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dimanche, 08 décembre 2013

IL “NIET” DELL’UCRAINA ALL’UE: MITI E REALTÀ

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IL “NIET” DELL’UCRAINA ALL’UE: MITI E REALTÀ

Giuseppe Cappelluti

Ex: http://www.eurasia-rivista.org

Il 21 novembre 2013 il Primo Ministro ucraino Nikolaj (in ucraino Mykola) Azarov ha annunciato che il suo Paese non intende più firmare l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea e che intende invece rilanciare le proprie relazioni commerciali con la Russia, l’Unione Doganale Eurasiatica e i Paesi della CSI[i] [1]. Nello stesso giorno, in una seduta parlamentare condita da forti polemiche e scambi di accuse, il voto contrario dei comunisti e del Partito delle Regioni attualmente al governo ha impedito il trasferimento a Berlino per cure mediche dell’ex Primo Ministro Julia Tymošenko, che l’Unione Europea aveva posto come una delle maggiori precondizioni per la stipula dell’accordo che avrebbe portato alla liberalizzazione degli scambi commerciali tra UE e Ucraina, salvo che per i prodotti agricoli[ii] [2].

Si tratta, probabilmente, dell’atto finale di una commedia che perdura ormai da diversi anni, e la cui conclusione ha lasciato sorpresi in molti. Dopo la guerra commerciale tra Ucraina e Russia dello scorso agosto e l’approvazione da parte del governo di alcuni dei provvedimenti in termini di giustizia, sistema elettorale e riforme economiche richiesti dall’Unione, la prospettiva che il Vertice di Vilnius previsto per il prossimo 29 novembre si sarebbe concluso con la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione tra Unione Europea e Ucraina non era più così lontana. A metà ottobre, poi, il futuro europeo dell’Ucraina pareva ormai vicino quando il Presidente Viktor Janukovič annunciò la possibilità di concedere alla Tymošenko la possibilità di recarsi all’estero per cure mediche[iii] [3]. Ma così non è stato, e anzi gli ultimi giorni prima della decisione finale hanno visto un raffreddamento dei rapporti euro-ucraini e una parallela intensificazione dei contatti tra Janukovič e Putin. Un epilogo quasi preannunciato, malgrado tutto, e che non ha mancato di suscitare polemiche.

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Dall’Occidente, come si può facilmente immaginare, sono arrivate forti critiche nei confronti di Janukovič e della Russia. L’Alto Commissario per la Politica Estera Catherine Ashton ha dichiarato che “la decisione è un fallimento non solo per l’UE, ma anche per il popolo ucraino” e il Ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, uno dei protagonisti delle trattative tra l’UE e l’Ucraina per l’Accordo di Associazione, ha accusato la Bankova di essersi chinata alle “brutali pressioni” del Cremlino. Più contenuta la reazione del Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, il quale ha affermato che “l’Ucraina ha il diritto di scegliere quale percorso seguire”[iv] [4]. Anche la stampa occidentale è schierata in gran parte contro Janukovič e Putin. Deutsche Welle, ad esempio, titola “Le minacce russe bloccano l’accordo commerciale euro-ucraino”[v] [5], e il titolo del New York Times è sulla stessa lunghezza d’onda[vi] [6]. Non pochi, poi, hanno accusato Janukovič di aver sacrificato la prospettiva europea sull’altare dei propri interessi personali mantenendo in carcere una sua pericolosa rivale. Putin, dal canto suo, ha rispedito al mittente le accuse di minacce denunciando un “ricatto” dell’Europa nei confronti dell’Ucraina[vii] [7].

Si tratta, però, di posizioni che non focalizzano il problema, oltre a denotare una palese faziosità antirussa. La Tymošenko, infatti, è solamente la punta dell’iceberg, e se Azarov alla fine ha scelto di gettare la spugna i motivi sono soprattutto di natura economica. L’Ucraina, pur avendo un notevole potenziale agricolo e industriale, è stata notevolmente colpita dalla fine del sistema sovietico e dalla rottura dei legami tra le Repubbliche dell’URSS, ma il Paese, a differenza delle Repubbliche Baltiche, è stato incapace di sostituirli con qualcosa di nuovo. Allo stesso tempo, però, non ha potuto né voluto mantenere forti legami economici con la Russia e i Paesi della CSI come ha fatto la vicina Bielorussia. Questo limbo è dovuto in gran parte alle forti divisioni tra la popolazione ucraina: l’Ovest è culturalmente legato all’Europa, le regioni orientali e meridionali guardano verso la Russia e sono di religione ortodossa, mentre una porzione non marginale degli abitanti del Paese, pur ricordando i Russi sotto molti aspetti e parlando russo più che ucraino, guarda con favore alla prospettiva di entrare nell’Unione Europea e agli apparenti benefici che comporta quest’adesione, mentre vede la Russia in una luce tutt’altro che positiva. Tutto ciò ha limitato in maniera non indifferente lo sviluppo del Paese, condannato a oscillare tra Occidente e Russia ma senza diventare parte integrante dell’uno o dell’altra.

Negli anni Duemila l’Ucraina ha goduto di un buon andamento economico, ma la crisi del 2008 ha colpito il Paese molto duramente. Gli anni successivi hanno visto una leggera ripresa, ma il Paese continua ad essere uno dei più poveri d’Europa. La Naftogaz, la società nazionale degli idrocarburi nonché la maggiore azienda del Paese, è fortemente indebitata con Gazprom, anche a causa di quei contratti sfavorevoli al Paese sottoscritti nel 2009 dalla Tymošenko quando era ancora Primo Ministro[viii] [8]. Nel 2011 la prospettiva di una fusione tra Naftogaz e Gazprom in cambio di sconti sul gas è stata rigettata dal governo ucraino[ix] [9], mentre il passaggio al colosso russo della gestione  della rete di gasdotti, ma non della proprietà, è al momento bloccato in quanto tale passo richiederebbe l’approvazione di una riforma costituzionale[x] [10]. Il problema, però, resta: Kiev paga a Mosca prezzi esosi per il suo gas (400 dollari ogni 1000 metri cubi), e a fine ottobre Gazprom ha richiesto alla controparte ucraina un pagamento di ben 882 milioni di dollari per le forniture di gas di agosto, portando così il debito della compagnia a 1,4 miliardi[xi] [11].

I contratti firmati nel 2009 hanno valenza decennale, e la Russia si è mostrata disposta a una loro revisione solo in cambio dell’adesione dell’Ucraina all’Unione Doganale. Lo sconto proposto da Mosca consentirebbe a Kiev di risparmiare circa 8 miliardi l’anno[xii] [12], ma malgrado tutto il Paese non sembra intenzionato a compiere un passo che implicherebbe dire addio alla prospettiva europea. Il Paese, anzi, ha avviato da circa due anni una strategia per la riduzione della dipendenza dal gas russo, basata soprattutto sulla diversificazione degli approvvigionamenti e sullo sfruttamento delle riserve di gas non convenzionale (il cosiddetto “gas da argille” o shale gas)[xiii] [13]. Si tratta, però, di una mossa tardiva, che probabilmente non darà i risultati sperati, e in ogni caso la strategia di diversificazione degli approvvigionamenti portata avanti da Kiev è di gran lunga in ritardo nei confronti di quella delle vie di trasporto che la Russia porta avanti da più di quindici anni e che, con la futura entrata in funzione del gasdotto South Stream, potrà dirsi a pieno regime. E’alquanto probabile, quindi, che la Russia uscirà vittoriosa da questa “guerra”.

L’intreccio tra gas e politica è un altro grande problema dell’Ucraina odierna. La possibilità di offrire gas a prezzi politici è infatti un importante cavallo di battaglia per i politici ucraini, specie a ridosso degli appuntamenti elettorali, ma i vari governi hanno sempre osteggiato la possibilità di accettare una soluzione affine a quella bielorussa, che recentemente ha venduto alla Gazprom la società che gestisce la rete di metanodotti del Paese. Il risultato è che l’Ucraina, pur acquistando il gas a prezzi piuttosto alti, lo vende ai suoi cittadini a prezzi convenzionati, con conseguenze che si possono facilmente immaginare. Nel 2011 l’Ucraina ha dovuto chiedere un prestito di 15 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, ma l’organizzazione pose come precondizione l’abolizione dei sussidi sul gas, e il rifiuto di Kiev segnò il fallimento dell’accordo[xiv] [14]. Un’analoga richiesta di prestito presentata all’FMI due anni dopo si è anch’essa risolta con un fallimento, e questo solo il giorno prima del gran rifiuto di Azarov[xv] [15]. Il fallimento delle trattative tra l’Ucraina e l’FMI ha avuto senza dubbio un ruolo cruciale nell’allontanare Kiev da Bruxelles e nel riavvicinarla a Mosca. Un riorientamento che ha già iniziato a dare i propri frutti: il 24 novembre, infatti, il Cremlino ha annunciato la propria disponibilità a una revisione dei termini dei contratti sul gas con l’Ucraina[xvi] [16].

Accanto alle questioni del gas e dei debiti, va ricordata quella della bilancia commerciale del Paese. Per la Russia un eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Unione Doganale rappresenterebbe senza dubbio un grande successo geopolitico e morale, ma dal punto di vista economico i benefici sono più limitati, sebbene consentirebbe al mercato eurasiatico una maggiore autosufficienza e lo renderebbe più attraente agli occhi di esportatori e investitori stranieri. Ben maggiori sono invece i vantaggi per l’Ucraina: secondo alcune stime, infatti, gli sconti sul gas, l’abolizione delle misure protettive e delle barriere tecniche e la rimozione delle tasse sulle esportazioni garantirebbe al Paese esteuropeo guadagni pari a 11-12 miliardi annui[xvii] [17]. Ben diverso, invece, è il discorso nei riguardi dell’Accordo di Associazione con l’UE. L’industria ucraina, malgrado il suo potenziale, non è competitiva con quella dei Paesi europei, e si prevede che un’eventuale stipula dell’accordo provocherebbe un peggioramento del 5% della bilancia commerciale del Paese[xviii] [18]. L’impatto sarebbe particolarmente pesante nelle regioni orientali, polmone industriale del Paese nonché roccaforte elettorale di Janukovič, e agli inizi di novembre Azarov ha dichiarato che il Paese necessiterebbe di 150-160 miliardi di euro per allineare agli standard europei l’industria ucraina[xix] [19]. Ma l’UE non risulta particolarmente propensa ad aiutare Kiev: alla richiesta di quest’ultima di un prestito di 8 miliardi di dollari, infatti, Bruxelles ha risposto offrendone uno di 1 miliardo di euro (ossia circa 1,3 miliardi di dollari), e peraltro ha posto come condizione l’approvazione di tagli potenzialmente destabilizzanti per il Paese[xx] [20].

Nell’UE l’Ucraina sarebbe una seconda Grecia, mentre il suo habitat naturale sembra essere un’Eurasia dove il suo potere sarebbe secondo solo a quello di Mosca. Un Ucraino occidentale o particolarmente “patriottico” può dire che “l’Ucraina non è la Russia”, e ciò è sostanzialmente vero se si parla, ad esempio, di Leopoli o della Transcarpazia; ma, allo stesso modo, non è la Lettonia, e non ha la stessa propensione ai sacrifici che ha dimostrato Riga nel cammino che l’ha portata all’adozione dell’euro. Nella prima metà di ottobre Azarov ha dichiarato che “nulla vieta all’Ucraina di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’UE e, nel contempo, creare un’area di libero scambio con l’Unione Doganale”[xxi] [21], ma quest’idea, all’apparenza la migliore soluzione per il Paese, non è fattibile per il tipo di rapporti che si sono venuti a creare tra Russia e Ucraina. I due Paesi, infatti, hanno frontiere sostanzialmente aperte, e l’abolizione dei dazi tra UE ed Ucraina provocherebbe, almeno secondo il Cremlino, un’invasione di prodotti europei a prezzi non gravati dai dazi sui mercati dell’Unione Doganale, rendendo così necessaria l’introduzione di misure protettive nei confronti di Kiev[xxii] [22]. Le perdite dovute alle sanzioni, a detta di Janukovič, si aggirerebbero attorno ai 15 miliardi di dollari, e ciò, per il Paese, sarebbe un’autentica pugnalata[xxiii] [23]. Il fatto che l’accordo di libero scambio con l’UE escluda i prodotti agricoli, che per l’Ucraina sono una delle maggiori merci di esportazione, non è propriamente di secondaria importanza.

La svolta del 21 novembre, che alcuni in Ucraina hanno già ribattezzato “il giovedì nero”, è senza dubbio una sconfitta non solo per l’Unione Europea, ma per l’intero Occidente, che malgrado l’impegno degli Stati Uniti si rivela più debole della Russia nello spazio ex-sovietico. Per la Russia, invece, si sta per chiudere un autunno denso di successi: la mediazione di Putin per prevenire l’intervento americano in Siria, la svolta eurasista dell’Armenia, le elezioni in Georgia e il miglioramento della posizione della Russia in una serie di indicatori economici. Ma la virata di Kiev verso l’Eurasia è tutt’altro che priva di risvolti positivi per l’Europa. La Russia forte e imperialista tanto osteggiata da politici europei e attivisti dei diritti umani, infatti, per l’Europa è di gran lunga meno pericolosa di una Russia debole. La Russia moderna, infatti, non è l’Unione Sovietica, e a differenza di quest’ultima non ha e né può avere ambizioni universaliste. L’assenza del ruolo dell’ideologia comunista obbliga il Paese a promuovere i propri interessi nel mondo non in quanto portabandiera della rivoluzione mondiale, ma in quanto Russia, e ciò riduce di molto il suo raggio d’azione impedendole di intervenire qualora non siano in gioco i propri interessi diretti o quelli di una nutrita schiera di cittadini russi o di Russi etnici. Allo stesso modo l’Unione Doganale, ispirata ai principi del libero mercato, non propone un ritorno al passato. Ma molte delle sfide che oggi la Russia si trova ad affrontare sono comuni all’Occidente: il fondamentalismo islamico, il traffico internazionale di stupefacenti, la stabilità di regioni potenzialmente a rischio come l’Asia Centrale. Per l’Europa, quindi, è di fatto più utile un’Ucraina filorussa che non un’Ucraina nell’UE: la prima contribuirebbe in maniera sostanziale al miglioramento della sicurezza e della situazione economica dell’Eurasia, la seconda si trasformerebbe inevitabilmente in una nuova Grecia. Ma, per vedere l’Ucraina fare domanda di ammissione nell’Unione Doganale (o, in alternativa, intraprendere seriamente il cammino dell’eurointegrazione), dovremo probabilmente attendere il 2015. L’anno delle prossime elezioni presidenziali.


[viii] [38] I contratti del 2009 sono stati la causa della condanna della Tymošenko a 7 anni di carcere per abuso di potere.

[xii] [45] R. Dragneva e K. Wolczuk, Russia, the Eurasian Customs Union and the EU: Cooperation, Stagnation or Rivalry?, Chatham House, Londra, 2012, p. 11.

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