Il conflitto siriano e l’avanzata dello Stato Islamico premono ormai anche sulla Turchia di Erdoğan condizionando sempre più i suoi orientamenti geopolitici. Le posizioni turche sono dipese, e continuano a dipendere, da un’attenta valutazione delle proprie priorità strategiche dovendosi destreggiare tra due minacce altrettanto pericolose per i propri interessi vitali. Se con un occhio i centri decisionali turchi guardano infatti al terrorismo di matrice jihadista, con l’altro non possono ignorare la minaccia decennale proveniente dalle ambizioni curde. Il dilemma sembra dunque essere quello tra il combattere lo Stato Islamico, favorendo in questo modo la causa curda, o declassare la minaccia jihadista al secondo posto concentrandosi sulla trentennale lotta contro i curdi. Tale dubbio strategico sembra aver infettato i centri decisionali turchi almeno fino all’estate del 2015 quando il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) di Erdoğan ha dovuto affrontare anche una crisi interna legata alla perdita della maggioranza la quale ha necessariamente condizionato le scelte di politica estera.
La di per sé difficile gestione della tregua1 firmata nel 2013 tra Ankara e il PKK è stata progressivamente messa in crisi da due eventi fondamentali, uno esterno alla Turchia e l’altro relativo agli equilibri politici interni, i quali intersecandosi hanno reso sempre più difficili i rapporti tra Ankara e la minoranza curda fino a sfociare nei fatti di Suruc del 20 luglio.2
Il fattore esterno riguarda, come è logico intuire, la guerra in Siria. Proprio quest’ultima ha rafforzato il ruolo dell’Unità di protezione del popolo (YPG), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD), partito indipendentista curdo vicino al PKK fondato nel 2003 nel nord della Siria. L’YPG ha sostanzialmente preso la guida delle operazioni di terra contro lo Stato Islamico in Siria, appoggiato da una coalizione internazionale refrattaria ad intervenire direttamente. Più la guerra in Siria prendeva forma e i curdi consolidavano le proprie posizioni, tanto più le tensioni tra Ankara e i curdi si esacerbavano. Da un lato, le accuse dei curdi nei confronti di Ankara si sono fatte più pesanti e pressanti, arrivando ad accusare i vertici turchi di aver fatto il doppio gioco appoggiando i jihadisti in funzione anticurda; dall’altro, quanto più l’YPG si presentava come il principale braccio armato di terra nella guerra contro lo Stato Islamico, tanto più la preoccupazione di Ankara diventava percepibile fino a raggiungere il suo punto massimo quando l’YPG ha proclamato la nascita dello Stato curdo vicino al confine meridionale della Turchia. Unendo i territori che da Kobane arrivano a Qamishli, il gruppo siriano curdo si è garantito una continuità territoriale la quale rappresenta, de facto, un primo tassello per la realizzazione del grande sogno trentennale curdo. Agli occhi di Ankara una simile entità politico-territoriale, situata per di più lungo i propri confini, non è tollerabile in quanto rappresenta chiaramente un pericoloso polo di attrazione per i curdi che vivono nella Penisola Anatolica.
La situazione così creatasi ha messo Ankara in una posizione scomoda costringendola ad una certa ambivalenza di intenti. Se, infatti, la Turchia non può di certo dichiarare esplicitamente guerra ai curdi, gli unici a farsi carico della lotta contro lo Stato Islamico sul terreno, è tuttavia altrettanto vero che la Turchia non può neanche impegnarsi in una guerra su larga scala contro lo Stato islamico poiché potrebbe essere l’unico vero freno alla costituzione di uno stato curdo al confine con la Turchia. In questo delicato scenario si inseriscono anche i rapporti tra la Turchia di Erdoğan e la coalizione internazionale anti-Stato Islamico capitanata dagli USA.
Fin dal 2014 gli USA hanno cercato l’appoggio della Turchia, considerandola il vero pivot militare nella strategia di indebolimento dello Stato Islamico. Pur di ottenere il sostegno turco e soprattutto le basi militari turche da cui attaccare le postazioni dello Stato Islamico, gli USA sembrano aver ceduto sulla possibilità che Ankara continui, senza troppe proteste da parte della comunità internazionale, la sua guerra su due fronti. La base militare di Incirlik sembra essere stata dunque barattata idealmente con una sorta di “chiudere gli occhi” in riferimento alla reale strategia di Ankara e materialmente con l’accettazione della richiesta turca di una No-fly zone nel nord della Siria. La No-Fly Zone, lunga 90 km e profonda circa 50, consentirebbe alla Turchia di raggiungere due principali obiettivi: da un lato ridurre la potenza militare di Assad, unico in campo a detenere una forza militare aerea, e dall’altro la zona cuscinetto così creata eviterebbe l’ulteriore avanzata dei miliziani curdi siriani dell’YPG volta a ricongiungere nuovi cantoni alla striscia di territorio già controllata. Sebbene celata dietro ragioni umanitarie legate soprattutto alla questione dei profughi siriani, la No-fly Zone permetterebbe, infine, alla Turchia di avere maggiore peso politico nel momento in cui si dovrà ricostruire la nuova Siria.
La delicata partita che si gioca tra i curdi e la Turchia di Erdoğan potrà, come è logico intuire, rafforzare, piuttosto che indebolire, le posizioni dello Stato Islamico. Quest’ultimo uscirebbe, in definitiva, come il grande vincitore nello scontro tra la Turchia e i curdi, traendo enormi vantaggi da un rinnovato clima di instabilità nelle regioni della Turchia a maggioranza curda. Lo Stato Islamico, infatti, direttamente minacciato sul terreno dall’YPG, vedrebbe in un simile scenario una dispersione delle forze nemiche curde su più fronti e soprattutto un rallentamento dei rifornimenti che giungono ai curdi siriani.
La Turchia non può attaccare lo Stato Islamico per non favorire il PKK, né dichiarare guerra ai Curdi che contengono l’espansione di ISIS. Ma il grande vincitore dello scontro tra Turchi e Curdi non potrà che essere lo Stato Islamico
Passando invece alle questioni interne, le elezioni parlamentari del 7 giugno e il risultato elettorale ottenuto dal HDP3 hanno significato per Erdoğan la fine, o perlomeno una battuta d’arresto non prevista, del suo sogno di modificare la costituzione così da trasformare la Turchia in un regime presidenzialista puro. Dopo aver sabotato la formazione di un governo di coalizione, il Presidente Erdoğan ha annunciato nuove elezioni anticipate per il prossimo primo novembre. Il presidente turco spera, dopo lo stop di giugno, di poter ottenere il massimo rendimento dalla delicata congiuntura, internazionale e nazionale, che si è venuta a creare.
In particolare, Erdoğan sembra voler sfruttare la difficile situazione esistente tra le varie anime del movimento indipendentista curdo al fine di poter recuperare i voti necessari per ottenere la maggioranza. Benché vi sia, infatti, una base comune tra l’HDP, il PKK e i gruppi curdi siriani, in realtà le tensioni tra tutte queste diverse fazioni non sono meno pericolose di quelle esistenti in generale tra i curdi e i turchi. Il PKK rischia di essere emarginato dai successi dell’YPG siriano ma anche di essere considerato un fattore meramente destabilizzante se paragonato al più pacifico HDP; la tenuta di quest’ultimo, reo, secondo i gruppi più estremisti, di aver mediato la tregua del 2013, è invece messa in pericolo dalla crescente instabilità nelle regioni a maggioranza curda a causa della ripresa della lotta da parte del PKK. In sostanza, la situazione creatasi pare fare il gioco di Erdoğan in quanto sembra potersi prospettare un possibile indebolimento dell’HDP e un conseguente recupero per l’AKP dei voti persi a giugno. Ma il partito di Erdoğan sta cercando di attingere voti anche da un altro bacino elettorale: il vero obiettivo degli F16 schierati contro lo Stato Islamico e le postazioni curde sembrerebbe essere in realtà, non tanto l’annientamento militare dei terroristi, quanto il recupero dei voti dei nazionalisti turchi persi dall’AKP a favore dell’MHP, il partito ultranazionalista turco. Occorre sottolineare a tal riguardo che in Turchia una forte maggioranza dell’opinione pubblica vede nel PKK una minaccia alla sicurezza superiore rispetto a quella proveniente dallo Stato Islamico.
La ripresa della lotta armata del PKK e gli F-16 schierati in Siria dovrebbero garantire a Erdoğan il recupero di voti nazionalisti e, con essi, della maggioranza parlamentare necessaria a modificare la Costituzione e introdurre in Turchia un sistema presidenziale puro.
La Turchia, insomma, è chiaramente schierata su due fronti: se da un lato attacca lo Stato Islamico, dall’altro non perde di vista la minaccia curda che si fa sempre più pressante. I curdi, infatti, difficilmente si lasceranno sfuggire l’occasione, oggi concreta più che mai, di realizzare il sogno di un Kurdistan unito e indipendente. L’impressione è dunque che Erdoğan stia sfruttando la situazione in Siria a proprio vantaggio in funzione anticurda sia all’esterno, contro la formazione di uno stato curdo unito, sia all’interno, contro lo straordinario risultato elettorale raggiunto dall’HDP. Gli effetti sull’intero contesto regionale di questo “secondo fronte” di guerra, sempre più caldo e carico di incognite a livello interno, non possono essere trascurati. Emblematico in questo senso il tragico attentato che ha avuto luogo ad Ankara il 10 ottobre 2015. La situazione regionale, già fortemente precaria e instabile, è ora esposta ad un ulteriore pericolo di escalation. È infatti evidente che nello scontro tra Turchia e PKK sia in gioco non soltanto l’evolversi di una guerra civile iniziata nel 1984 quanto piuttosto il futuro stesso della lotta contro lo Stato Islamico.
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