mardi, 16 septembre 2014
Emmanuel Lévinas, assolutizzando l’Altro nega all’Io il diritto di auto-realizzarsi
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna editrice
Quando ci si accosta alla filosofia di Emmanuel Lévinas, dopo le gelide acrobazie speculative di Husserl e di Heidegger, che pure furono i suoi maestri, si prova una piacevole sensazione di aria fresca che irrompe nell’aria chiusa e viziata; una sensazione di calore e di vita. Finalmente una filosofia che, sulle orme di Kierkegaard, volta le spalle agli “universali”, alla “totalità”, alle generalizzazioni, e scende sul terreno concreto dell’uomo singolo, che soffre, che pensa, che spera. Finalmente una filosofia che non procede per astrazioni, per ragionamenti così sottili da diventare quasi evanescenti, che non volta le spalle all’uomo in carne e ossa, con la sua domanda di senso, in nome di principi e teorizzazioni “superiori”. E, soprattutto, finalmente una filosofia del “tu”, che esce dal circolo vizioso dell’autoreferenzialità, del soggettivismo, del narcisismo intellettuale ed esistenziale, e che pone al centro di tutto la relazione, l’alterità, la differenza.
Ma poi, quasi subito, ci si accorge che non si è passati da una stanza chiusa in un aperto giardino, ma in un’altra stanza chiusa: più grande, almeno in apparenza, ma pur sempre chiusa: chiusa come la precedente. Ci si accorge che questo “tu”, questo Altro, anche se scritto con la lettera maiuscola, rimane qualcosa di rigido, di compatto, di irriducibile: talmente estraneo che non potrà mai diventare un fratello, tanto meno un amico; talmente altro che non lo si potrà veramente amare, ma solo “rispettare”; che non lo si potrà soccorrere, ma solo “parlargli”; che non lo si potrà stringere, ma solo “riconoscere”. Sarò un Altro misterioso (e questo è condivisibile) e inafferrabile (e anche questo, fino a un certo punto, lo si può accettare), del quale non sappiamo veramente nulla e che ci resta indecifrabile nella sua alterità: un Altro che sorge come limite, non come ponte; come barriera invalicabile, non come tratto d’unione; come affermazione di qualcosa che ci è preclusa, non come rivelazione della nostra stessa umanità.
Non solo. Quest’Altro, che non si può dire, che non si può capire, che non si può pensare, se non accettando incondizionatamente la sua diversità, finisce per imporsi come un tremendo dittatore: nulla è permesso al di fuori della sua relazione, l’Io non esiste che per lui, per farsi piccolo davanti a lui, per accoglierlo escludendosi da se stesso, esiliandosi da se stesso, alienandosi da se stesso. Qualunque realizzazione personale viene bollata come immorale, perché non si rivolge all’Altro; qualunque anelito alla propria realizzazione, diventa qualcosa di intrinsecamente cattivo; qualunque pensiero che non sia rivolto a lui, ma a se stessi, appare sotto la luce odiosa, o quanto meno sospetta, dell’egoismo, dell’indifferenza, della mancanza di amore. L’Altro non è una sollecitazione, un invito, una occasione di apertura: è l’alfa e l’omega di ogni cosa, è l’unico oggetto degno di attenzione: senza di esso non si danno né Io, né Dio.
Ora, può essere che quest’ultima affermazione contenga un nocciolo di verità. Che cosa sarebbe l’Io, che cosa sarebbe Dio, se non vi fosse l’Altro? Ma questa è solo una parte della verità: l’Io esiste comunque, e anche Dio – se esiste - può esistere comunque: l’Io ha un diritto ontologico fondamentale, quello di esistere, e di esistere per se stesso; Dio, poi, non deve chiedere il permesso agli enti per esserci, né per rivelarsi. È vero che solo la sua mediazione rende pienamente fecondo l’incontro fra gli uomini, ma è falso che essi non potrebbero trovarlo se non annullandosi nel “tu”. Dio si rivela nel prossimo, ma questa non è la condizione esclusiva perché si riveli. Egli si rivela anche nel mondo, nelle cose più umili, nelle creature non umane: tutte realtà che, per Lévinas, sono di seconda scelta. Solo l’uomo conta per lui, anzi, solo l’Altro: non bisogna amare l’altro come se stessi, bisogna amare solo l’altro.
Ma è poi vero che lo si può amare, dopo aver detto che non lo si può nemmeno conoscere? Che non si può, che non si deve agire, dunque nemmeno per fargli del bene? Lévinas sostiene che si può solo parlare all’Altro, ma che non conta il significato delle parole, bensì il fatto del linguaggio in se stesso; che nessuna azione, nessun lavoro è buono: buona è solo la contemplazione; che non c’è alcun mistero nelle cose, nelle piante, negli animali, ma solo negli esseri umani; che qualsiasi forma di possesso equivale a una perdita dell’innocenza; che il discorso filosofico deve essere anzitutto apofatico, ossia negativo (ciò ricorda il Montale di «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che NON siamo, ciò che NON vogliamo»); che l’Io si realizza solo con e per l’Altro; che il linguaggio autentico è solo quello verbale e non quello scritto, quindi che tutta la poesia è intrinsecamente falsa (condanna che ricorda quella di Platone dell’arte in generale); che di Dio non si può dire niente e, dunque, che la teologia è inutile e pericolosa.
Ancora: quando parla dell’Altro, non si capisce mai se Lévinas intenda il mio prossimo o Dio, o magari tutti e due insieme; tranne quando afferma recisamente che l’Altro è la “traccia”, anzi la sola ed unica “traccia”, che può permetterci di giungere a Dio. Strana traccia: perché l’Altro, per Lévinas, è qualcosa di radicalmente diverso, in cui non si ravvisa alcuna somiglianza con l’Io: e come può esservi, allora, abbastanza familiarità in lui, da intravedervi il volto di Dio? Di più: se l’Altro è, per definizione, l’alterità assoluta, come potremmo giungere, non diciamo a conoscerlo, ma anche soltanto a relazionarci in qualsiasi modo con lui? E poi: chi lo dice che l’Io non ha alcun diritto di esistere, di tendere alla propria realizzazione, perché qualunque cosa non sia rivolta all’Altro risulterebbe, per ciò stesso, malvagia e immorale? Questo è puritanesimo alla rovescia: equivale a demonizzare l’Io, ad assolutizzare l’Altro fino a trasformarlo in un feticcio incombente, minaccioso, tirannico. È l’imperativo categorico kantiano elevato all’ennesima potenza; e, come quello, non fondato su alcun ragionamento, su alcuna dimostrazione. È così perché è così, e basta. Tu devi porti solo in relazione all’Altro, non avrai altro Dio all’infuori di lui. E, sulle orme di Cartesio, si svaluta completamente il valore dell’altro, quando si tratta di un “altro” non umano. Solo l’uomo conta, anzi, solo l’altro uomo (e non l’uomo che sono io); tutto il resto è accessorio. Come si vede, un antropocentrismo spinto fino al fondamentalismo, fino alla negazione iconoclasta di tutto ciò che non è “tu”. Paradosso supremo, un universo concentrazionario di segno opposto all’arroganza dell’Io.
Ci sembrano pertinenti, a questo proposito, le conclusioni che trae Guido Sommavilla nella sua chiara e acuta monografia «Il pensiero non è un labirinto. Dialettica e mistero» (Milano, Jaca Book, 1980, pp. 332-4):
«Quest’errore di logica elementare [aver considerato la parte come nulla del tutto, invece che come qualcosa che riceve significato dall’insieme] è, ripetiamo, alla radice dei vistosi inconvenienti del pensiero di Lévinas Ricordiamone alcuni: 1) una relazione dell’io all’Altro (uomo o Dio) che è, insieme (“secundum idem”), separazione, cioè non relazione semplicemente; 2) una conoscibilità dell’altro (uomo o Dio) che è, insieme, inconoscibilità semplicemente; 3) un essere-per-altri che mi proibisce di fare ad altri del male, ma anche del bene; 4) egoistica, vergognosa, immorale ogni aspirazione dell’io all’autorealizzazione 5) un prossimo a cui si può onestamente soltanto parlare e che non si può onestamente aiutare; 6) immorale o amorale ogni genere di lavoro: anche conoscitivo quando si annette valore ai contenuti; 7) un impossibile, e dunque disumano, “amour pur” che per essere tale deve depurarsi di ogni bisogno; (9una creazione che non è creazione perché non causa niente e una traccia che non è traccia perché non è segno di niente. In tal modo la triplice inscindibile logica dell’identità causalità finalità viene pericolosamente scardinata tutto a vantaggio della logica hegeliana della non contraddizione tra le contraddizioni, la sola che potrebbe salvare un senso a più d’una delle proposizioni elencate.
Questa critica non dimentica i grandi meriti del pensiero di Lévinas, anzi mira a meglio garantirli nella loro credibilità. Essi sono per esempio: 1) la difesa della persona umana singolare sacra e inviolabile nella sua trascendenza su tutti i sistemi e contro tutti i trascendentali delle filosofie moderne, contro tutte le alienazioni del personale al “neutrum”; 2) la rievocazione del mistero di Dio di cui si è riscoperta almeno una traccia nella dignità della persona dell’Altro; il richiamo alla nobile etica del disinteresse, dell’essere-per-altri, della santità dei rapporti interumani, che è anche (agostinianamente, cioè cristianamente) un vero “vestigium Trinitatis”.
Ma facciamo bene, noi uomini, a ricordarci che siamo relativi in tutto, ANCHE IN QUANTO ALTRI. Anche la nostra alterità è relativa, il che significa che essa è relativamente anche comunione, sia a vicenda tra noi, sia tra noi e Dio. Tra noi e Dio, anzi, l’alterità (o “assenza” o “a-teismo”) è tale che Dio, proprio perché massimamente assente è anche massimamente presente a noi e in noi, “interior intimo meo”, e lo è soprattutto quando esistiamo per altri ossia siamo eticamente onesti, giusti e buoni. Anche Lévinas parla di una “presenza” dell’Assente nel rapporto con Altri. Altrove egli parla addirittura della “creazione”come di qualcosa “in cui, nello stesso tempo, viene affermata la parentela degli esseri tra loro, ma anche (sic) la loro eterogeneità radicale”.
Ci si domanda come una “eterogeneità radicale” possa coesistere con una “parentela”. E ci si domanda come questa proposizione di Lévinas possa concordare con un’altra sua proposizione in cui si dice che “la creazione lascia alla creatura una traccia di dipendenza, ma di una dipendenza senza simili”. Come si può essere “parenti” se non si è in nessun modo “simili”? è, dobbiamo dire, un altro lapsus che tradisce un’altra volta la forza che la logica elementare e classica esercita anche su chi per principio la rifiuta. La “parentela” (o analogia) che Lévinas qui ammette tra esseri creati potrebbe suggerire discretamente che non sempre e non necessariamente la “totalità” è così antinomica all’”infinito” ( e alla sua “curvatura” o “alterità”) come vorrebbe la tesi di tutto questo libro [cioè “Totalità e infinito”]. Invece una filosofia dell’alterità o dell’”esteriorità” così ostile all’analogia come questa rischia di separare e di isolare ogni altro essere umano in una autonomia che farebbe di ciascuno di noi relativi un assoluto. Si avrebbe allora un altro idolo distruttivo.
Ma c’è un altro rischio ancora da rilevare, per finire, in questa “filosofia dell’esteriorità” ai limiti di nettezza a cui Lévinas la porta: il rischio di quel materialismo di predominio del “neutrum” che soprattutto si vuole scongiurare. Ossia l’ALTERITÀ di cui si tratta e a cui tanto si tiene rischia di identificarsi, così pura come la si vuole, con quell’ESTERIORITÀ che vige precisamente e unicamente tra i corpi e tra le parti dei corpi nella loro tridimensionalità e impenetrabilità, tipiche proprietà dell’essere fisico. In una parola la valenza SIMBOLICA del termine “esteriorità”, valenza d’obbligo quando esso è applicato a realtà e a relazioni metafisiche, appare debole, ammesso pure che ci sia, in “Totalità e infinito”.»
La filosofia di Lévinas, si dice, ha operato una rottura con la tradizione ontologica del pensiero occidentale, basato sulla teoria generale dell’essere; ma questo lo aveva già fatto Kierkegaard. La reazione di Lévinas contro Husserl e soprattutto contro Heidegger è una reazione di secondo grado rispetto a quella di Kierkegaard contro Fichte ed Hegel. Di suo, Lévinas ha introdotto l’idea che l’alterità va rispettata in quanto tale, senza voler operare alcun tentativo per sminuirne la differenza; un “rispetto”, però, che stenta a tradursi in relazione fattiva, in amore operoso, stante la diffidenza radicale, o, per meglio dire, la condanna recisa e inappellabile di Lévinas nei confronti dell’agire e del lavorare. In questo, egli è stato un anti-Calvino deciso e irriducibile; mentre la sua ostilità verso le “opere”, e perfino verso la “parola” (tranne che nel suo significato immediato) ha piuttosto un sapore luterano.
Dalla Torah, dalla cultura biblica e rabbinica, Lévinas deriva l’idea della assoluta inconoscibilità e indicibilità di Dio, anche se poi ci dice che il volto dell’Altro è una traccia che porta verso di lui; da Franz Rosenzweig e dalla sua «Stella della redenzione», deriva una chiara propensione per quello che si potrebbe definire un empirismo assoluto (in funzione antihegeliana e antiparmenidea). Dialoga con i cattolici, fra i quali conta dei buoni amici ed estimatori (specialmente gesuiti: sono gli anni rampanti di Teilhard de Chardin), e conosce il pensiero di Gabriel Marcel; ma non, come pare, quello di Romano Guardini, il massimo filosofo cattolico del XX secolo.
La sua intuizione fondamentale, attorno alla quale ruota tutta la sua filosofia, è che l’Altro è l’Altro: di lui, cioè, non si può dire nulla, assolutamente nulla, perché egli è radicalmente diverso dall’Io. Però, a ben guardare, da una simile radicale alterità riesce difficile capire cosa possa nascere. Tutto ruota intorno all’alterità dell’Altro; ma di essa, proprio perché tale, io non so nulla e non posso dire nulla. Per quale ragione, allora, l’Altro dovrebbe fornire la base di tutta la mia esistenza, di tutto il mio conoscere, di tutto il mio essere uomo? Perché mai questo Sconosciuto totale dovrebbe pretendere di essere, per me, la sola cosa significativa, la sola capace di restituire un senso alla mia vita? Perché, in ultima analisi, in lui dovrei riconoscere un fratello, se, di fatto, egli è per me un perfetto estraneo?
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