Nero, Musulmano, Socialista?
Ex: http://www.mirorenzaglia.org/
Dammi tre parole. No, non “sole, cuore, amore”. Dammi le tre parole che hanno dominato la campagna elettorale Usa: “nero, musulmano, socialista“. Tre spettri, tre fantasmi che abitano la perenne cattiva coscienza di quel gigante paranoico che è lo (pseudo)impero statunitense. Tre accuse rivolte al nuovo messia a stelle e strisce. Accuse per il momento rispedite al mittente dai milioni di americani recatisi alle urne con fervido entusiasmo anche grazie alla perenne impresentabilità degli esponenti repubblicani. Accuse respinte, quindi. Eppure c’è da credere che i tre macigni peseranno non poco sulla nuova amministrazione a stelle e strisce.
Cominciamo dall’”abbronzatura”. Ecco, qui la malafede del pensiero dominante esce completamente allo scoperto. Ancora nessuno l’ha detto, quindi lo faccio io: sostenere un candidato esclusivamente in virtù del colore della sua pelle è, semplicemente, razzismo. E’ razzismo, ci hanno sempre detto, l’articolazione di tre concetti: a) l’idea di razza ha realtà definita, concreta, sostanziale; b) tale concetto è totalizzante nel definire l’essenza di singoli e gruppi umani; c) da tale appartenenza si possono desumere giudizi morali. Ora, sarà abbastanza semplice constatare come l’opinione pubblica mondiale sia caduta in ognuno di questi tre momenti dialettici nel giudicare la formidabile ascesa del buon Barack. Che è nero, quindi buono. Chissà perché - misteri del politicamente corretto - la cosa non ha funzionato con Condoleeza Rice. Non precisamente una svedese,eppure, di fatto, colei che ha mosso i fili della pur universalmente detestata politica estera statunitense nell’era Bush. Beninteso, non ho nessuna simpatia per l’egemonia Wasp e ho sempre trovato affascinante, se è per questo, un personaggio come Malcom X. Ma Obama non è Malcom X.
Politica estera, si diceva. Le immagini di Barack Hussein Obama con il turbante hanno smosso l’opinione pubblica americana in un momento in cui la crisi finanziaria e l’imbarazzante Sarah Palin non avevano ancora definitivamente compromesso le speranze dei repubblicani di restare alla Casa Bianca. Urgeva - ed urge - mostrare continuità in politica estera. La prima nomina del presidente eletto, in questo senso, lascia poco spazio all’immaginazione. Il nuovo chief of staff (capo di gabinetto) sarà infatti Rahm Emanuel. Uno, per capirci, che aveva il padre nell’Irgun, il gruppo paramilitare che mostrò particolare vivacità a Der Yassin. Da Tel Aviv è presto giunto un sospiro di sollievo: “E’ il nostro uomo alla Casa Bianca”, hanno esclamato i media israeliani. Quanto al vicepresidente eletto, Joe Biden, sappiamo che durante la guerra in Bosnia chiese con forza misure in favore dei pupilli di Washington, ovvero i musulmani bosniaci, dalla fine dell’embargo sulle armi ai raid aerei della Nato alle azioni giudiziarie contro i crimini di guerra. Per il resto dello staff si parla di uomini del giro Kennedy (sì, quello che rase al suolo il Vietnam) e Clinton (sì, quello che fu autore della prima aggressione all’Europa dal 1945 ai danni della Serbia). E lui, il buon Obama? Il primo agosto scorso ha dichiarato: “Noi porteremo avanti una guerra che deve essere vinta. Il primo passo è quello di lasciare il lasciare il campo di battaglia sbagliato in Iraq per spostarci in quello giusto, in Afghanistan e Pakistan. Voglio essere chiaro: su quelle montagne si nascondono i terroristi che hanno ucciso tremila americani e pianificano di colpire ancora. Se abbiamo concrete informazioni d’intelligence su obiettivi terroristici di alto valore e il presidente Musharraf non agisce, lo faremo noi”. Illuminanti, poi, le sue parole a proposito della Russia: «Dobbiamo fornire sostegno morale alla Polonia, all’Estonia e alla Lituana e a tutte le nazioni dell’ex blocco sovietico. Ma dobbiamo anche fornire a questi Paesi un sostegno economico e finanziario per aiutarli a ricostruire le loro economie». Polonia, Estonia, Lituania. Obiettivo: accerchiare lo zar.
Insomma: tutto cambia, nulla cambia. O forse no, forse qualche cambiamento ci sarà davvero. Stavolta le guerre saranno umanitarie. Con Obama torna a reclamare i suoi diritti il cosiddetto soft power, l’arma mediatico-culturale. Obama significa: rilancio del sogno americano, nuovo inizio per un’egemonia culturale planetaria che sembrava persa. Con la nuova amministrazione ritorna il multilateralismo di facciata per assicurare l’unilateralismo di fatto. Con la sua politica goffa e autistica, Bush aveva aperto la strada ad una riconsiderazione del ruolo degli Usa nel mondo da parte del resto delle nazioni. Con Barack il bello si torna al passato. Con Barack il buono torna la missione di civiltà della guida morale del globo. Con Barack lo sportivo anche i B52 diventano cool. Oh yeah!
Ma, almeno, il nuovo Martin Luther King sarà “socialista”? Questa, in effetti, fu l’accusa di “Joe l’idraulico”. Intendiamoci: in America “socialismo” non indica quella miscela di Marx e Sorel, scioperi e sindacalismo che conosciamo in Europa. Negli Usa, un ospedale pubblico decente è già socialismo. Roba che fa accapponare la pelle a ogni buon americano. Quanto a Obama, è facile prevedere che, come ogni inquilino della Casa Bianca che si rispetti, suonerà la musica prevista da chi paga l’orchestra. Che, secondo dati diffusi da Peacereporter, ha ricevuto ingenti sovvenzioni da, indovinate un po’: la Goldman Sachs. Proprio loro, sempre i soliti. Obama, in particolare, ha preso - tramite donazioni personali, mai aziendali - 874 mila dollari dalla Goldman Sachs (che a McCain ha dato solo 228 mila dollari), 581 mila dalla JPMorgan Chase (a McCain solo 215 mila), altri 581 mila dalla Citigroup (a McCain solo 296 mila), 454 mila dall’Unione Banche Svizzere (a McCain solo 147 mila) e 425 mila dalla Morgan Stanley (a McCain solo 262 mila). Le banche hanno scelto, quindi. Chissà, magari stavolta è la decisione giusta anche per i popoli.
Sarebbe la prima volta.
Adriano Scianca
Les commentaires sont fermés.