di Enrico Nadai

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ensor7.jpgAnarchico, satirico e assolutamente incompreso, almeno fino al 1929 quando Re Alberto I scelse di nominarlo barone; da quel momento James Ensor, che aveva sempre fomentato critiche asprissime nei confronti della borghesia attraverso i suoi dipinti, decise di ritirare tutte le copie de “L’alimentazione dottrinaria”(1889), un’acquaforte su carta giapponese che rappresenta tutta la malsana pidocchieria dei potenti (il re e i suoi ministri) nell’atto di defecare sui sudditi (la massa) che nel frattempo accolgono l’offesa spalancando le fauci, pronte ad ospitare gli escrementi. Un ritratto ruvidissimo della società belga di fine Ottocento che vedeva sul trono Re Leopoldo II. Ma Ensor – che da socialista umanitario passò a coltivare posizioni di totale anarchismo – aveva ben compreso che gli uomini dovevano venir tutti malmenati a colpi di pennello, eccetto rari casi. Tra questi i possibili superstiti potevano essere gli artisti, ma per raggiungere un siffatto ambiziosissimo traguardo non bastava soltanto impugnare la tavolozza e il pennello, bensì “… essere ribelli alle comunioni! Per essere artisti bisogna vivere nascosti…”; ed è sicuro che Ensor non rinunciò a vivere in solitudine compiendo una crivellatura di tutte le sue frequentazioni, tanto che quando un giornalista francese volle visitarlo nella sua dimora con degli amici parigini, dovette subire nientemeno che un rifiuto da parte del servitore Auguste, fedelissimo al padrone, il quale comunicò ai visitatori l’impossibilità di incontrare il maestro, dicendo loro: “Impossibile, sta facendo i suoi bisogni”. Ensor non era certo uno studente modello, anzi, seguiva solamente la sua indole di pictor, non compresa dall’ambiente casalingo in cui viveva – influenzato da una preponderante presenza femminile – se non dal padre, un ricco borghese di origini inglesi considerato da tutti i cittadini di Ostenda (la città natale dell’artista) come un buonannulla: quest’ultimo finirà infatti corrodendo sé medesimo nell’alcol e favorendo cospicuamente il generale schernimento nei suoi confronti. La madre, invece, gestiva un negozio dove Ensor era solito recarsi fin da giovane per fornire aiuto o anche più semplicemente per acuire la sua sensibilità artistica attraverso l’osservazione degli oggetti in vendita. Malgrado questi vaghi accenni d’affetto, la situazione familiare del pittore restò sempre molto arida e lontana dal concedergli la forza d’animo di prendere le distanze dalla sua parentela. Da ciò emerge anche il rapporto ambivalente di Ensor con le donne: “Ah, la donna e la sua maschera di carne, di carne viva diventata per davvero maschera di cartone…”. Sempre la madre, per altro, non voleva che il figlio dipingesse dei nudi femminili attingendo direttamente da modelli in carne e ossa. Nell’evoluzione pittorica di questo autore si assiste ad una fase iniziale composta da vedute paesaggistiche ispirate all’impressionismo e ritratti realistici, come quello in cui mischia narcisisticamente la sua identità con quella dell’artista fiammingo del periodo barocco Pieter Paul Rubens: otterrà in tal caso un dipinto austero ed enigmatico, ma anche faceto per via del cappello di paglia corredato di fiorellini con differenti cromie (“Ensor con il cappello fiorito” 1883-1888). Giunse poco più tardi il periodo maggiormente produttivo per Ensor, quello collocabile tra il 1885 e il 1895, anni in cui si avvicinò brevemente al gruppo avanguardistico de “I Venti”, che proponeva un’educazione culturale spaziante dalle arti visive, alla musica, alla poesia. Proprio in questo decennio l’utilizzo delle maschere rappresentò la vera svolta dell’arte ensoriana, seppur non di quelle africane che appassioneranno diversi altri artisti nel corso di tutto il Novecento. Di queste ultime ebbe a dire: “Condanno senza remissione la maschera cresciuta male degli inferni d’Africa… Al diavolo i tratti e le attrazioni facili, e il vecchio gioco del feticcio negroide o gorillato”. Venerò piuttosto le maschere capaci di evocare atmosfere carnevalesche come quelle respirabili tutt’oggi al Carnevale di Binche, in Belgio, dove una moltitudine di Gilles compiono la loro sfilata tra le profusioni dionisiache della folla. E infatti lo stesso Ensor scrisse: “Bisogna essere degni dell’Arte di casa nostra, arte sana senza paura né rimproveri. Abbasso i leopardi di contrabbando! Forza ai nostri gilles e ai nostri leoni!”

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A proposito di maschere, non può sfuggire l’opera monumentale dal titolo “L’entrata di Cristo a Bruxelles” (1889), capolavoro eloquente, uno dei tanti dipinti in cui Ensor, pur definendosi ateo, identifica la figura di Gesù Cristo come suo alter ego. Sempre rasentando la blasfemia, nel “Calvario” (1886 ) il critico d’arte Edouard Fétis infligge al Cristo/Ensor crocefisso un colpo di lancia sul costato. Questi capolavori sono testimonianze di una personalità per nulla convenzionale ed anche piuttosto arrogante nel porsi con toni critici verso la società, ma capace di rivendicare una propria autonomia intellettuale. Senza troppe pretese interpretative, si può affermare che l’inquietudine di Ensor sta, citando Gustave Le Bon che nel 1895 scriveva la “Psicologia delle folle”, “nell’anima collettiva” dove “le attitudini intellettuali degli uomini e, di conseguenza, le loro individualità, vengono annullate”. Nemmeno Cristo sarebbe capace di salvarsi dalla farsa arlecchinesca, secondo l’artista. L’opera de L’entrata di Cristo sarà esposta solo nel 1929, quarantuno anni dopo il suo definitivo compimento. La gloria giunta solo tardivamente, porterà a consacrarlo con dei funerali di Stato a cui partecipò tutto il paese, anche se già nel 1942 una radio belga aveva erroneamente annunciato la sua morte: lui che da quest’ultima era stato ossessionato per tutto il corso della sua esistenza, tanto da aver forgiato nella maniera più macabra possibile questo inevitabile fardello.

Ensor stesso del restoa veva affermato che avrebbe “anticipato tutte le tendenze moderne”! Nelle “Strane maschere”(1892), infatti, quella sorta di ridicolo pagliaccio al centro del dipinto è così mirabilmente simile a quell’altro clown, quello famosissimo… Ronald McDonald. Che sia una casualità?