Cominciò negli anni Cinquanta del ventesimo secolo, quando, con impressionante velocità, si iniziò a distruggere quanto era stato per millenni patrimonio dell’uomo; si iniziò a distruggere quella che ora, con parole dei nostri giorni, viene chiamata “agricoltura sostenibile”. Ma che per i nostri progenitori, nei secoli dei secoli, era stata solo e soltanto “agricoltura”: rotazione delle colture, arature superficiali, concimi naturali; ma anche rispetto per i tempi, per gli animali da allevamento, e manutenzione della campagna, cura dei muretti, pulizia del bosco. Con la velocità tipica dei cataclismi tutto ciò venne ricacciato nel passato. La nuova agricoltura prevedeva colture intensive e monovarietali, quindi basate su forti irrigazioni, utilizzo massivo di concimi e diserbanti, e – a fronte di uno smisurato patrimonio di cultivar (varietà di colture) presenti sul territorio del nostro Paese – la coltivazione di un numero ridotto e uniforme su tutto il territorio nazionale di suddette varietà. Quindi: due soli tipi di zucchine, due di pomodori, tre di pere, quattro di fagioli, una sola razza di mucche, una di maiali… i danni sono incalcolabili: stessa frutta e stessa verdura insapore per dodici mesi all’anno; allevamento esclusivo di animali che crescano del maggior peso possibile nel minor tempo possibile (nel caso dei polli parliamo di una differenza di tempi, confronto all’allevamento tradizionale, anche di dieci volte), mucche che producano il maggior quantitativo possibile di latte (quelle di razza Frisona, che in Italia hanno letteralmente soppiantato le numerose razze autoctone). Le conseguenze non avrebbero tardato a farsi sentire: perdita della benché minima cognizione di stagionalità e diffusa ignoranza relativamente alle varietà colturali e alla razze animali che hanno costituito per secoli il patrimonio agricolo della nazione. Altra nefasta conseguenza fu l’abbandono delle campagne e il conseguente dissesto idro-geologico di cui tutti oggi bellamente si meravigliano. Le tragedie non vengono mai sole, anzi: spesso sono male accompagnate. A tutto ciò si è aggiunta infatti la predisposizione, per il consumatore italiano, alla ricerca e all’utilizzo di prodotti di importazione, il pomodorino a Natale e il cavolo a Ferragosto, che di certo non fanno il bene del nostro organismo ma fanno piuttosto quello dell’importatore, che approfitta della nostra ignoranza. Non finisce certo qui, ahimè. Perché mediocrità chiama mediocrità, e di riflesso colpisce anche gli addetti alla ristorazione: non si contano le persone disposte a sborsare svariate decine di euro per una bottiglia di vino (magari d’oltralpe) e che non si preoccupano se il cuoco, nel ristorante in cui mangiano, utilizza un olio sedicente di oliva prodotto con oli raffinati reperibile sugli scaffali dei supermercati a due/tre euro il litro; cioè meno della retribuzione del raccoglitore che avrebbe dovuto raccogliere il quantitativo di olive necessario per produrre quella bottiglia. Se poi a tutto ciò aggiungiamo che le zucchine di Natale vengono servite su algidi piatti quadrati nippo-kitsch, come contorno di una ‘fiorentina’ di mucca allevata in Francia da porzionarsi con coltelli seghettati (o, come gli Autori li definiscono, “sbrana-fibre”), allora siamo alla naqbah alimentare. Non si creda che si stia esagerando, che si usino toni forti su un tema debole: ne va della nostra salute e della nostra vita, e gli Autori di questo testo, di ciò ben consapevoli, fanno un discorso rivoluzionario. La soluzione risiede sempre nella definizione delle priorità e nella conoscenza. Chi compera l’insalata in busta, già tagliata e condita, per risparmiare venti minuti o chi preferisce stare un’ora dal parrucchiere piuttosto che al mercato o ancora chi risparmia tre euro acquistando un olio di oliva raffinato-industriale è una persona che non sa definire le priorità. E che nuoce a sé stessa e agli altri, perché le sue cure mediche le pagheremo noi con le nostre tasse; è come se per risparmiare sul vestiario andassi in giro nudo a dicembre: il ricovero in ospedale (sicuro: quantomeno in una struttura psichiatrica) lo pagherebbe la collettività. La conoscenza: non solo delle materie prime, dei produttori d’eccellenza; ma anche la consapevolezza di acquistare prodotti che abbiano viaggiato poco, in termini di tempo e di chilometri. Abbiamo decine e decine di varietà di prodotti autoctoni, ma nella grande e nella piccola distribuzione se ne trovano tre/quattro, spesso prodotti all’estero. La soluzione risiede anche in una legislazione corretta e attenta. Se sono degni di nota i recenti sforzi del ministro Luca Zaia nei campi della lotta alle sofisticazioni e alle importazioni selvagge, della tutela del prodotto nazionale e della corretta etichettatura degli alimenti, c’è però ancora molta strada da fare: perché è ancora consentita l’introduzione di aromi e additivi, elusi sulle etichette, che non solo imbrogliano moralmente il consumatore (si compera il prosciutto affumicato convinti che davvero lo sia, non che sia stato aggiunto l’“aroma di affumicatura”) ma che mettono a repentaglio la sua salute? Perché la regolamentazione delle DOP e delle IGP è così debole e non tiene realmente conto del legame che c’è tra un prodotto e il suo territorio e – nel caso di prodotti di origine animale – tra il prodotto e la razza animale? Un formaggio tradizionalmente prodotto con latte di mucche Modicane o Rendene non sarà mai lo stesso se prodotto col latte delle vacche Frisone, vere e proprie macchine produttrici (10.000 l / anno). Il volume, oltre che da svariate decine di ricette di piatti della tradizione preparati – per usare un’espressione dello stesso Bigazzi – “come Dio comanda”, è corredato da un dettagliato elenco di produttori d’eccellenza, con relativi recapiti. Alimenti che un tempo erano patrimonio comune della nazione e che ora sono divenuti, come li definisce una bruttissima locuzione oggi di moda, “prodotti di nicchia”, destinati a chi può permetterseli o a chi ha un minimo di consapevolezza, e che il popolo si avveleni pure. Da questo punto di vista l’opera di Bigazzi e Grasso svolge una lodevole funzione pedagogica: l’acquisto intelligente, stagionale e nazionale è un investimento per la nostra salute. E non solo: è un valido contributo alla riappropriazione del nostro destino1. Riappropriazione che spesso passa attraverso eroi, bandiere al vento, rivoluzioni, guerra, scontro politico, economia. Ma – non bisogna sminuirlo – anche attraverso quello di cui ci nutriamo e come lo facciamo; anche attraverso un muscolo di bue di una razza locale, frollato e cucinato ad arte come hanno sempre fatto i nostri nonni e i nonni dei nostri nonni, servito su un normalissimo piatto tondo su una normalissima tovaglia bianca, con un normalissimo bicchiere di vetro trasparente, né giallo, né rosso, né blu, da cui possa trasparire il colore del rubino del Montepulciano che: “carezza l’uomo dove gli bisogna, dà forza ai muscoli ed alla mente fa prender tutto con filosofia piace, nutre, consola e così sia”2 Fabrizio Fiorini Beppe Bigazzi e Sergio Grasso, La cucina del buonsenso. Gli ingredienti, gli strumenti e i metodi di cottura, le ricette per mangiar bene all’insegna della tradizione, edizioni RAI-Mondadori, Roma-Milano 2007. 1 Il testo non ne fa menzione, ma ci sembra utile e indicativo rammentare l’operato nelle politiche agricole e alimentari delle autorità d’occupazione americane in Iraq. Con il c.d. “Bremer order” n° 81 del 26 aprile 2004, vennero di fatto annullati diecimila anni di sviluppo di varietà colturali irachene. Sementi di tipologie tradizionale in utilizzo tra il Tigri e l’Eufrate fin dall’8000 a.C. sono state di fatto vietate attraverso l’obbligo di utilizzare sementi brevettate e geneticamente modificate di proprietà di società transnazionali. Al danno economico per i contadini iracheni si è quindi aggiunto l’obbligo di coltivazione di prodotti estranei al regime alimentare locale. 2Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa. |