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lundi, 02 novembre 2015

Le président du Bundestag se rebiffe contre le traité transatlantique

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Le président du Bundestag se rebiffe contre le traité transatlantique

Norbert Lammert menace de dire NON au traité et fait les gros titres de toute la presse outre-Rhin.

Ex: http://www.bvoltaire.fr

Lorsque nous n’entendons plus parler du traité transatlantique en France (TAFTA), sauf par la présidente du FN et par Jean-Luc Mélenchon, pas très relayés par les médias, il faut bien le dire, en Allemagne, il en va tout autrement. C’est la nouvelle du jour ! Le président du Bundestag, Norbert Lammert, menace de dire NON au traité et fait les gros titres de toute la presse outre-Rhin. Tout cela parce qu’une délégation de parlementaires allemands avait récemment exigé, à l’ambassade américaine de Berlin, de consulter les documents des négociations. Ce qui leur a été refusé ! Pour le lecteur français, je souligne que Norbert Lammert est le numéro deux de l’État allemand.

Depuis plus de deux ans, l’Union européenne et les États-Unis d’Amérique négocient presque en catimini le nouveau traité transatlantique. La Commission européenne met à disposition beaucoup de documents, mais les détails sont réservés uniquement à quelques privilégiés. Norbert Lammert, le président du Bundestag, a désormais soumis sa décision à plus de transparence dans les négociations. « Il est hors de question que le Bundestag ratifie un contrat commercial entre l’Union européenne et les États-Unis, pour lequel il n’aura pu accompagner ou influencer les options », a déclaré le politicien CDU. Lammert serait tombé d’accord avec Juncker pour que les documents de négociation, en particulier leurs résultats, soient soumis à tous les États membres, à leurs gouvernements, mais aussi à leurs Parlements. « Et je serai intransigeant », a lancé le président du Bundestag. La France semble absente de ces revendications justifiées. Avec le ministre des Finances, Sigmar Gabriel (SPD), Norbert Lammert estime que l’actuel accès limité, au sein des ambassades américaines, est indiscutable, aussi bien au gouvernement qu’au Parlement.

Les négociations sur le traité transatlantique ont commencé en juillet 2013. Cette création d’une zone de libre-échange doit servir au développement économique entre les deux côtés de l’Atlantique, qui verrait l’abolition des douanes et autres obstacles au commerce. Des esprits critiques craignent néanmoins une érosion des droits sociaux, environnementaux, des consommateurs et, par-delà, un affaiblissement des institutions démocratiques. 250.000 personnes avaient manifesté à Berlin le 10 octobre dernier contre ce traité controversé.

Dernièrement, c’est la chancelière Angela Merkel qui avait promu le traité auprès du syndicat IG Metall. Notons que, sur cette question, comme sur celle de l’immigration massive, Merkel est en total décalage avec son peuple qui vient de se réveiller devant la folie migratoire de leur dirigeante. Elle semble de plus en plus isolée, qui menace aujourd’hui de faire capoter l’union entre la CDU et la CSU.

Philippe Jumel: «Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir»

Philippe Jumel: «Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir»

Conférence de Philippe Jumel du 23 mars 2015 : « Comprendre les mécanismes de la grande crise à venir ».
Pour aller plus loin sur ce sujet, l'ouvrage de P. Jumel et M. El Hattab publié aux éditions Perspectives Libres est disponible sur notre site : http://cerclearistote.com/sortie-des-....

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Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

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Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

Da Hafez a Bashar Al Assad, l'ultimo gruppo politico "panarabo" si è rinnovato pur conservando i suoi valori socialisti e patriottici, tradizionalisti e laici, anti-colonialsti e identitari.
 
 
Ex: http://www.linttelletualedissidente.it
 

In Medio Oriente, nell’universo politico di cultura laica, sono tante e spesso in conflitto tra loro, le personalità che si sono elevate al di sopra delle nazioni per incarnare l’ideale panarabo. Ahmed Ben Bella in Algeria, Gamal Abdel Nasser in Egitto, Saddam Hussein in Iraq, Muammar Gheddafi in Libia, Hafez Al Assad in Siria. Gli uomini passano, le idee restano. Di fronte ai grandi sconvolgimenti della regione, il più delle volte rimodellata dall’esterno, un solo gruppo politico è riuscito a conservarsi nel tempo e a mantenere viva la fiamma di un pensiero politico che ancora oggi appare profondamente attuale. È la storia del Baath, il partito che attualmente governa in Siria e che fa capo al presidente Bashar Al Assad.

Nato nel Rashid Coffee House di Damasco (divenuto successivamente il Centro Culturale Sovietico), dove ogni venerdì un gruppo di giovani studenti provenienti da tutto il Paese – comprese le piccole delegazioni di Giordania, Libano e Iraq – il Baath si riunisce intorno aMichel Aflaq (1910-1989) e Salah Al Bitar (1912-1980), due insegnanti damasceni, rispettivamente di confessione cristiana e islamica, che si erano conosciuti a Parigi quando frequentavano le aule universitarie della Sorbona. Il primo nucleo si costituisce negli anni Quaranta sulle note di Nietzsche, Marx e del romanticismo tedesco, ma l’ufficializzazione del partito si colloca nel 1947 dopo un incontro tra i vertici a Latakia in cui è raggiunto l’accordo sia sul programma politico che sul nome da dare allo schieramento nascente: Baath, ovvero, Partito della Resurrezione araba. Al congresso costitutivo la maggior parte dei delegati sono di estrazione borghese, principalmente notabili delle campagne, e di confessione drusa e alawita, anche se poi saranno sempre di più i cristiani e i sunniti che vi aderiranno.

baath33904400000.jpgCosì mentre si delinea lo scenario di una Guerra Fredda articolata sulla contrapposizione tra due blocchi, quello statunitense e quello sovietico, i teorici Aflaq e Al Bitar mirano a edificare un’ideologia esclusivamente araba che si smarca sia dal capitalismo imperialista che dal marxismo internazionalista e che allo stesso tempo riesca a conciliare laicità, tradizione islamica, socialismo e nazionalismo. Patrick Seale, giornalista irlandese e biografo di Hafez Al Assad scrive ne Il Leone di Damasco parafrasando la dottrina del partito: “La nazione araba, insegna Aflaq, è millenaria, eterna ed unica, risale all’inizio dei tempi e ha davanti a sé un ancor più luminoso futuro. Per liberarsi dall’arretratezza e dall’oppressione straniera, gli arabi devono avere fede nella loro nazione ed amarla senza riserve”.

Michel Aflaq formula così le parole di battaglia e le trasmette al popolo siriano durante le conferenze e tramite gli opuscoli distribuiti in tutto il Paese dai giovani militanti che si organizzano capillarmente in cellule e sezioni. Nel 1953 il Baath fallisce il primo tentativo di colpo di Stato, ma riesce a ramificarsi in tutti i Paesi della regione, principalmente in Iraq. E paradossalmente proprio in Iraq, nel 1963, riesce a conquistare il potere facendo cadere il regime di Abd al Karim Qaem, (il governo baathista durò pochi mesi per poi consolidarsi soltanto qualche anno dopo, nel luglio del 1968, con Ahmed Hasan Al Bakr), aprendo tuttavia la strada a un parallelo capovolgimento in Siria. Nello stesso anno il Baath siriano fu portato al potere dai militari e da essi ricevette il consenso per rimanervi. Fu intrapreso immediatamente un percorso per lo sviluppo del cosiddetto socialismo arabo, tentando di liquidare le basi economiche della vecchia élite ancora legate all’occupazione inglese e francese. Fu applicata la riforma agraria, furono nazionalizzate banche (1963), aziende commerciali e industriali (1965).

Mentre in Iraq, nel novembre del 1963, i militari posero fine al regime bathista, in Siria continuò, pur con tanti problemi interni. Inizialmente fu l’ideatore sunnita Al Bitar ad occupare il potere (1966), poi però fu estromesso dall’ala radicale del partito che decise di espellerlo dal Paese insieme all’altro ideatore Michel Aflaq, il quale si rifugiò in Iraq dove contribuì alla conquista dello Stato nel 1968 (questo esilio fu, oltre all’inimicizia personale tra Hafez Al Assad e Saddam Hussein, uno dei motivi della rottura tra il Baath siriano e quello iracheno). L’espulsione dei due padri fondatori consacrava un nuovo corso: il Baath siriano assunse un carattere più nazionale, se non più alawita, conservando l’ideale “panarabo” come strumento di legittimazione nell’intera regione. Ma la vera svolta avviene nel febbraio del 1971 quando i dirigenti del partito e l’ala militare affidarono il potere ad un uomo che si era fatto spazio nella classe politica, Hafez Al Assad, primo presidente alawita della storia siriana, che orientò immediatamente il Paese verso l’Unione Sovietica, attuò una politica economica di natura socialista e tutelò la laicità dello Stato. Pur dichiarandosi promotore della tradizione islamica nel Paese, tre dei suoi fedelissimi, Jubran Kurieyeh, Georges Jabbur ed Elyas Jibranerano, erano di religione cristiana.

Ma chi era il padre di Bashar? Il generale Hafez Al Assad (1930-2000), nacque a Qardaha, nell’area di Latakia, terzogenito di una famiglia alawita. Svolse i suoi studi primari nel suo villaggio, quelli secondari a Latakia, e nel 1946 si iscrisse al nascente partito Bath, facendosi notare nel 1951 per aver presieduto il congresso degli studenti. Più avanti si iscrisse alla scuola militare di Homs e, appena uscito nel 1955 con il grado di tenente, diventò pilota alla scuola aviatoria di Aleppo. Dopo una serie di vicissitudini interne al Baath e una serie di colpi di Stato falliti (1961, 1963 e 1966) in cui partecipò in prima persona, Hafez al Assad, che acquistò sempre più peso politico, entrò nella direzione del partito nel 1969 e assunse la carica di ministro della difesa nel maggio del 1969. Fu eletto presidente della Repubblica Araba Siriana nel 1970. Con sistemi a volte brutali – tra questi il bombardamento di Hama nel 1982 – riuscì a dare autorevolezza e dignità ad un Paese che in quegli anni era diventato probabilmente il più importante protagonista del Medio Oriente.Giulio Andreotti, che fu uno degli uomini più popolari in quella regione, rimase affascinato dall’omologo siriano. Le autorità sovietiche lo consideravano il miglior alleato nel mondo arabo. Bill Clinton dopo averlo incontrato nell’ottobre 1994 lo definì “duro ma leale”. Il giornalista irlandese Patrick Seale, morto l’anno scorso all’età di 84 anni, è stato il suo “biografo” occidentale. Nel suo libro pubblicato nel 1988, intitolato Il Leone di Damasco(Gamberetti editrice), ritrae fedelmente la figura di un uomo che nel bene e nel male, attraverso il figlio Bashar Al Assad, fa ancora parlare di sé e dell’ideale “panarabo”.

Articolo pubblicato su Il Giornale

Don Quijote und die Konservativen

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Don Quijote und die Konservativen

von Carlos Wefers Verástegui

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Der „Ritter von der traurigen Gestalt“ ist den meisten als eine komische Figur, das Buch über Don Quijote selbst als eine Parodie mittelalterlicher Ritterromane bekannt.

Doch in Wahrheit steckt viel mehr in ihm, als sich ahnen lässt. Der Quijote ist nämlich eine konservative Symbolfigur. Zur Zeit des Quijotes, im 17. Jahrhundert, gab es zwar noch die Wertewelt des Mittelalters mit ihren idealen Vorstellungen von Adel und Königtum. Doch diese hatte sich von den tatsächlich bestehenden Institutionen und Würdenträgern getrennt.

Der Adel tat es seinen in Cervantes´ Roman auftauchenden Repräsentanten gleich: der Schwertadel war zu einem weitgehend funktionslosen Landadel geworden und zur Müßigkeit verurteilt. Der Hochadel, obwohl er noch einiges Gewicht besaß, übte sich zunehmend darin, sich auf immer feinere und spielerische Weise die Zeit zu vertreiben und überhaupt das Dasein zu versüßen, als dass er sich dem Gemeinwesen verpflichtet fühlte. Das eigene Königtum – der König – hatte aufgehört, das Ideal des Ritters und Kriegers beispielhaft zu verkörpern. Es war zu einer Gewalt mutiert, die zwar überall, gleich einem Schatten, bedrohlich hin(ein)fallen konnte, doch selbst da, wo sie ihre Macht aufs deutlichste spüren ließ, haftete ihr doch stets etwas Schattenhaftes an.

Ein abgeklärtes und „entzaubertes“ Zeitalter

In dieser abgeklärten Atmosphäre, einem, den Untertanen fernen und unpersönlichen, eben schattenhaften Absolutismus, in der Ehrgeiz und Gewinnstreben mehr auszurichten vermochten als persönliche Tugend, wurde den ritterlichen Idealen kein besonderer Ernst mehr entgegen gebracht. Der Titel „Ritter“ selbst war käuflich geworden oder wurde, aus bürokratischem Verdienst, an die „Räte“ des absolutistischen Verwaltungsstaats verliehen.

Diese wirkliche Welt des Landedelmanns Alonso Quijano stand im krassesten Gegensatz zu den imaginierten Traumländern und Wundergeschichten, von denen er aus seinen heißgeliebten Ritterromanen erfahren hatte. Sowohl Alonso Quijano als auch sein höheres Selbst, Don Quijote, waren sich ihrer höchst nüchternen Realität nur allzu bewusst. Der unüberbrückbare Gegensatzes zwischen ihr und der den Ritterromanen entnommenen besseren Wertewelt des Mittelalters brachte diese Einsicht fast zwangsläufig mit sich.

Don Quijote brauchte deshalb nicht erst auf Max Weber zu warten, um zu wissen, was „Entzauberung“ und „stahlhartes Gehäuse“ bedeutet: beides war ihm längst zur bitteren Gewissheit geworden, sein Zeitalter ihm ganz folgerrichtig ein „greuliches“. Alonso Quijano-​Don Quijote besaß ein unzweifelhaft richtiges Bewusstsein von seiner Realität.

Alonso Quijano wird zu Don Quijote

Als einem Nachfahren echter Ritter zeichnete sich Hidalgo Alonso Quijano durch eine ihm eigene Kühnheit aus: aus den besonderen Umständen seines müßigen Daseins heraus musste sie eine geistige Richtung nehmen. Diese Kühnheit Alonso Quijanos ging so weit,dass er das Rittertum vollständig beim Wort nahm. Nachdem seine Phantasie aus den Fugen geraten – durch zahlreiche Übernächtigungen – und übermäßig gereizt – durch den ungesunden Genuss von Ritterromanen – , sein „Gehirn ausgetrocknet“, sein Verstand überwältigt ist, beschließt er doch tatsächlich, Ritter zu werden.

Seine „Verrücktheit“, die eigentlich eine Steigerung seiner geistigen Kühnheit ist, besteht darin, Wertewelt und Phantasiegebilde der Ritterromane gleich ernst genommen zu haben. Der Hidalgo Alonso Quijano wird zu Don Quijote dadurch, dass er das, was er liest und was ihn anreizt, so für richtig befindet und deshalb auch für würdig, als Ganzes in die Wirklichkeit überführt zu werden. Die geistige Kühnheit artet dabei aus, Alonso Quijano wird – verrückt. Cervantes lässt seinen tragischen Helden Alonso Quijano-​Don Quijote absichtlich über das Ziel hinausschießen. Er lässt ihn von vornherein „verrückt sein“, vielleicht aus vorausgreifender, vorsichtiger Rücksichtnahme auf die sich übervernünftig ankündigende Wirklichkeit seiner Zeit.

donquichotte6.jpgEdmund Burke ist Don Quijote

Als der „Vater des Konservatismus“ Edmund Burke der Französischen Revolution seine „Betrachtungen“ entgegenschleuderte, bediente er sich des Bildes des „metaphysischen Ritters“. Er wollte die Revolutionäre als abstrakte Fanatiker entlarven. Don Quijote war damals eine bekannte komische Figur. Burke konnte voraussetzen, dass er verstanden wurde. Nur war Burke im eigentlichen Sinne Don Quijote, weil er es wagte, der Revolution die Stirn zu bieten – im Namen der Ritterlichkeit – , und dabei im gleichen Atemzug verkündete: „Doch das Zeitalter der Ritterlichkeit ist nun vorbei. Die Sophisten, die Ökonomen, die Erbsenzähler haben gewonnen. Und die Herrlichkeit Europas ist nicht mehr.“

Im gleichen Sinne wie Burke zog aber der „metaphysische Ritter“ aus wider sein Zeitalter der „Greulichkeit“, trotzdem er zu genüge wusste: Es gibt keine fahrenden Ritter mehr. Don Quijote und Burke gleichen sich auf Haar in ihrer jeweiligen Kampfansage, die bei ihnen Verneinung und Bejahung der Gegenwart in einem ist. Beiden wird ihre Gegenwart zur eigentlichen Herausforderung, sie wird ihnen zum Prüfstand ihrer eigenen ritterlichen Tugend: sie ist ein Material, welches sie sich in Wahrheit gar nicht anders wünschen könnten, in ihr gilt es nämlich sich zu bewähren.

Romantischer Politiker und Antikapitalist

Die konservative Bedeutung Don Quijotes ist der Deutschen Romantik früh aufgegangen. Sie sah in ihm einen Wesensverwandten. Später ist Carl Schmitt von dieser konservativ-​romantischen Entdeckung des Quijotes ausgegangen, um den unsterblichen Typus des „romantischen Politikers“ – eines echten Politikers im Gegensatz zum „politischen Romantiker“ – anhand des Quijotes darzustellen.

Werner Sombart hat seinerseits Don Quijote als einen hervorragend antikapitalistischen Typus betrachtet. Bei seinem ersten „Auszug“ kommt der Ritter gar nicht darauf, dass er bei der Ritterfahrt eine derartige Trivialität wie „Geld“ nötig haben könnte. Das muss ihm erst ein verschmitzter Gastwirt beibringen. Besonders grell leuchten die gegensätzlichen Prinzipien von Antikapitalismus und Geldreichtum bei Don Quijotes Zusammenstoß mit Seidenhändlern auf. Am Ende dieser unseligen Begegnung liegt der wackere Held hilflos und gedemütigt auf der Erde, seine Lanze wird zu Kleinholz gemacht, er selbst von einem gemeinen Maultierjungen mit den Lanzenresten geprügelt.

Absage an die Moderne

Die „Modernität“ des Quijotes ist von der Literaturwissenschaft oft betont worden. Weniger oft bemerkt wurde die seltsame Spannung, in der sich die literarische Modernität des Buches mit der Antimoderne des Helden befindet. Eines der genialsten Kapitel des Quijotes, das, „Welches von der merkwürdigen Rede handelt, die Don Quijote über die Waffen und die Wissenschaften hält“, ist in seiner leidenschaftlichen Parteinnahme für den seine Waffen tragenden Soldaten und gegen den Rechtsgelehrten ein großartiger Versuch, das vom Mittelalter ererbte Bildungsideal „Waffen und Wissenschaften“ wiederherzustellen.

Wie tief dabei die Absage an die Moderne geht, wird im Vergleich zu Hegel deutlich. Der Gegenstand, von dem beide in ihrer jeweiligen Auseinandersetzung mit der Moderne ausgehen, sind die Feuerwaffen. Dass die Bewertung dabei unterschiedlich ausfällt, liegt auf der Hand, die Gründe aber, die sie anführen, sind überraschenderweise die gleichen.

In der „Philosophie des Rechts“ (§ 328) teilt Hegel die Verwünschungen und die Entrüstung Don Quijotes nicht. Hegel bejaht den Fortschritt, den Weg, den der „Geist“ zu sich selbst, zum modernen Staat, nimmt. Im Herzen dieses Epoche machenden Prinzips „der modernen Welt“ – nach Hegel: der Gedanke und das Allgemeine – steht die Überwindung der feudalen Welt. Hegel begreift philosophisch, was Don Quijote-​Cervantes am eigenen Leibe erfahren und begriffen hat. Nur verneint Don Quijote die Moderne aus Gründen, die sich aus seiner existenziellen Situation und seiner Wesensart ergeben.

Während der deutsche Protestant eine historische Rechtfertigung der „Entwicklung“ liefert, treibt der existentielle Protest den spanischen Edelmann und Ritter Alonso Quijano-​Don Quijote zum Handeln an. Don Quijote scheitert zwar, bleibt aber, wie er auch am Ende wieder „zu sich kommt“ und kurz darauf als einfacher „Hidalgo Alonso Quijano der Gute“ tot und begraben liegt, einem ganzen Zeitalter gegenüber im Recht.

 

 

La Nouvelle Revue d'Histoire n°81 est en kiosque

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La Nouvelle Revue d'Histoire est en kiosque (n° 81, novembre - décembre 2015)

Le dossier central est consacré aux scandales financiers et à la corruption politique. On peut y lire, notamment,  des articles de Philippe Conrad ("La corruption des « grands ancêtres »" ; "Panama et les « chéquards »"), de Martin Benoist ("1847 : l'affaire Teste-Cubières"), de Christian Lépagnot ("Le duc de Morny et les bons Jecker"), de Jean Kappel ("Le krach de l'Union générale" ; "La Légion d'honneur à l'encan" ; "La cinquième république des « affaires»"), de Clément Mesdon ("L'affaire Stavisky") et d'Olivier Dard ("Politique et finance, les raisons du scandale").

Hors dossier, on pourra lire, en particulier, deux entretiens avec Jean-Paul Bois ("Une nouvelle histoire militaire") et un autre intitulé "Dominique Venner et le Blanc Soleil des vaincus"), ainsi que des articles d'Emma Demeester ("Godefroy de Bouillon. Un preux à Jérusalem", de Philippe Parroy ("Les deux siècles de la croisade d'Orient"), d'Agnieszka Moniak-Azzopardi ("La Grande Guerre, une guerre polonaise ?"), de Laurent Wetzel ("Jean-Paul Hutter, un normalien dans la Wehrmacht") d'Isabelle de La Mettrie ("Décembre 1965. De Gaulle en ballotage") et de Martin Benoist ("Le monde disparu de la Prusse rouge"), ou encore les chroniques de Péroncel-Hugoz et de Philippe d'Hugues....

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