Dalla casa editrice romana Pagine sono stati pubblicati recentemente (giugno 2015) gli atti di un convegno tenutosi nel 2014 nella capitale e dedicato al tema “Julius Evola oltre il muro del tempo. Ciò che è vivo a quarant’anni dalla morte”. Il volume, dal medesimo titolo, comprende tutte le relazioni presentate all’epoca, cioè quelle di de Turris, Veneziani, Malgieri, Fusaro e Scarabelli. Qui mi occuperò soltanto del testo di Fusaro, avente come oggetto “Evola e Heidegger critici dell’americanismo”, ed esclusivamente della parte riguardante Evola.
L’impostazione metodologica di Fusaro è indubbiamente condivisibile: “in filosofia il solo modo di rendere onore a un autore consiste nel discuterne criticamente le tesi, a distanza di sicurezza dai due atteggiamenti – apparentemente opposti e, in verità, segretamente complementari – dell’elogio agiografico e della demonizzazione preventiva” (p. 27). Altrettanto condivisibile, anche se per nulla originale, è l’approccio di Fusaro all’esame evoliano dell’americanismo, in quanto prende giustamente le mosse dal celebre scritto del 1929, Americanismo e bolscevismo, uscito sulla rivista “Nuova Antologia”. Ulteriore aspetto da sottolineare è l’insistenza, corretta, sul ‘maggior pericolo’ rappresentato, agli occhi di Evola, dall’America rispetto all’Unione Sovietica. Ma con ciò si esauriscono, a parere di chi scrive, gli spunti positivi presenti nel testo di Fusaro.
Questo perché, innanzitutto, va criticata l’impostazione generale dello scritto, dato che Fusaro, insistendo sempre e solo sul parallelismo americanismo/bolscevismo, finisce col perdere completamente di vista le analisi ben più ricche e articolate riservate da Evola alla ‘civiltà americana’. Detto altrimenti, dallo scritto di Fusaro vien fuori un Evola che praticamente dagli anni Venti sino alla sua morte avrebbe letto l’americanismo servendosi di un’unica chiave interpretativa, quella appunto della sua equipollenza con il bolscevismo, con l’ovvia conseguenza di dar vita a una lettura in fondo astorica e iperschematica, del tutto avulsa dai cambiamenti economici, politici, sociali, culturali, nel frattempo intervenuti. Fusaro infatti passa sistematicamente sotto silenzio, non si comprende se per scarsa conoscenza delle fonti o per superficialità analitica, tutti gli scritti in cui Evola non solo rivede, seppur parzialmente, il suo giudizio negativo sull’America, ma dimostra anche di seguire con attenzione i nuovi fenomeni che nello scorrere del tempo prendevano piede oltreoceano, dalla Beat Generation alle tesi di Burnham, dalle posizioni politiche di Barry Goldwater e George Wallace ai testi di Kuehnelt-Leddhin, e così via.
Non solo, perché anche le critiche rivolte a Evola da Fusaro si rivelano, a mio parere, inconsistenti. Nel dettaglio: Fusaro accusa Evola di incoerenza per aver giustificato la scelta del MSI di votare a favore del Patto Atlantico, pur sottolineando, a ragione, che l’accettazione evoliana del Patto non dipendeva da “un mal celato filoatlantismo” (p. 45) ma si spiegava “unicamente in ragione antisovietica” (p. 45). L’incoerenza consisterebbe nel fatto che essendo, per esplicita ammissione dello stesso Evola, più pericoloso e insidioso l’americanismo, sarebbe in ogni caso contraddittorio schierarsi con quest’ultimo contro il bolscevismo. Qui a me pare che Fusaro non tenga minimamente conto del contesto ‘geopolitico’, pur accusando, al contempo, Evola di essere caduto in contraddizione proprio per aver trascurato il medesimo fattore. La posizione evoliana, infatti, se pure criticabile in astratto, assume forza e coerenza una volta inserita nel concreto contesto di quegli anni, quando la minaccia comunista era avvertita non solo come imminente ma soprattutto capace di condurre all’annientamento persino fisico dello schieramento ‘nazionale’. Basti il rimando ad un importante scritto evoliano apparso nel luglio del 1960 su “L’Italiano”, intitolato C’è un “democratico” con una spina dorsale?, in cui si chiedeva la messa al bando del partito comunista e si auspicava un diretto intervento delle “forze sane” del paese in difesa dello Stato minacciato dal comunismo.
La seconda obiezione mi sembra ancora più infondata. Fusaro (p. 46) cita estesamente un passo evoliano tratto da un articolo del ’57, Difendersi dall’America, apparso su “Il Popolo italiano”[1], dove viene lucidamente adombrata la progressiva americanizzazione cui stava soggiacendo l’intero continente europeo, aggiungendo subito dopo che, alla luce di questa consapevolezza, suonerebbe decisamente contraddittorio l’appellarsi, da parte di Evola, a una possibile reazione ‘antiamericana’ avente l’Italia come centro propulsivo. A sostegno della sua tesi, Fusaro (p. 47) cita due passi evoliani, uno in cui viene detto che la nazione italiana “più di ogni altra è l’anti-Russia e l’anti-America”, l’altro in cui tale ruolo dell’Italia si spiegherebbe grazie alla sua eroica “tradizione mediterranea, ed in ispecie classica e romana”. Per la fonte di entrambe le citazioni, Fusaro rimanda alla pagina 30 della silloge Civiltà americana, ma il punto è che sarebbe fatica sprecata cercarvi tali citazioni e per la semplice ragione che non ci sono. Lo scritto da cui infatti sono tratte le due frasi di Evola è il già ricordato Americanismo e bolscevismo del 1929[2]. Mi sembra pertanto evidente che pensare nel 1929 ad una realistica contrapposizione nei confronti dell’America non avrebbe nulla di contraddittorio rispetto a quanto sostenuto nel 1957, e questo già solo per l’abissale differenza di contesto storico. Non concordo con Fusaro neanche quando afferma che Evola a tale necessaria reazione in senso antiamericano “rimarrà sempre legato” (p. 47), visto che l’idea di tradizione mediterranea verrà abbandonata dallo stesso Evola già nei primissimi anni Trenta, ragion per cui non si comprende davvero come potesse essere ancora considerata, a distanza di decenni, un credibile argine all’americanismo.
Per chiudere: Fusaro afferma che l’antiamericanismo di Evola andrebbe epurato “dalle inaccettabili sfumature razziste” (p. 48). Però Fusaro dovrebbe sapere che l’indignazione morale avrà pure molti pregi ma di sicuro non quello di accrescere la comprensione di ciò che è oggetto di riprovazione. Pertanto, piuttosto che usare la solita ‘clava morale’ antirazzista, sarebbe stato molto più proficuo, a mio modo di vedere, chiedersi se l’avvento anche in Europa della società multirazziale di stampo statunitense abbia contribuito o meno, e in che eventuale misura, alla sempre più pervasiva americanizzazione del nostro continente.
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ottobre 2015
[1] Fusaro cita dalla silloge evoliana, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, pubblicata, a cura di Alberto Lombardo per i tipi di Controcorrente nel 2010. Lo stesso articolo si può leggere nella raccolta completa dei contributi evoliani usciti su Il Popolo italiano, curata da Giovanni Sessa per la Pagine Editrice nel 2014.
[2] Saggio volutamente non inserito nella silloge Civiltà americana. Per la corretta individuazione delle due citazioni si veda J. Evola, “Americanismo e bolscevismo”, in Id., I saggi della Nuova Antologia, Edizioni di Ar, Padova 1982, p. 53, ora anche in Id., Il ciclo si chiude. Americanismo e bolscevismo 1929-1969, a cura di G. de Turris, Fondazione Evola, Roma 1991.
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