del dopoguerra. Molto di questo materiale mi era noto.

Ma vedere Céline, sentirlo parlare, be’ è un’esperienza impagabile. Sicché eccolo lì, sullo schermo del televisore della mia stanza d’albergo: il collo avvolto dai leziosi foulard con cui i barboni si danno un tono. Eccolo lì, nella dimora-tomba di Meudon, ostentare il corpo martoriato con la cristologica impudicizia di Artaud. La vacuità dello sguardo corrisponde all’atonia della voce: monotona come quella di certi bambini autistici, marcata da uno smangiucchiato accento parigino. È il Céline che ti aspetti, che gioca a depistare gli intervistatori con risposte vezzose. A quello che gli chiede perché ha scritto il Voyage risponde che lo ha fatto per pagare l’affitto. A quello che gli domanda se lui pensa che si possa scrivere solo del proprio vissuto, oppone ancora un’altra metafora economica: «Solo delle cose che hai pagato». E allora quello gli chiede se non ci sia affettazione in tutto quel dolore esibito dalla sua voce e strillato dai suoi libri. Céline s’infuria. Quello che nessuno capisce è che lui è figlio di una ricamatrice di merletti e come tale, a dispetto di molti suoi colleghi che utilizzano formule corrive (Mauriac, un politicante; Morand, un rincoglionito; Giono, insignificante), lui ha una artigianale dedizione per la raffinatezza dello stile. Ma certo il solito adagio celiniano: io sono solo uno stilista.

Ma perché Céline insiste tanto sulla raffinatezza? Perché conosce i suoi punti di forza. Perché sa di rappresentare uno di quei casi virtuosi in cui la rivoluzione stilistica trova sontuosa corrispondenza nella rivoluzione della sensibilità.

Lo capì Robert Denoël, un giovane editore, quando, nella primavera del ‘32, s’imbatté nel manoscritto del Voyage e sentì di avere tra le mani uno dei libri del secolo. Fu così che nella Parigi di Breton e di Cocteau atterrò quell’astronave giunta da un’altra galassia, guidata da un medico non ancora quarantenne, invalido a un braccio per una gravissima ferita di guerra, con la sua collezione di viaggi in capo al mondo: dall’Africa nera agli Stati Uniti. Un libro che, sotto forma di monologo, irradiava un’energia titanica. Ferdinand Bardamu — il Narratore — era un vitalista delle tenebre: la sua voce appariva moderna, mimetica, capace di esprimere tutto il sarcasmo della disperazione e di irradiare l’infuocata luce delle grandi disfatte. A suo modo Ferdinand si rivelava perfino un umorista (qualità che, purtroppo, il suo creatore avrebbe sacrificato in seguito sull’altare della paranoia). Ma ciò che rendeva davvero speciale il Voyage era quella miscela di lucidità e pietà per la condizione umana. Ed è esattamente questo cocktail che spinse tutti a urlare al miracolo: da Sartre a Daudet, da Bernanos a Nizan, da Bataille a Trotzkij, tutti intuirono che l’entità copernicana di quella rivoluzione era nel modo con cui Céline aveva sporcato la sua prosa di mille inflessioni tratte dalla vita vera e, allo stesso tempo, nel modo in cui tutta quella sporcizia aveva reso la sua prosa scandalosamente raffinata. Così i francesi, dopo Flaubert, hanno di nuovo uno scrittore il cui virtuosismo stilistico è pari solo al disincanto nichilista delle sue convinzioni. D’altra parte, a dispetto delle abiure con cui Céline negli anni successivi avrebbe provato a ridimensionare la potenza innovativa di quel capolavoro, nessuno meglio di lui sapeva cosa lo avesse spinto a scrivere il libro in quella precisa maniera. «Non si sa niente della vera storia degli uomini» esclama a un tratto Ferdinand, nel romanzo.

Esiste aspirazione più novecentesca di questa? Raccontare la vera storia degli uomini. Come ogni scrittore di genio (come James Joyce con il quale condivide un debole per l’ellisse grammaticale e per la scatologia), Céline sapeva che tale ricerca della «vera storia» passava attraverso un nuovo modo di esprimersi. E quindi, banalmente, attraverso un nuovo modo di girare le frasi.

Ecco cosa intende Céline per raffinatezza. Il problema è che ci si può ammalare di stile. Già in Morte a credito — il secondo memorabile romanzo — la consapevolezza stilistica si è come cristallizzata. La prosa sta assumendo la forma che non perderà più. L’ironia cede al sarcasmo. La frase si spappola in singulti inframmezzati dai celebri tre punti di sospensione. Il presente indicativo sta prendendo il sopravvento su tutti gli altri tempi e modi verbali. La lucidità è offuscata dal delirio. La pietà dall’odio. La misantropia degenera in razzismo. Molti anni dopo Simone de Beauvoir annoterà: « Morte a credito ci aprì gli occhi. Vi è un certo disprezzo velenoso per la piccola gente. Che è un atteggiamento prefascista». Atteggiamento prefascista che inaugura l’era sciagurata dei Pamphlet nazisti (come altro chiamarli?). Cosa spinge lo scrittore pacifista del Voyage a inneggiare allo sterminio degli ebrei? A mettersi al fianco della più violenta organizzazione criminale della storia, in nome di una pace che sicuramente i nazisti tradiranno? Ragioni personali e non confessabili? Un’idea pervertita dell’anticonformismo e dell’anarchia? O semplice opportunismo?

A tal proposito Sartre scrisse: «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché lui era pagato». Ma purtroppo le motivazioni erano più nobili del danaro e quindi ancora più aberranti. L’antisemitismo di Céline non ha niente di originale. Non c’è nulla in quello che lui dice che non abbia detto Drumont — e con lui tanti altri — molti decenni prima. Bagatelle, con buona pace di chi ne apprezza certi passaggi, è un libro schifoso. E lo è tanto più perché è scritto con raffinatezza. La cosa più sconcertante è come l’uomo distintosi per lucidità di visione e capacità empatica, dia prova stavolta di ottusità e mancanza di simpatia.

«Vorrei proprio fare un’alleanza con Hitler. Perché no? Lui non ha detto niente contro i Bretoni, contro i Fiamminghi… Lui ha parlato solo degli ebrei… Lui non ama gli ebrei… E neanch’io… E non amo neppure i negri fuori dal loro Paese…». Una frase (in mezzo a tante altre dello stesso tenore) che dimostra come uno degli errori di questo libro stia nell’aver confuso le vittime con i carnefici. E come l’errore di questo stile così esagitato (ormai totalmente celiniano) sia di essersi messo al servizio di quell’errore di valutazione storica. Così come c’era una relazione inestricabile tra la lucidità esibita da Céline nel Voyage e l’innovazione stilistica, allo stesso modo c’è un nesso tra la cantonata ideologica e l’oracolare impreziosirsi dello stile. Ecco perché concordo con quelli che dicono che Bagatelle fu un fallimento artistico (e intellettuale) ancor prima che etico. E non mi convince Pasolini quando bacchetta gli intellettuali di sinistra, che in nome di Céline, si sono messi a distinguere tra le scelte ideologiche di uno scrittore e il suo valore letterario. Questa «dissociazione» a Pasolini è indigesta. Bah, non credo che le scomuniche politiche abbiano importanza in letteratura. Il problema di Céline non è di aver scelto l’ideologia sbagliata, ma di aver consacrato a quell’ideologia una troika di libelli eccessivamente raffinati, incapaci di raccontare il dramma che l’umanità stava per vivere. Tre pamphlet che nulla tolgono all’esemplare magnificenza del Voyage edi Morte a credito, ma che forse gettano una luce fosca sui tre libri della maturità: la così detta Trilogia del nord. Ancora una volta i detrattori di Céline considerano Da un castello all’altro, Nord e Rigadon opere biecamente auto-apologetiche di un nazista che non ha voluto fare i conti con il passato.

Jean-Pierre Martin, nel suo Contre Céline, scrive: «In Rigadon, Céline ci dice, dall’inizio alla fine, in lungo e in largo: io muoio razzista ». Ancora una volta un’osservazione mal calibrata. Nelle opere di Sade o di Lautréamont troviamo confessioni non meno indigeste. La questione anche stavolta è artistica: la Trilogia è l’affascinante scoria di un genio paranoico ormai incapace di entrare in relazione con il mondo. Un’opera fallita per eccesso di ambizione e di stile (un po’ come la joyciana Finnegans Wake). C’è qualcosa nell’ossessiva ripetitività dei suoi stilemi che appare fin troppo estetizzante. È quella che Massimo Raffaelli, con felice espressione, non senza ammirazione, chiama: «stilizzazione dell’orrore».

Così quando uno degli intervistatori (quello che gli ha dato più filo da torcere) chiede conto a Céline dei suoi eventuali sensi di colpa, lui risponde che tutti gli uomini sono colpevoli, tranne lui.

È possibile scrivere qualcosa di necessario senza sentirsi — almeno un po’! — colpevoli?

Credo che non si debbano sprecare molte parole su questo “compitino” di Piperno. Trascureremo di evidenziare le boutade stilistico-radical chic come “i leziosi foulard con cui i barboni si danno un tono”, notazione che, sia in riferimento ai senzatetto, sia alla drammatica situazione di Céline nel dopoguerra, poteva venire in mente solo ad un ragazzino mantenuto, che nella vita ha pagato ben poco di suo, e la metafora non è solamente, per l’appunto, “economica”. Céline ha pagato con il carcere e l’isolamento il suo genio, come gli scrisse nel 1949 Roger Nimier. Mi vergogno a citare nello stesso capoverso l’Hussard Nimier e il professorino saccente Piperno, ma tant’è, spero che i due grandi francesi mi perdoneranno. Piperno dimostra di conoscere l’opera e soprattutto la vita di Céline in maniera molto superficiale, altrimenti non avrebbe scritto:

“Atteggiamento prefascista che inaugura l’era sciagurata dei Pamphlet nazisti (come altro chiamarli?). Cosa spinge lo scrittore pacifista del Voyage a inneggiare allo sterminio degli ebrei? A mettersi al fianco della più violenta organizzazione criminale della storia, in nome di una pace che sicuramente i nazisti tradiranno? Ragioni personali e non confessabili? Un’idea pervertita dell’anticonformismo e dell’anarchia? O semplice opportunismo? A tal proposito Sartre scrisse: «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché lui era pagato». Ma purtroppo le motivazioni erano più nobili del danaro e quindi ancora più aberranti. L’antisemitismo di Céline non ha niente di originale. Non c’è nulla in quello che lui dice che non abbia detto Drumont — e con lui tanti altri — molti decenni prima. Bagatelle, con buona pace di chi ne apprezza certi passaggi, è un libro schifoso.”

Céline non si mise mai “al fianco” di alcun partito o organizzazione, tantomeno “la più violenta organizzazione criminale della storia”. Piuttosto, quando i Piperni deprecheranno a chiare lettere altre “organizzazioni criminali”, minori o maggiori che siano, senza se e senza ma, sarà un bel momento.

Si ripropone la leggenda del “Céline pagato dai nazisti”, negandola retoricamente, come si propone un passo della de Beauvoir, dove Céline è definito “prefascista”. In realtà quest’ultima scopre Céline “prefascista” ovviamente solo DOPO che Céline aveva rifiutato di schierarsi con il marxismo, come aveva rifiutato capitalismo e fascismo. Sartre, e altri, avevano invece solamente una pura, folle invidia dell’abilità di Céline quale scrittore. Forse, anche nel caso di Piperno, c’è un pò di miserabile invidia verso il successo dell’opera di Céline “Voyage… andava come un best seller natalizio”, e della sua grandezza come scrittore, a fronte del piccolo, piccolo omicciuolo Piperno.

Bagatelle e i cosidetti pamphlet sono una violenta denucia del Potere; in questo caso, per Céline, a ragione o torto, questo Potere -potere economico e politico, potere che stava spingendo la Francia ad una guerra che Céline avvertiva come inutile agli interessi della Francia, e per questa nazione fatale- aveva il volto dell’ebreo. I temi pipernici non sono nuovi, vedi http://louisferdinandceline.free.fr/indexthe/opprobr/albe...

Poi Piperno cita la Trilogia del Nord:

La questione anche stavolta è artistica: la Trilogia è l’affascinante scoria di un genio paranoico ormai incapace di entrare in relazione con il mondo. Un’opera fallita per eccesso di ambizione e di stile (un po’ come la joyciana Finnegans Wake). C’è qualcosa nell’ossessiva ripetitività dei suoi stilemi che appare fin troppo estetizzante. È quella che Massimo Raffaelli, con felice espressione, non senza ammirazione, chiama: «stilizzazione dell’orrore».

Niente di nuovo sotto il sole: già nelle opere di critica letteraria stampate in URSS si divideva il Céline “buono”, ossia il Céline che denunciava colonialismo, capitalismo, povertà (temi considerati “buoni” perchè affini all’ortodossia marxista), del Voyage, e il Céline “cattivo” di tutto il resto; Piperno, pavidamente “stronca” la Trilogia solo dal punto di vista del critico letterario “affascinante scoria… fin troppo estetizzante”, almeno i redattori sovietici, il “compitino” lo svolgevano sino in fondo.

Cfr. Gor’kij, al primo congresso degli scrittori sovietici: “[Céline]… non avendo alcun requisito per aderire al proletariato rivoluzionario, è del tutto maturo per accettare il fascismo”.

Da Gor’kij a Piperno; buon sangue non mente.

Comunque, la foto di Piperno e la sua prosa involuta, mi ricordano il Sartre tratteggiato da Céline ne L’Agité du bocal:
Nel mio culo dove si trova, non si può pretendere da J.-B. S. di vederci bene, né di spiegarsi chiaramente, sembra tuttavia che il J.-B. S. avesse previsto la solitudine e l’oscurità del mio ano… J.-B. S. evidentemente parla di se stesso quando scrive a pagina 451: “Questo uomo teme tutte le specie di solitudine, quella del genio come quella dell’assassino”. Cerchiamo di capire…

Facendo fede ai rotocalchi, il J.-B. S. non si vede ormai più che nei panni del genio. Ma secondo me e visti i suoi stessi scritti, io sono costretto a vedere J.-B. S. solo nei panni dell’assassino, o meglio ancora di un marcio delatore, maledetto, laido, merdoso servente, mulo occhialuto.
Ecco, mi sto agitando troppo! Non me lo posso più permettere, l’età, la salute… La chiuderei qui… disgustato, ecco… Ma ripensandoci…

Assassino e geniale!? Può anche succedere… Dopo tutto… Ma sarà il caso di Sartre? Assassino lo è, o lo vorrebbe essere, questo è inteso, ma geniale? Questo piccolo stronzo attaccato al mio culo, geniale? Hum?… si vedrà… si, certamente, può ancora fiorire… manifestarsi… ma J.-B. S.!? Questi occhi da embrione? queste spalle da mezza sega!?… questo panzone finto magro!? Tenia sicuramente, una tenia d’uomo, attaccata dove sapete… e filosofo, per giunta… fa un po’ di tutto… Sembra che, in bicicletta, abbia anche liberato Parigi.

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