vendredi, 02 mai 2014
Rileggere Jean Raspail, profeta inascoltato
Rileggere Jean Raspail, profeta inascoltato
Quando apparve, nel 1973, per i tipi dell’editore Laffont di Parigi Il campo dei santi, il romanzo di Jean Raspail – classe 1925, oggi un arzillo signore di ottantotto anni – parve una specie di opera fantascientifica, se non proprio un semplice divertissement, una stramba allegoria che non ci riguardava affatto: invece il tempo si è incaricato di mostrare fino a che punto questo scrittore cattolico francese sia stato terribilmente lungimirante.
Nel romanzo si immagina che, in India, uno strano profeta inciti i suoi compatrioti a rifiutare la miseria per dirigersi in massa verso il benessere, cioè verso l’Europa: impossessatisi di una flotta di carrette del mare, i suoi seguaci si presentano davanti alle coste settentrionali del Mediterraneo e sbarcano pacificamente, ma irresistibilmente, accolti dalle buone intenzioni delle élites culturali che, non volendo passare per razziste, si prodigano per accogliere tutti. L’ondata migratoria è enorme e modifica radicalmente il quadro sociale, culturale, spirituale del vecchio continente; ma gli intellettuali, le organizzazioni umanitarie e i settori religiosi “progressisti” hanno deciso: in nome dei “diritti umani”, quegli stranieri non possono essere respinti, anzi li si deve accogliere con il massimo della buona volontà. Improvvisamente la società multietnica e multiculturale, della quale nessuno aveva mai parlato, almeno in Europa, diventa un valore decisivo, un elemento di civiltà del quale non si può fare a meno; e chi non è d’accordo, viene criminalizzato e trattato di conseguenza. Alcuni abitanti della Costa Azzurra, che tentano di opporsi allo sbarco massiccio sulle coste della loro regione, vengono addirittura bombardati dalla stessa aviazione francese: gli Stati hanno deciso che va bene così, che il nuovo ordine mondiale deve essere basato sul completo rimescolamento delle razze, delle fedi, delle culture, e che resistervi è un crimine.
Raspail immaginava questo scenario al principio degli anni Settanta, allorché l’immigrazione “extracomunitaria” in Europa era ancora un fenomeno estremamente limitato; eppure, a distanza di quarant’anni, bisogna constatare che egli ha visto chiaro come se avesse avuto la sfera di cristallo per leggere nel futuro. Nel suo Paese era già qualcuno, e ancor più avrebbe fatto parlare di sé negli anni seguenti: nel 1981 avrebbe vinto il Grand Prix dell’Accademia di Francia, con un romanzo incentrato sulla figura strana, ma realmente esistita, di Antoine de Tounens, “imperatore” francese della Patagonia nella seconda metà del XIX secolo. In Italia, invece, non ci si è accorti di lui, o si è preferito ignorarlo, in ossequio al dogma che vuole la cultura francese contemporanea tutta laica, progressista, e “gauchista”; dogma che ha “occultato”, per quanto possibile, al nostro pubblico, anche altri scrittori di vaglia, per esempio Renaud Camus, Jean Madiran e Dominique Venner (fino al clamoroso suicidio di quest’ultimo, nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi). Solo nel 1998 una piccola casa editrice di estrema destra ha tradotto e pubblicato Il campo dei santi (il cui titolo si riferisce a un versetto del libro dell’Apocalisse, in cui si parla dell’assalto delle forze del male contro i seguaci di Cristo), a conferma – se mai ve ne fosse stato bisogno – che, in Italia, la cultura indipendente non esiste e le simpatie culturali sono sempre e solo di parrocchia, di fazione, di corrente. Resta il fatto che Jean Raspail, considerato uno dei maggiori scrittori francesi viventi, da noi continua ad essere pressoché sconosciuto: sono ben poche le persone colte che lo hanno letto o anche solo sentito nominare, che ne parlano, che discutono le sue tesi; quanto al grosso pubblico, non ne sa nulla, puramente e semplicemente.
È vero che anche in Francia, all’inizio, Il campo dei santi era stato accolto piuttosto in sordina; maggiore riscontro aveva avuto, chi sa perché, negli Stati Uniti; poi, però, poco a poco, ma irresistibilmente, il libro era stato richiesto, ristampato, venduto, anno dopo anno, fino a raggiungere una tiratura che, oggi, si calcola in mezzo milione di copie. Sarà perché i fatti gli hanno dato clamorosamente ragione; oppure perché, in Francia, un autore di valore, magari tardi, alla fine salta fuori; da noi, complice l’egemonia culturale della sinistra neo-marxista (anche se essa non si considera più tale), comprendente anche buona parte del mondo cattolico (che, del pari, ignora questo debito ideologico, almeno in apparenza), e l’inconsistenza intellettuale, e non solo intellettuale, della destra, è possibile, possibilissimo, che scrittori e filosofi eminenti restino sepolti, ignorati o dimenticati, a tempo indeterminato, anche dopo che nel resto del mondo si sono definitivamente affermati: un fenomeno, in verità, tutt’altro che recente, ma anzi tipico della nostra Repubblica letteraria, almeno a partire dal secondo dopoguerra – ma per molti aspetti, ancora più antico, e perfino anteriore al fascismo.
A parte il fatto che l’immigrazione massiccia, biblica, incontrollata, è oggi in gran parte di provenienza nordafricana e mediorientale (ma non solo), e non specificamente indiana o pakistana, si deve riconoscere che Raspail ha colto nel segno un fenomeno estremamente drammatico, che mette in forse la stessa sopravvivenza della civiltà europea, così come la conosciamo e così come le generazioni precedenti l’hanno sempre conosciuta, amata, coltivata. Non è questione di difendere il “predominio della razza bianca”, come ammonivano certi intellettuali europei e americani fin dai primi anni del Novecento (si pensi, per fare un nome, a Lothrop Stoddard), ma semplicemente di vedere se gli Europei hanno il diritto, oppure no, di scegliere liberamente e democraticamente il loro futuro; che, ormai, coincide con la sopravvivenza o meno della loro civiltà.
Una cultura progressista, buonista, follemente permissiva, cerca di presentare l’invasione del nostro continente – ché di una vera invasione si deve parlare, anche se, per adesso, relativamente pacifica – come qualcosa di assolutamente naturale, giusto e benefico: un evento che cambierà in meglio il nostro futuro, che arricchirà la nostra società, e che ci renderà finalmente, da ottusi e provinciali cultori del nostro angusto orticello, dei veri cittadini del mondo, dei veri e integrati protagonisti della globalizzazione.
Ma c’è di più: la messa al bando del dissenso, la criminalizzazione delle posizioni contrarie. In nome di un concetto totalitario e ipocrita della democrazia, si vuol far passare per incivile, razzista e reazionario chiunque nutra il benché minimo dubbio sulla bontà di questa operazione. Si invocano i rigori della legge contro i reati di opinione; si cerca di scavalcare il normale processo democratico, per mezzo di sortite demagogiche di esponenti delle istituzioni i quali danno per scontato che, in tempi brevi, i Parlamenti approveranno misure atte a facilitare l’invasione, e ne parlano come se tali modificazioni legislative siano sono questione di tempo. E la stessa pressione istituzionale, lo stesso ricatto etico vengono portati avanti anche su altri temi, in apparenza distanti da questo, ma in realtà legati da un filo sotterraneo, per esempio la parificazione delle unioni di fatto al matrimonio e, in particolare, il riconoscimento giuridico del matrimonio fra due persone dello stesso sesso, nonché il diritto di tali coppie di poter adottare dei bambini, al pari di qualunque altra copia regolarmente sposata.
Sono tutte novità che vanno nella direzione di provocare disorientamento e di indebolire la coesione spirituale e morale della società europea; sono tutte iniziative che nascono o dalla incosciente arroganza della cultura radicale, che vede la necessità di intraprendere ovunque battaglie per i diritti dei singoli, e mai si preoccupa dei doveri, né della tutela della società nel suo insieme, vista, semmai, quest’ultima, come una semplice dispensatrice di riconoscimenti giuridici; oppure da un disegno intenzionale di poteri occulti, essenzialmente di natura finanziaria, che si servono dello strumento mediatico, della politica, perfino della religione, per sovvertire l’ordine e i principi sui quali da sempre riposa la nostra civiltà e per creare le condizioni favorevoli all’instaurazione di un totalitarismo strisciante e non conclamato, ma ancor più capillare e tirannico di quelli, di triste memoria, che hanno funestato il XX secolo.
Il fatto che un autore come Jean Raspail non sia conosciuto quasi da nessuno in Italia, e che il suo libro più profetico e conturbante sia stato messo in commercio solo da una piccola casa editrice politicamente estremista, è la dimostrazione del fatto che i meccanismi di tale totalitarismo si sono già messi in moto, sono già attivi e operanti e riescono già a controllare, in larga misura, quel che l’opinione pubblica deve sapere e quello che deve ignorare. Quando proprio un evento o una idea non possono essere interamente occultati, si ricorre alla tattica di deformarli, di stravolgerli, di presentarli in maniera tale da suscitare sdegno, repulsione, condanna; si fa leva sul ricatto buonista: se ti presti ad ascoltare certi discorsi, allora vuol dire che non sei una brava persona. Perché le brave persone porgono sempre l’altra guancia, aprono sempre la porta di casa a chiunque vi bussi, magari in piena notte ed anche – forse – ai peggiori malintenzionati: grosso fraintendimento della morale evangelica, la quale chiede, semmai, tali comportamenti al singolo individuo, non glieli impone e tanto meno pretende di imporli alla società nel suo insieme, come se il credente avesse il diritto di decidere per tutti gli altri su questioni di importanza vitale.
Eppure è una cosa piuttosto evidente: io posso anche scegliere di far entrare in casa mia chiunque, di cedergli le stanze migliori, di ritirarmi a vivere nello sgabuzzino, per accogliere il maggior numero possibile di immigrati; ma non ho alcun diritto di non tener conto dei diritti, dei sentimenti, della sicurezza dei miei figli, dei miei vicini, dei miei concittadini, specialmente se dalle mie decisioni dipendono il loro bene, la loro stessa sopravvivenza. Accogliere un lebbroso, un delinquente evaso, un malato di mente, può essere un gesto sublime oppure un gesto di somma incoscienza: sia come sia, è un gesto che riguarda me solo, finché le possibili conseguenze riguardano me solo; ma riguarda anche tutti gli altri, allorché le possibili (e prevedibili) conseguenze coinvolgono anche tutti gli altri.
Certo, vi sono molti stranieri che emigrano in cerca di lavoro, che sono delle brave persone, che chiedono solo di guadagnarsi il pane onestamente: non vi sono solo dei pazzi che se ne vanno in giro brandendo il piccone, a massacrare il primo che passa (come pure è avvenuto, ed è cronaca abbastanza recente, anche se già quasi dimenticata dai mass media). Questo è ovvio. Ma resta il fatto che milioni e milioni di persone che pretendono – non chiedono, pretendono – di rifarsi un futuro invadendo l’Europa, e sia pure pacificamente, pongono una serie di problemi politici, economici, sociali, culturali, gravissimi, che non é possibile prendere alla leggera e non è onesto minimizzare, così come non è onesto ricattare l’opinione pubblica con la minaccia di considerare intollerante, inospitale e razzista chiunque metta in guardia contro i rischi e contro gli effetti negativi che già si registrano in tutti i campi, da quello della criminalità a quello della crisi dei posti di lavoro.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, la marea sta avanzando e sta sommergendo gli abitanti originari dell’Europa, grazie anche al tasso d’incremento demografico molto più alto dei nuovi arrivati, mentre in molti Paesi del vecchio continente, compreso il nostro, esso era ormai giunto al saldo negativo. Fra alcuni decenni l’Europa sarà un continente solo parzialmente europeo e fra meno di un secolo gli Europei saranno una minoranza, forse tollerata, forse discriminata, comunque una minoranza soggetta alla volontà della maggioranza. È questo che vogliamo? È questo che vogliono i nostri intellettuali, i nostri legislatori, il nostro clero?
Intendiamoci: non sarà la fine del mondo. Il mondo ha conosciuto altri e ben più drammatici fenomeni di migrazione di massa: ha visto sorgere società miste, ha assistito alle loro difficoltà, alle loro convulsioni, alle loro trasformazioni; ha visto sorgere nuove civiltà e scomparire le vecchie, e non sempre la cosa ha presentato solo aspetti negativi, almeno nel lungo periodo (il che significa che quanti hanno vissuto tali trasformazioni, i problemi li hanno vissuti eccome). Sarà, molto più semplicemente, la fine dell’Europa. L’Europa diventerà una espressione geografica: non sarà più un continente specifico, con la sua storia, con le sue tradizioni, con le sue lingue e con il collante della civiltà cristiana. Sarà un’altra cosa: un’appendice dell’Asia e dell’Africa, in tutti i sensi.
Una tale eventualità non implica per forza, lo ripetiamo, una apocalisse, ma certamente implica una trasformazione quale, oggi, pochi riescono a immaginare e nessuno possiede gli strumenti per sapere quali costi imporrà a noi stessi, e soprattutto ai nostri figli e ai nostri nipoti: costi economici, sociali, morali, spirituali. Forse, per fare un esempio, un medico che si rifiuterà di infibulare una ragazzina somala in una struttura ospedaliera pubblica, secondo le richieste della famiglia di lei, si vedrà denunciato, processato e condannato, nonché sottoposto a un linciaggio morale per il suo comportamento intollerabilmente eurocentrico e razzista. Forse.
Non amiamo fare i profeti di sventura, né spaventare alcuno, quando ci sarebbe bisogno, semmai, di ragionare con la massima calma e lucidità. Ma questi sono i veri termini del problema, piaccia o no.
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Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
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