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vendredi, 06 février 2009
Heidegger e l'Università
In tempi in cui torna a farsi prepotente il dibattito sull’educazione superiore, vale la pena di riprendere in mano un’opera minore del grande esistenzialista tedesco Martin Heidegger (1889 – 1976, in foto). Si tratta del suo discorso d’insediamento al rettorato: “Die Selbstbehauptung der deutschen Universität” – pubblicato in Italia dall’editrice “Il melangolo” col titolo “L’autoaffermazione dell’università tedesca” – il quale è stato più volte accusato dalle solite ‘anime pie’ di collusione col nazionalsocialismo. Tuttavia, come mettono bene in chiaro gli apparati critici inclusi nel volumetto, non ultima la prefazione del figlio Hermann Heidegger e il breve scritto “Il rettorato 1933/34” (“1933/34”) redatto dal filosofo nel 1945, non solo non vi è il minimo riferimento al nazionalsocialismo nel testo, ma addirittura questo discorso non fu affatto gradito dal Partito. D’altra parte l’indubbio valore filosofico del testo fu ammesso anche da filosofi di sinistra quali Karl Jaspers (1883 – 1969) e Karl Löwith (1897 – 1973): “L’autoaffermazione dell’università tedesca è un discorso di elevato tenore filosofico e di grandi pretese, un piccolo capolavoro nella formulazione e nella composizione. Alla luce della filosofia è un’opera straordinariamente ambigua… e chi lo ascolta alla fine non sa se deve prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le S.A.”
In ogni caso, nonostante Martin Heidegger fosse pienamente inserito nell’ambiente della Destra tedesca anti-weimariana, legato da rapporti anche d’amicizia con Carl Schmitt (1888 – 1985) ed Ernst Jünger (1895 – 1998), e ambisse ad essere per Hitler ciò che Gentile fu per Mussolini, gli eventi presero presto una piega diversa. In primo luogo, Heidegger, come molti altri autori della konservative Revolution, non condivideva affatto le teorie razzialiste che costituiscono la maggiore e più radicale differenza tra fascismo e nazionalsocialismo. Inoltre mancò da parte dei nazionalsocialisti, a differenza del fascismo italiano con le riforme Gentile e Bottai, un progetto organico che promuovesse e garantisse il valore e l’autonomia del sistema d’istruzione e dell’università tedesca (per altro già molto solide di per sé). Questo discorso risulta comunque essere di particolare interesse, proprio perché, nel suo piccolo, contiene in nocciolo una teoria coerente dell’università nazionale e sociale.
In esso, Heidegger rivendica innanzitutto l’autonomia dell’università come corpo studentesco e corpo docente uniti sotto la guida del rettore. Ai fini di quest’autonomia, è però necessario interrogare se stessi, meditare sul proprio stesso essere. “L’università tedesca è per noi l’istituzione che sulle fondamenta della scienza e mediante la scienza educa e forma nella disciplina i capi e custodi del destino del popolo tedesco. Volere l’essenza dell’università tedesca significa volere la scienza e cioè volere la missione spirituale del popolo tedesco, in quanto popolo giunto alla piena coscienza di sé nel suo stato”. Per meditare su se stessi e cogliere l’essenza di questa scienza, è opportuno risalire all’inizio stesso del pensiero occidentale: la filosofia greca, la quale era ben consapevole dell’impotenza del sapere davanti al destino, ragion per cui l’interrogarsi non è avulso dalla realtà, ma guarda saldamente davanti a sé.
“Dalla decisione del corpo studentesco tedesco, di fronteggiare il destino tedesco nella sua estrema indigenza, proviene una volontà diretta all’essenza dell’università”. Perciò, il concetto spesso travisato di ‘libertà accademica’ viene ricondotto a tre obblighi, uguali per necessità e rango: il primo rivolto alla comunità del popolo, consistente nel servizio del lavoro; il secondo rivolto all’onore e al destino della nazione, consistente nel servizio delle armi; il terzo rivolto alla missione specifica del popolo tedesco, consistente nel servizio del sapere. “L’università tedesca può acquistare potenza e forma solo se i tre servizi (…) si trovano cooriginariamente congiunti in un’unica forza”. A questo fine, “ogni capacità della volontà o del pensiero, tutte le forze del cuore e tutte le facoltà del corpo devono svilupparsi mediante la lotta, accrescersi nella lotta, e perseverare come lotta”, (intendendo questa in senso eracliteo).
Concludendo, emerge chiaramente come l’università, basata sull’unione del corpo studentesco e del corpo insegnante, debba essere autonoma nel perseguire gli obblighi che la rendono veramente capace di affrontare la scienza come missione spirituale della nazione, di fronte al destino.
Il primo filosofo e uomo politico ad intraprendere iniziative relative all’allargamento dell’istruzione verso un pubblico sempre più vasto, secondo una tradizione riferita dallo storico Diodoro Siculo, sarebbe stato Caronda di Catania, il semimitico autore delle leggi di Turi nel VII sec. a.C.; il legislatore avrebbe fatto varare, fra gli altri, un provvedimento secondo il quale i figli di tutti i cittadini avrebbero dovuto imparare le lettere e che le spese della loro istruzione avrebbero dovuto essere pagate completamente dalla città. Aneddoti come questo aiutano certamente a cogliere un cambiamento circa le modalità dell’istruzione fra l’età classica e l’età ellenistica, e di un più generale approccio alla problematica pedagogica.
Nella Grecia dell’età classica l’istruzione era una questione essenzialmente privata. Soltanto le famiglie che avessero avuto un’adeguata disponibilità economica sarebbero state in grado di impartire un’educazione ai propri figli, rivolgendosi comunque a maestri privati. In mancanza di una qualsiasi forma di monitoraggio pubblico (mancavano dei corsi di studio regolari intesi in senso moderno), l’educazione non mirava al conseguimento di un bagaglio di nozioni determinate, ma all’adesione completa ai valori della polis. All’interno di questo sistema, stabilire quanti possedessero le competenze necessarie per leggere un qualsiasi tipo di opera letteraria è difficile capirlo; l’ipotesi più probabile è che comunque questo bagaglio di competenze si restringesse alle classi egemoni, le uniche a possedere la disponibilità economica indispensabile, e che quindi riguardasse un numero ristretto di individui.
L’interesse verso l’allargamento dell’istruzione comincia ad avvertirsi alla metà del IV sec. a.C.
I primi segni di questo processo sono inizialmente limitati alla speculazione teorica e sono ravvisabili nella riflessione filosofica di Platone, in cui, nei dialoghi della maturità, quali ad es. la Repubblica, le osservazioni pedagogiche proposte fino a quel momento diventano funzionali alla costituzione dello Stato ideale continuamente cercato. Dalla tarda antichità ci è pervenuta la notizia per cui sul portone dell’Accademia era esposta questa frase come epigrafe: ΑΓΕΩΜΕΤΡΗΤΟΣ ΜΗΔΕΙΣ ΕΙΣΙΤΩ («non entri chi non è geometra»), e ciò in virtù della selezione da affrontare per poter raggiungere le vette dell’educazione, cui solo il filosofo può aspirare. Tuttavia, quand’anche l’epigrafe risultasse essere solo una finzione poetica creata dai rètori ellenistici, la massima esprime in modo assolutamente perfetto il programma che Platone metteva in atto nell’Accademia, per cui la scienza del numero costituiva lo sbarramento per poter raggiungere la sfera dell’intelligibile e contemplare l’Essere. Al fine di costruire una città il più possibile ordinata, Platone fornisce alcune indicazioni concrete in tal senso, contenenti molte novità rispetto alla tradizione precedente, come l’insistenza in più di un luogo della sua opera di pianificare per legge un aumento del numero degli alfabeti.
La trattatistica politica successiva continua a confrontarsi con il problema dell’educazione, come riflesso delle esigenze delle nuove realtà statali createsi dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C., in foto). Nei regni dei diàdochi, infatti, caratterizzati da un alto tasso di burocratizzazione e da un conseguente aumento del numero dei documenti, gli analfabeti erano penalizzati rispetto a chi possedesse un alfabetismo anche solo funzionale. Il filosofo Aristotele dedica all’argomento la fine del VII e tutto l’VIII libro della Politica, purtroppo giunto a noi in forma incompleta. Quest’opera, nonostante un’impostazione teorica meno ambiziosa, pone l’educazione al centro delle preoccupazioni politiche di un governante: «nessuno potrà contestare che il legislatore debba adoperarsi al massimo grado per garantire l’istruzione dei giovani». Tutto ciò implica che l’istruzione sia garantita a tutti e pubblica: «non come accade oggi che ognuno si prende cura privatamente dei propri figli e fornisce loro, in privato, l’istruzione che preferisce». Quest’idea inizia a trovare accoglienza sempre più vasta presso altre scuole filosofiche ellenistiche, cui sono dedicati un ampio numero di trattati specialistici: il Perì paidèias (“Sull’educazione”) che Sozione annovera tra gli scritti di Aristippo, i Paudeutikòi nòmoi (“Le regole dell’educazione”) di Aristosseno e, non ultimi, il Perì tès Ellenikès paidèias (“Sull’educazione ellenica”) di Zenone, e il Perì agoghès (“Sul percorso educativo”) di Cleante.
Tuttavia, nonostante l’interesse mostrato verso questo tipo di esigenze, avvertite da strati sempre più ampi della popolazione, l’accesso all’istruzione non raggiunse mai soluzioni di massa, come nei tempi attuali, ma fu patrimonio esclusivo di un’élite politico-militare di volta in volta al comando.
Lo stesso avvenne ad Atene, madre legittima della genuina e autentica democrazia, in cui, sebbene l’alfabetismo fosse lievemente più diffuso che in altre poleis elleniche, una scuola pubblica capace di formare il cittadino politicamente capace non vide mai la propria nascita. Non a caso Socrate (in foto) – antidemocratico viscerale – lamentò più volte il mal costume proprio dei sofisti, i quali attiravano i rampolli delle più nobili schiatte della città al fine di essere remunerati in cambio di lezioni private. E la retorica sofistica era arma assai preziosa in un sistema assembleare e formalmente paritetico quale quello ateniese.
Anche nell’Atene democratica, dunque, l’istruzione – o meglio la “precettura” – fu esclusivo appannaggio delle classi abbienti ed egemoni, le reali, benché inconfessate, detentrici del potere politico.
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