vendredi, 23 mars 2012
La svolta di De Ambris per la guerra del 1914 è la chiave per comprendere quella di Mussolini
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Pigra è la storiografia italiana, malata di retorica e paralizzata dal conformismo; pigra e intollerabilmente cortigiana è, da sempre, la cultura italiana, nata all’ombra delle signorie del Rinascimento e che non ha mai smentito, neppure oggi, all’ombra dei poteri forti economici e finanziari, l’antico vizio della piaggeria e della servile adulazione.
Si continua a dire ed a ripetere che la svolta di Mussolini, direttore dell’«Avanti!», nell’ottobre del 1914, dal neutralismo all’interventismo, svolta che gli costò la direzione del giornale e l’espulsione dal Partito Socialista Italiano, fu un inqualificabile esempio di opportunismo, di camaleontismo, di doppiogiochismo; che nacque da spregevoli motivazioni di ambizione personale e che venne poi sostenuta, passato egli alla direzione del suo nuovo giornale «Il popolo d’Italia», da inconfessabili finanziamenti da parte di oscure forze interessate a trascinare l’Italia in guerra e di potenze straniere aventi il medesimo obiettivo.
Non solo: si continua a dire ed a ripetere che quella svolta, venendo da un uomo che, ancora nel 1911-12, in occasione della guerra di Libia, si era schierato per il più intransigente militarismo, e che ancora durante la Settimana rossa del 1914, in qualità di consigliere comunale a Milano, si era pronunciato per la rivoluzione e contro lo Stato borghese, era la dimostrazione della sua doppiezza, del suo cinismo, del suo disprezzo assoluto per gli ideali che aveva fino ad allora professato; con essa, finalmente, egli aveva gettato la maschera, mostrando il suo vero volto di traditore, di spergiuro, di aspirante dittatore e nemico del popolo.
Quante falsità, quante sciocchezze, quanta ipocrisia.
Tutte quelle cose sono state dette e ripetute da scrittori, giornalisti, professori e anche dalla maggioranza dei signori storici di professione, non per altra ragione che per un abietto conformismo verso il Pensiero Unico dominante dopo la cosiddetta Liberazione: debitamente progressista, “democratico” e antifascista; un Pensiero Unico che pretende di dividere il Bene e il Male, nella storia, con un taglio netto, ponendo, guarda caso, gli sconfitti della guerra civile del 1943-45 dalla parte del secondo ed i vincitori, guarda caso, dalla parte del primo: questi ultimi tutti onesti, intemerati, idealisti, laddove i loro avversari erano spregevoli mercenari di Hitler, senza dignità, senza onore, senza patria.
La verità è che, nei mesi cruciali fra il luglio del 1914 e il maggio del 1915, Mussolini non fu affatto il solo a compiere quella svolta; la compirono molti, moltissimi altri esponenti della sinistra democratica, molti socialisti, molti sindacalisti rivoluzionari, perfino un certo numero di anarchici; così come l’avevano compiuta, prima di loro - e anche questo viene passato sotto silenzio, o non viene ricordato a sufficienza - la grande maggioranza dei loro “compagni” francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi (ovviamente sui rispettivi fronti contrapposti degli Imperi Centrali e della Triplice Intesa).
Mussolini non fu affatto l’eccezione, la pecora nera, il traditore dell’ultima ora; le sue esitazioni, i suoi dubbi tormentosi, la sua sofferta decisione di abbandonare il neutralismo per l’interventismo furono, invece, il risultato di un percorso che fu condiviso da una schiera di uomini di specchiata fede socialista, o sindacalista-rivoluzionaria, o anarchica; uomini che non amavano la monarchia dei Savoia, che non amavano lo Stato liberale, che non amavano l’esercito, il militarismo, il colonialismo; che erano sempre stati dalla parte degli ultimi, dei contadini, degli operai, dei disoccupati; che si erano battuti da leoni sulle barricate durante gli scioperi e le sommosse, che avevano fatto la galera e il confino, che erano fuggiti all’estero, quando la reazione poliziesca infuriava contro le Camere del lavoro e contro le Leghe operaie; uomini dei quali tutto si può dire o pensare, tranne che fossero dei venduti, degli opportunisti o dei voltagabbana.
L’elenco sarebbe così lungo che potrebbe riempire pagine e pagine; ma chi ha una conoscenza anche superficiale della storia del movimento sindacale italiano, sa bene che le cose stanno così; e dunque gli storici di professione, che lo sanno per forza, allorché si ostinano a presentare il “caso” Mussolini come l’eccezione che conferma la regola (del neutralismo socialista), mentono sapendo di mentite: spudoratamente, senza ombra di vergogna.
Prendiamo il caso dell’esponente forse più famoso e certo, allora, il più popolare, del sindacalismo rivoluzionario - insieme a Filippo Corridoni, come lui divento interventista e andato volontario, fra i primissimi, a morire nelle trincee del Carso -: quello di Alceste De Ambris.
Prestigioso segretario della Camera del lavoro di Savona nel 1903; di quella della Lunigiana nel 1907; espatriato a Lugano nel 1908, dopo che cavalleria e carabinieri ebbero preso d‘assalto la roccaforte “rossa” dell’Oltretorrente parmigiano; poi esule in Brasile per due anni; di nuovo a Lugano, per battersi contro la guerra di Libia, era stato nel 1912 tra i fondatori dell’Unione Sindacale Italiana, nata dalla scissione con la componente socialista riformista; e solo nel 1913 aveva potuto rientrare in Italia, portato in trionfo dai lavoratori di Parma, essendo stato eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: questo era l’uomo, limpido e trasparente nella sua fede rivoluzionaria, senza orpelli e senza maschere.
Ebbene, De Ambris fin dall’agosto del 1914 maturò la convinzione che la parola d’ordine dei neutralisti fosse ormai sterile e sorpassata dagli avvenimenti; ben prima di Mussolini, dunque, che attese l’ottobre, ebbe il coraggio di dire a voce alta, in articoli e pubbliche manifestazioni, quel che altri vecchi dirigente socialisti e sindacali sentivano e pensavano, ma non osavano: a costo di rendersi impopolare, a costo di essere accusato di voltafaccia, a costo di attirarsi l’ira e il disprezzo di quei lavoratori che lo avevamo osannato e che di lui si erano sempre fidati, per istinto, sentendolo sinceramente dalla loro parte, con assoluta chiarezza e coerenza.
Il suo ragionamento può apparire lineare o no, può essere condiviso o no, ma non nasceva da alcun torbido e inconfessabile tornaconto privato. Egli partiva dalla pura e semplice constatazione che l’Internazionale aveva clamorosamente fallito: che non solo non aveva saputo impedire la guerra mediante uno sciopero generale, ma che ogni partito socialista aveva sposato in pieno la causa della “guerra patriottica” sostenuta dalle rispettive borghesie nazionali. Inoltre, dopo l’invasione del Belgio e della Francia settentrionale da pare delle armate tedesche, alla metà di agosto del 1914 si andava delineando una rapida e schiacciante vittoria degli Imperi Centrali: non c’era ancora stata la battaglia della Marna e, giudicando la situazione da sinistra, la sconfitta della Triplice Intesa non poteva non apparire come un disastro per la causa della rivoluzione sociale, mentre la sua vittoria sarebbe stata vista come il male minore.
Ora, compiendo un errore di sopravvalutazione del “peso” militare che l’Italia allora possedeva (un errore, peraltro, condiviso dagli Alleati, che corteggiarono fino alla stipulazione del Patto di Londra questo futuro «alleato di prima classe», come lo definì un uomo politico inglese), De Ambris pensava che, intervenendo al fianco dell’Intesa, essa avrebbe potuto spostare i rapporti di forza a favore di quest’ultima e scongiurare, così, la temuta vittoria delle Potenze Centrali.
Questo, come obiettivo immediato di un intervento italiano nella guerra mondiale; come obiettivo a medio termine, invece, egli pensava che tale intervento avrebbe rimesso in movimento le forze sociali antiborghesi e avrebbe preparato il terreno a uno sviluppo della situazione in senso rivoluzionario, secondo la vecchia formula internazionalista di trasformare la guerra imperialista della borghesia in una guerra rivoluzionaria del proletariato per la propria emancipazione.
Il 18 agosto De Ambris avrebbe dovuto parlare ad un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana sul tema del sindacalismo rivoluzionario di fronte alla guerra; pienamente consapevole della gravità di quanto si accingeva a fare, e cioè ad abbattere la formula “sacra” dell’opposizione alla guerra imperialista, dirà poi di aver trascorso una vigilia travagliata, ma di aver sentito il dovere di dire quello che tutti gli altri ormai pensavano, compreso suo fratello Amilcare.
Così, dunque, si espresse Alceste De Ambris nel suo discorso, poi pubblicato in un articolo intitolato «I sindacalisti e la guerra», apparso su «L’Internazionale» del 22 Agosto 1914 (cit. in: Renzo de Felice, «Mussolini il rivoluzionario», Torino, Einaudi, 1965, 1995, pp. 235-36):
«Compagni, io non vi ripeterò… le ragioni di principio che ci rendono irriducibilmente contrari ad ogni guerra fra le nazioni…Ma se possiamo e dobbiamo insistere su questa base essenziale del sindacalismo, non è detto però che si possa e si debba di conseguenza chiudere gli occhi davanti alla realtà, contentandoci di una negazione dogmaticamente assoluta… Io credo del resto che il fatto prodigioso al quale abbiamo la sventura o la sfortuna di assister avrà tali conseguenze da costringere tutti i partiti e tutte le filosofie ad una revisione, spezzando ogni abitudine mentale a qualunque principio s’ispiri; come ha fatto - e forse in misura anche più larga - la rivoluzione francese dell’ottantanove… I fatti si sono incaricati di far giustizia di tutte queste illusioni e di tutti questi sofismi. Oggi la guerra è una tremenda realtà. Il pacifismo borghese e l’internazionalismo socialista hanno fatto contemporaneamente bancarotta… È tempo di finirla cl comodo sistema di addossare tutte le responsabilità dei fatti storici ai gruppi dirigenti. Il popolo ha pure la sua parte di responsabilità, almeno fino a che non abbia fatto sentire il suo dissenso in maniera evidente e vigorosa. Anche il tacere - di fronte a certi delitti - significa complicità… La vittoria ella Germania e dell’Austria ci porterebbe forse a ripetere le triste parole di Herzen il quale, dopo le giornate del giugno 1848, affermava che l’Europa occidentale era ormai morta e che per il rinnovamento e la continuazione della storia non restavano più che due sorgenti: l’America da un lato e la barbarie orientale dall’altra… Se dovessero prevalere il kaiserismo e il pangermanismo degli imperi centrali, non vi sarebbe alcuna forza atta a controbilanciarli… La vittoria antitedesca, al contrario, ci lascia sperare una serie di benefizi di carattere economico, politico e morale che permetterebbero un rigoglioso sviluppo di tutte le forze di progresso dell’umanità…; forse la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati… il socialismo sollevato dall’ossessione pan germanica e divenuto veramente internazionale; il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario… Certo, essa non è ancora la NOSTRA rivoluzione; ma è forse necessaria, per liberare il mondo dai detriti ingombranti del sopravvissuto medioevo. Ad ogni modo, poiché non è più nelle nostre forze di evitarla, bisogna prepararci a fare coraggiosamente il nostro dovere in suo confronto… Il fatto che l’Italia… si trova oggi fuori del conflitto, non deve bastare per indurci ad un’indifferenza ignava. Siamo e saremo sempre contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, poiché tutto ciò è per lo meno estraneo asl nostro interesse... Ma non è egualmente estraneo al nostro interessere il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire… Se domani la grande lotta richiedesse il nostro intervento per impedire il trionfo della reazione feudale militarista, pan germanica, potremo noi rifiutarlo? O pure non sentiremo risuonare nei nostri cuori, come furiosi colpi di campane a martello l’epica invocazione lanciata da Blanqui nel 1870, quando i tedeschi valicarono le frontiere di Francia?... Compagni! Io pongo la domanda: Che faremo qualora la civiltà occidentale fosse minacciata d’esser soffocata dall’imperialismo tedesco e solo il nostro intervento potesse salvarla? A voi la risposta!»
Questo discorso ebbe un clamore fortissimo e suscitò un vero e proprio terremoto. Per un momento sembrò che tutti si sarebbero scagliati contro l’oratore; poi, invece, inattesa, ma decisiva, giunse l’approvazione di Filippo Corridoni, che in quel momento si trovava in carcere e che, dal carcere, aveva maturato la stessa evoluzione di pensiero vissuta da De Ambris.
Il tabù era stato infranto, il dado era tratto: il 3 novembre, a Parma, nel cuore del sindacalismo rosso, Alceste De Ambris presentò commosso alla folla un comizio di Cesare Battisti, che perorava, da socialista, la causa della liberazione della sua Trento (e di Trieste) dal dominio austriaco.
Fu un errore, un miraggio, una illusione? Può darsi: ma furono in molti a crederci, in quei giorni, all’estrema sinistra; Mussolini non fu il solo, e le sue ragioni non furono spregevoli, né meschine.
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