vendredi, 20 avril 2007
Perché la Destra è piu noglobal della Sinistra
Perché la Destra è piu noglobal della Sinistra
Trovato su: http://www.girodivite.it/Perche-la-Destra-e-piu-noglobal.html
Le società occidentali sono, di tanto in tanto, attraversate da correnti di contestazione che, come fiumi carsici, erompono all’improvviso dal sottosuolo...
mercoledì 7 giugno 2006, di pietro g. serra - 418 letture
Marco Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più noglobal della Sinistra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pagg. 223, euro 12.
Le società occidentali sono, di tanto in tanto, attraversate da correnti di contestazione che, come fiumi carsici, erompono all’improvviso dal sottosuolo, restano in superficie per un certo tratto, per poi sprofondare di nuovo ed essere riassorbite, in attesa di tempi migliori, nonché di uomini all’altezza dei tempi. I temi dell’ambiente e della qualità della vita hanno offerto, nell’ultimo quarto del secolo scorso e in questo inizio di terzo millennio, le occasioni più propizie al manifestarsi di questa dinamica.
Il segno più sicuro del suo isterilirsi, inaridirsi, e quindi del successo arriso all’operazione di recupero e di sprofondamento, è il soggiacere degli attori sociali e politici che incarnano queste tendenze alla tradizionale dialettica destra-sinistra. È successo con i verdi che, in origine, avevano nel trasversalismo e nella volontà di non omologarsi una delle loro caratteristiche più interessanti. Poi, a poco a poco, i partiti tradizionali hanno cominciato a lisciare il pelo ai vari esponenti ecologisti, a lusingarli inserendo nei loro programmi qualche paragrafo sull’ambiente. I verdi hanno iniziato a sbandare, a disunirsi, a disperdersi, e ora sono diventati un inutile partitino di sinistra che usa le tematiche ambientali come richiamo identitario e specchietto per le allodole (un po’ come faceva il vecchio Msi col fascismo) per tentare di raccattare qualche voto e garantire la sopravvivenza di un certo numero di carrieristi della politica.
Lo stesso, amaro destino toccherà pure al movimento no global? Ci sono buone ragioni per temerlo (ma siamo i primi ad augurarci di formulare una previsione sbagliata). I suoi esordi non sono dissimili da quelli degli ecologisti. Anche in questo caso, troviamo inizialmente una chiara, e condivisibile, consapevolezza dei limiti della politica istituzionale e della necessità di nuove aggregazioni. Jeremy Brecher e Tim Costello, autori di un testo che ha contato parecchio nel milieu no-global (Contro il capitale globale, Feltrinelli), scrivono senza possibilità di equivoci che l’espansione del liberismo globalizzatore ha determinato, come contraccolpo, il confluire di «soggetti i cui interessi erano un tempo visti come conflittuali tra loro».
Maurizio Meloni - promotore della Rete Lilliput, redattore di “Altreconomia” e partecipante alla “mitica” battaglia di Seattle, cui ha dedicato un libro - nella postfazione a un altro saggio che ha avuto un certo peso nella elaborazione teorica dei no global (L. Wallach-M. Sforza, WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Feltrinelli), giunge al punto di auspicare «un vero e proprio salto di paradigma rispetto all’identità profonda della militanza novecentesca». Quest’ultima non è più frequentabile o perché è diventata serva dell’economia, o perché è naufragata negli esperimenti totalitari. Eppure esiste, secondo Meloni, un percorso praticabile «tra lo spazio della politica moderna che si inabissa col finire del secolo e un nuovo spazio pubblico che sta faticosamente maturando».
Idee e propositi familiari ai nostri lettori, anche se bisognosi di ulteriori approfondimenti, che però rischiano seriamente di restare sulla carta se tutto si riduce, come sta accadendo a molti, nostrani esponenti no global e ad alcuni segmenti del movimento, ad approdare dalle parti di Rifondazione comunista. Come salto di paradigma non ci sembra granché. Ci paiono, piuttosto, le prime scene di un film già visto altre volte in passato, che porterà all’ennesima versione di nuova sinistra che col tempo sarà sempre più sinistra e sempre meno nuova fino a non distinguersi più dalla vecchia che Meloni giustamente critica, accusandola di essersi fatta semplicemente portatrice, in versione progressista, delle politiche neoliberiste.
L’operazione di recupero del movimento no global dentro le tradizionali e sperimentate coordinate politiche può essere, tuttavia, condotta anche prendendo come riferimento il versante opposto. È quanto fa, in A destra di Porto Alegre, Marco Fraquelli, il quale attribuisce alla destra una sorta di diritto di primogenitura in materia di antiglobalizzazione. Detto altrimenti, la destra sarebbe quasi per natura, geneticamente, ostile alla globalizzazione, ossia alla creazione di un mondo fortemente interdipendente, unico, asservito alle logiche economiche e finanziarie, dove le differenze tra popoli e culture svaniscono e diventano irrilevanti.
È bene, a questo punto, precisare che, quando parla di destra, Fraquelli si riferisce sostanzialmente alla destra radicale-tradizionalista e alla Nuova destra. Dal suo campo di indagine resta perciò esclusa quella che egli chiama destra «egemonica» o «maggioritaria» o «governativa» (leggasi Alleanza nazionale) in quanto «mi pare che, almeno finora, non abbia offerto una riflessione né ‘ufficiale’ né ufficiosa particolarmente degna di nota sul tema della globalizzazione». Il punto di riferimento intellettuale, se così si può dire, la matrice del discorso antiglobalizzatore della destra intesa in questi termini sarebbe costituito dai Protocolli dei Savi di Sion, il testo antisemita che tratta di un presunto (ed inesistente) complotto degli ebrei per dominare il mondo a spese delle altre nazioni. Questa fase complottista, che ha avuto in Emmanuel Malynski (autore di un saggio sulla guerra occulta) e in Julius Evola i suoi araldi più significativi, sarebbe stata poi sostituita da una critica al mondialismo e al “sistema” che uccide i popoli, e qui l’autore si richiama a Gabriele Adinolfi, a Guillaume Faye e alla rivista “Orion” quali portatori di questo discorso, nel quale rientrerebbero anche la Lega Nord e gli altri partiti affini europei in quanto sostenitori di un populismo dalle tinte xenofobe, se non addirittura razziste.
Nell’indigeribile pot-pourri Fraquelli include altresì Alain de Benoist e la Nuova destra (francese e italiana), che hanno riportato in auge i concetti di differenza e di comunità e si oppongono frontalmente agli Stati Uniti, paese che incarna la globalizzazione e quindi la cancellazione delle differenze, nonché la casa editrice “Arianna” per la sua ideologia “glocalista” ed alcuni battitori liberi come Franco Cardini, Maurizio Blondet e Massimo Fini.
Giorgio Galli, al quale si deve la prefazione al saggio, ascrive a titolo di merito di Fraquelli il fatto che la sua ricerca riguardi «uno spazio di indagine sinora trascurato da altri autori, in un ambito che pure ha dato origine a un’ampia pubblicistica». Quello che a Galli sembra un titolo di merito a noi pare piuttosto un vicolo cieco o, a scelta, un’occasione perduta, un sentiero che non conduce da nessuna parte. I nuovi movimenti (sociali e/o culturali) sono infatti interessanti, e quindi degni di diventare oggetto di studio, in virtù degli elementi di novità che contengono.
E, come abbiamo visto, i no-global (e in precedenza i verdi) si sono caratterizzati per il loro tentativo di sfuggire alla gabbia delle identità politiche tradizionali. Ricondurli in quest’area, e mettersi a misurare col bilancino del farmacista quante dosi di destra e quante di sinistra sono presenti nel loro dna, è un’operazione che si concentra sui dettagli e perde di vista l’essenziale, che è costituito dal permanere, in Occidente, di significative fasce sociali che provano un crescente disagio verso la way of life occidentale (ovvero, sviluppo economico esponenziale sostenuto da scelte belliche rese inevitabili dalla necessità di controllare i flussi di energia indispensabili a garantire uno standard di vita consumistico) e non si sentono più rappresentate dal “teatrino della politica”, per usare un’espressione una volta tanto azzeccata di Berlusconi (teatrino nel quale però rientra anche lui), e che, tra mille contraddizioni, errori e fallimenti, sono alla ricerca di nuove formule di convivenza, di diversi modi di vivere insieme.
Non è senza significato che le confusioni e le incongruenze più gravi presenti nel testo riguardino proprio la Nuova destra, vale a dire il soggetto che meno si presta ad essere incasellato nella destra e che pone all’autore i maggiori problemi interpretativi, che egli peraltro non risolve, limitandosi, puramente e semplicemente, ad aggiungere la Nd alla disparata congerie di nomi e sigle che affollano il libro. All’inizio, Fraquelli ci fornisce una definizione della Nuova destra difficilmente contestabile. Si tratta, egli scrive, di «un filone del tutto particolare, che, pur nato in un alveo “radicale”, nel corso della sua evoluzione - e affermazione - ha caratterizzato la propria identità rifiutando ogni ancoraggio alla visione del mondo “tradizionale” e reazionaria tipica della Destra radicale».
A proposito, poi, di Pierre-André Taguieff e del suo saggio Sulla Nuova destra (Vallecchi), osserva che «rappresenta oggi il lavoro certamente più organico e approfondito in materia», mentre di Taguieff si dice che è «indiscutibilmente tra gli osservatori più puntuali e acuti della Nouvelle Droite». Lo stesso Fraquelli, però, non tiene alcun conto di queste sue corrette convinzioni. Se, infatti, la Nuova destra è il frutto di un processo evolutivo e di un distacco dal suo ambiente d’origine - di una dédroitisation, per dirla con Taguieff - ci si chiede che senso abbia inserirla nel contesto di una ricerca che quella matrice originaria tende invece a riaffermare con forza. La cosiddetta Nuova destra non ha ormai più nulla a che fare col radicalismo di destra e le sue suggestioni, ed è difficilmente collocabile lungo l’asse destra-sinistra. Ha elaborato delle nozioni di differenza, identità, comunità e universalità rispettose dell’uomo e della sua dignità e quindi non ha nulla a che spartire nemmeno col razzismo, sia esso palese o mascherato sotto le spoglie del differenzialismo. Questi sono i risultati cui, gradualmente, giunge Taguieff.
Il valore del suo libro risiede appunto nel mostrarci l’evoluzione del suo pensiero nel suo confronto con la Nuova destra. L’apprezzamento di Fraquelli per Taguieff è dunque poco più di un astratto riconoscimento formale che non trova nessun riscontro concreto nelle sue pagine. Anzi, si può dire che alcuni dei più significativi risultati della pluriennale ricerca di Taguieff vengano respinti. Così, ad esempio, il conflitto che ha opposto de Benoist a Steuckers (e, attraverso di lui, alla destra radicale) viene ridotto a una faccenda di simpatie e antipatie, “a una rivalsa fortemente venata da risentimenti personali e soggettivi più che analitici e oggettivi”, mentre le ricerche di Taguieff documentano esattamente il contrario.
Quanto al delicato tema del razzismo differenzialista, Fraquelli scrive: «Io credo che non si tratti di un’operazione di semplice mascheramento, ciò non toglie che l’approdo finale sia comunque una posizione reazionaria, senza comunque voler dare a questo termine alcun giudizio di valore». Dunque, se le parole hanno un senso, c’è anche un mascheramento, benché non tutto sia riconducibile ad esso. Il pensiero di Taguieff va, invece, in una direzione completamente diversa, ed è riassumibile nelle parole di un’intervista rilasciata al periodico “Una Città”, nella quale lo studioso francese riconosce che la Nd è pervenuta «a una forma, in se stessa non razzista, di difesa delle identità etniche, una forma moderata di relativismo culturale che si può ritrovare in un teorico del nazionalismo etnico come Anthony Smith in Inghilterra o in Lévi-Strauss e che trovo del tutto legittima»[1].
In realtà, i veri mentori di Fraquelli sono i giornalisti Guido Caldiron e Bruno Luverà (citati nel saggio), autori di opere che, pur diverse nell’ispirazione culturale, sono animate dalla medesima impostazione di fondo, quella del patchwork, che, nel caso di Caldiron e Luverà, si prefigge degli scopi demonizzanti (gettare l’ombra del sospetto e bagliori sulfurei su tutto ciò che ha, a torto o a ragione, un sia pur vago sentore di destra), mentre nel caso di Fraquelli ci sembra prevalere la nietzscheana “potenza del costume” che, sebbene indebolita nel mondo di oggi, evidentemente continua ad operare in alcuni settori come quello politico. Questa potenza - la tradizione - presenta il vantaggio di evitare all’uomo la fatica di riflettere, mettendolo di fronte a uno scenario familiare e rassicurante. Orbene, cosa c’è, in politica, di più familiare e rassicurante della tripartizione “destra/centro/sinistra”? Alain de Benoist, “Diorama” e “Trasgressioni” debbono perciò, volenti o nolenti, rientrarvi.
Tra i due aspetti individuati quali fonti di ispirazione degli scritti, rispettivamente, di Caldiron e Luverà da una parte e di Fraquelli dall’altra - la demonizzazione e la potenza del costume - c’è peraltro un legame: la pretesa all’originalità, il tentativo di indicare vie (meta)politiche nuove, “scostumate”, non può - è ancora Nietzsche a insegnarcelo - che essere qualcosa di malvagio da colpire senza pietà o, nel migliore dei casi, da marginalizzare. Caldiron e Luverà propendono per la prima soluzione, Fraquelli, ci pare, per la seconda.
Le nostre perplessità sulla fatica saggistica di Fraquelli non sono, peraltro, legate soltanto al suo irrisolto rapporto con i lavori di Taguieff. Nel libro, infatti, Fraquelli incorre in un paio di cantonate che ci fanno sorgere seri dubbi sull’effettivo livello di approfondimento della materia trattata. Nella lunga nota di pagina 82, una mia citazione tratta dall’introduzione di Sulla Nuova destra viene attribuita a Taguieff. A pagina 157, il genetista Giuseppe Sermonti viene indicato come «autore, con Rauti, di una sorta di “controstoria del Fascismo”, pubblicata da CEN nel 1976», confondendolo col fratello Rutilio. Un autore con un minimo di avvedutezza dovrebbe, d’altronde, nutrire il sospetto che difficilmente un genetista può avere il tempo, la voglia e la competenza necessari per scrivere una ponderosa opera in sei volumi che esula dai suoi specifici interessi[2].
A destra di Porto Alegre si apre, come spesso capita, con alcune parole di ringraziamento dedicate, in questo caso, a Giorgio Galli e Gianfranco Monti (nel frattempo scomparso). Sono stati loro, osserva Fraquelli, a incitarlo a scrivere il libro «nel corso di molte serate passate di fronte a ottimi cibi (preparati dalla moglie di Gianfranco, Donatella) e ottimi vini». Grazie a questi stimoli, Fraquelli confessa di aver ritrovato il gusto della scrittura: «È un piacere a cui non vorrei rinunciare per altri dieci anni. Spero che il lettore non viva questa affermazione come una minaccia». Fraquelli non se l’abbia a male, ma è proprio questo che abbiamo pensato. Ci permettiamo, perciò, di dargli un consiglio: perché non prova a mettere a frutto le serate di cui sopra per scrivere un libro di ricette culinarie? È un consiglio non disinteressato, lo ammettiamo, ma ci sembra comunque un buon consiglio.
Giuseppe Giaccio
NOTE
[1] Cfr. “Una Città”, n° 47, gennaio-febbraio 1996, pag. 8. Per una descrizione del dibattito fra Alain de Benoist e Pierre-André Taguieff, e della distanza tra le analisi debenoistiane e quelle del radicalismo di destra, si veda il mio Pluriverso. La politica nell’era della globalizzazione, Settimo Sigillo, Roma 2005, pagg. 106-116.
[2] Sempre nella nota di pagina 82, de Benoist è indicato come autore di Sulla Nuova destra, mentre alle pagine 136 e 222 Jean-François Revel diventa Françoise (che sia stato a Casablanca?).
06:15 Publié dans Economie, Nouvelle Droite, Philosophie, Théorie politique | Lien permanent | Commentaires (0) | | del.icio.us | | Digg | Facebook
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