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dimanche, 17 avril 2016

La Russia e le relazioni con le repubbliche del Caucaso meridionale

di Emanuele Cassano * 

Ex: http://www.notiziegeopolitiche.net

Se attualmente il Caucaso viene considerato l’estrema propaggine sud-orientale dell’Europa, questo si deve principalmente al fatto che negli ultimi due secoli di storia la regione ha vissuto quasi ininterrottamente sotto il dominio russo. Fu proprio l’Impero zarista ad avviare a partire dalla metà del XIX secolo il processo di occidentalizzazione di una regione che fino a quel momento veniva comunemente considerata storicamente e culturalmente parte del Medio Oriente, essendo rientrata per secoli nelle sfere d’influenza di imperi come quello ottomano e quello persiano, che hanno fatto del Caucaso una terra di conquista.


Verso l’inizio del XIX secolo, consolidate le recenti acquisizioni territoriali (territori di Rostov, Astrakhan e Krasnodar), e approfittando della contemporanea crisi che stava colpendo le due principali potenze regionali, ovvero i già citati imperi ottomano e persiano, l’Impero russo decise di provare a espandere ulteriormente i propri confini verso sud, nella regione del Caucaso, dove già aveva creato qualche avamposto militare. Il primo paese ad essere annesso all’Impero fu la Georgia, che già dal 1783 era diventata un protettorato russo. Invocato dal sovrano locale, nel 1801 lo zar Alessandro I entrò a Tbilisi con l’esercito, ponendo fine a una violenta guerra civile e incorporando il Regno di Kartli-Kakheti (Georgia centro-orientale) all’Impero russo. Nel 1810 i russi annetterono anche il Regno di Imereti (Georgia centro-occidentale), completando la conquista del paese. Nel frattempo l’Impero russo aveva intrapreso l’ennesima guerra contro i persiani (1804) per alcune dispute territoriali riguardanti proprio l’annessione della Georgia, uscendone qualche anno dopo vincitore. A porre fine al conflitto fu il Trattato di Gulistan, stipulato nel 1813, che obbligò l’Impero persiano a riconoscere il dominio russo sulla Georgia e a cedere allo zar il Dagestan, buona parte dell’Azerbaigian e parte dell’Armenia settentrionale.

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Nel 1817 le truppe zariste guidate da Aleksey Yermolov diedero il via alla conquista del Caucaso settentrionale, abitato principalmente da popoli montanari che però riuscirono a opporre una tenace resistenza all’invasione russa. Nel 1826 scoppiò l’ultima delle guerre russo-persiane, che terminò due anni dopo con il Trattato di Turkmenchay, in seguito al quale l’Impero russo acquisì i khanati di Erivan, Nakhcivan e Talysh, oltre alla provincia di Iğdır; mentre un anno dopo i russi ebbero la meglio anche sugli ottomani, che dovettero cedere i porti di Anapa e Poti e parte della Georgia meridionale. Dopo quasi mezzo secolo di dure battaglie, i russi riuscirono infine a piegare anche la tenace resistenza dei montanari del Caucaso settentrionale, sconfiggendo prima gli uomini dell’Imam Shamil nel 1859 e poi spezzando definitivamente nel 1864 la resistenza dei circassi, arrivando a conquistare l’intera regione. Le ultime acquisizioni territoriali nel Caucaso avvennero in seguito alla Guerra russo-turca del 1877-78, quando gli ottomani dovettero cedere allo zar l’Agiara e la provincia di Kars.


In seguito alla Rivoluzione russa del 1917, che segnò la fine dell’Impero zarista, i popoli del Caucaso vissero un breve quanto effimero periodo di indipendenza, segnato da numerose guerre interetniche. Tra il 1919 e il 1921 l’Armata Rossa riuscì a riconquistare la regione, che entrò in seguito a far parte dell’Unione Sovietica. Il Caucaso settentrionale venne inglobato all’interno della RSS Russa, mentre in quello meridionale, dopo la breve esperienza della RSFS Transcaucasica, vennero create le RSS di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il dominio russo nel Caucaso meridionale durò per altri settant’anni, fino a quando nel 1991, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica, le tre repubbliche non proclamarono la propria indipendenza.


Nonostante siano passati ormai 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, per una serie di fattori storici, politici e culturali Mosca continua a esercitare tutt’ora una forte influenza nel Caucaso meridionale, che rappresenta una regione chiave sotto molti punti di vista, verso la quale la Russia nutre ancora grandi interessi economici e geostrategici. Per queste ragioni anche dopo l’esperienza sovietica Mosca ha sempre cercato di mantenere i paesi del Caucaso all’interno della propria sfera d’influenza, usando la diplomazia,cercando di stringere negli anni accordi mirati a rafforzare la cooperazione reciproca, ed esercitando quando necessario il proprio potere coercitivo, garantitole dal ruolo di principale potenza regionale.

Il difficile rapporto con la Georgia.


In seguito alla decisione del governo di Tbilisi di rompere ogni relazione in seguito alla Seconda Guerra in Ossezia del Sud del 2008, Mosca continua a non avere alcun rapporto diplomatico ufficiale con la Georgia. Nonostante l’assenza di relazioni ufficiali, parte delle forti tensioni accumulatesi in seguito alla guerra sono state comunque stemperate negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla salita al potere del partito del Sogno Georgiano dopo le elezioni parlamentari del 2012. L’ascesa del Sogno Georgiano, guidato dal miliardario Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del paese, ha di fatto posto fine agli anni di governo di Saakashvili, da sempre ostile nei confronti del Cremlino, e del suo Movimento Nazionale Unito, che l’anno successivo ha poi perso anche le elezioni presidenziali. La débâcle degli uomini di Saakashvili ha fatto credere a molti analisti politici in un possibile cambio di rotta di Tbilisi in politica estera e ad un conseguente riavvicinamento alla Russia; tale riavvicinamento non si è però mai concretizzato, a causa delle inconciliabili posizioni che hanno impedito finora lo sviluppo di un dialogo costruttivo tra Mosca e Tbilisi.

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Il principale motivo di scontro tra i due paesi è la questione delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud, il cui status è tuttora disputato. Tbilisi considera le due regioni parte integrante del proprio territorio, continuando a denunciare l’occupazione da parte delle milizie locali e dell’esercito russo; il Cremlino invece, in seguito al confitto del 2008 ne ha riconosciuto l’indipendenza, stringendo nel tempo rapporti sempre più stretti con i due governi locali. Come affermato recentemente dai vertici del governo georgiano, Tbilisi non ha intenzione di ripristinare i rapporti con Mosca né ora né in un prossimo futuro, almeno finché la situazione non cambierà. Il governo georgiano si aspetta infatti che la Russia faccia un passo indietro, ritrattando il riconoscimento delle due repubbliche o perlomeno ritirando le proprie truppe dalle regioni occupate; dal canto suo Mosca, principale alleato di Sukhumi e Tskhinvali, non sembra essere disposta a prendere in considerazione le richieste di Tbilisi.


La rottura dei rapporti diplomatici con Mosca ha finito per influire fortemente anche sull’economia georgiana, considerando che fino al 2006 la Russia è stata uno dei più importanti partner commerciali di Tbilisi. Il primo segno di rottura è avvenuto proprio in quell’anno, con l’embargo economico imposto da Mosca nei confronti dei vini georgiani per presunte violazioni delle norme sanitarie. La situazione è poi nettamente peggiorata in seguito al conflitto russo-georgiano, quando Mosca ha deciso di aumentare sensibilmente il prezzo del gas destinato alla Georgia, paese che non dispone di materie prime, la quale per pronta risposta ha iniziato a importare in misura sempre maggiore dall’Azerbaigian (attualmente Tbilisi importa il 90% del gas naturale da Baku, mentre solo il restante 10% proviene dalla Russia, diretto in Armenia). Recentemente, dopo che la domanda di gas nel paese è aumentata, il governo di Tbilisi ha provato a intavolare una trattativa con Gazprom per aumentare la quantità di gas russo commercializzabile nel mercato georgiano, per fare concorrenza all’Azerbaigian e ottenere prezzi più competitivi; la decisione di trattare con la compagnia russa è stata però fortemente contestata dall’opposizione, che è scesa in piazza per protestare contro la trattativa, costringendo il governo a prendere accordi per un aumento di fornitura con la compagnia azera SOCAR.


A fine anno in Georgia si terranno le elezioni parlamentari, con il Sogno Georgiano arrivato al termine del proprio mandato con Giorgi Kvirikashvili come primo ministro, dopo la parentesi di Garibashvili, che proverà a riconfermarsi alla guida del paese nonostante il crescente calo di consensi, difendendosi ancora una volta dall’assalto del Movimento Nazionale Unito dell’ex presidente Saakashvili, ora guidato dal suo delfino Davit Bakradze. L’esito di queste elezioni potrebbe avere un importante impatto nel bene o nel male sulle future relazioni tra Mosca e Tbilisi.

La cooperazione con Abkhazia e Ossezia del Sud.


Un discorso a parte meritano Abkhazia e Ossezia del Sud, territori che la Russia riconosce ufficialmente come repubbliche indipendenti. In seguito al riconoscimento Mosca ha intensificato i rapporti diplomatici e commerciali con Sukhumi e Tskhinvali, assumendosi inoltre l’incarico di difenderei loro confini, nonché ponendosi come principale garante del loro status quo. Negli anni immediatamente successivi al conflitto con la Georgia, per cercare di far ripartire il settore economico dei due paesi Mosca ha provveduto a elargire una serie di importanti finanziamenti ai due governi, mentre per cercare di aggirare il loro isolamento politico (oltre alla Russia l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono riconosciute solo da Nicaragua, Venezuela e Nauru) ha provveduto a distribuire passaporti russi ai cittadini abkhazi e sud-osseti, permettendogli di spostarsi agevolmente all’interno della Federazione Russa e di viaggiare all’estero.


Nel 2014 la Russia ha stretto con l’Abkhazia un importante accordo di cooperazione che ha ulteriormente rafforzato i legami economici tra i due paesi, all’interno del quale è stato definito un prestito di circa 5 miliardi di rubli (più o meno 65 milioni di euro); parte dello stesso accordo è stata anche la creazione di uno spazio comune di difesa e sicurezza, con la decisione di Mosca di aumentare la militarizzazione del confine abkhazo-georgiano. L’anno successivo la Russia ha firmato un secondo accordo “sull’alleanza e l’integrazione” con l’Ossezia del Sud, attraverso il quale Mosca ha deciso di attuare un’unione doganale tra i due paesi per venire incontro alla precaria economia osseta, togliendo inoltre i controlli alla frontiera per rendere più agevole il transito delle persone. L’accordo ha riguardato anche la sicurezza, con la decisione di accorpare le milizie sud-ossete alle forze armate russe e agli altri corpi di sicurezza che presidiano la regione, andando a formare un vero e proprio esercito unico.

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Questi ultimi accordi hanno portato le due repubbliche caucasiche a raggiungere un elevato grado d’integrazione con Mosca, spingendo diversi analisti politici a ipotizzare soprattutto nel caso dell’Ossezia del Sud una possibile futura annessione alla Russia; ipotesi rafforzata dalle parole del presidente sud-osseto Leonid Tibilov, che lo scorso ottobre ha fatto capire che il suo paese sarebbe pronto a votare l’unione alla Russia, definita come “il sogno di tante generazioni di osseti”. Finora questa ipotesi è stata però sempre smentita da Mosca, la quale è conscia del problematico impatto che una mossa di questo tipo avrebbe sulla comunità internazionale e sui rapporti con la Georgia.

L’alleanza con l’Armenia in chiave euroasiatica e la questione del Nagorno-Karabakh.


Intrappolata in una morsa formata da due paesi ostili come la Turchia a ovest e l’Azerbaigian a est, fin dal momento della sua indipendenza l’Armenia ha sempre cercato di intrattenere buoni rapporti con la Russia, unico alleato affidabile nella regione in grado di proteggere Yerevan dai bellicosi vicini ed evitarle l’isolamento politico. Nonostante questo, l’Armenia ha mantenuto per anni una posizione piuttosto ambigua in politica estera, legandosi in modo sempre più stretto a Mosca ma cercando di seguire contemporaneamente la strada dell’integrazione europea.


Dopo diverse indecisioni, nel 2013 il governo di Yerevan ha finalmente scelto il percorso da intraprendere, annunciando di volere aderire all’Unione Doganale Euroasiatica, interrompendo così il processo di integrazione europea a soli due mesi dal vertice del Partenariato Orientale tenutosi quell’anno a Vilnius, in cui l’Armenia avrebbe dovuto firmare l’Accordo di associazione con l’Unione Europea. L’anno successivo il paese è entrato ufficialmente all’interno della neonata Unione Economica Euroasiatica, aggiungendosi a Russia, Bielorussia e Kazakistan.

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Il recente ingresso dell’Armenia nell’Unione Euroasiatica ha contribuito a rafforzare ulteriormente i già solidi rapporti con Mosca, che rappresenta attualmente il primo partner commerciale di Yerevan sia per quanto riguarda le importazioni che le esportazioni. Negli ultimi anni la Russia ha inoltre concesso una serie di sostanziosi finanziamenti mirati a rilanciare l’economia dell’Armenia, che in cambio ha garantito a Mosca l’esclusiva in diversi settori economici tra cui alcuni di fondamentale importanza come quello dell’approvvigionamento energetico. La maggior parte del gas e del petrolio consumato nel paese caucasico viene infatti importata da Mosca, che al momento vanta il diritto esclusivo a utilizzare tutte le infrastrutture energetiche presenti nel paese, compreso il gasdotto che collega Yerevan a Teheran, rilevato lo scorso anno da Gazprom attraverso la filiale armena Armrosgazprom. In mano a una compagnia russa è anche il settore dell’energia elettrica, che viene gestito dalla Inter RAO.


Tra la Russia e l’Armenia si registra una grande cooperazione anche nel settore della sicurezza. Considerato il progressivo riarmo azero, nonché l’aumento dell’instabilità nella regione del Nagorno-Karabakh, recentemente teatro di violenti scontri, nell’ultimo periodo Mosca ha concesso a Yerevan una serie di prestiti mirati a finanziare l’acquisto di armamenti di produzione russa, intensificando inoltre le esercitazioni congiunte con l’esercito armeno. In cambio del supporto militare l’Armenia ha concesso alla Russia di mantenere attiva la 102ª Base Militare di Gyumri, nel nord-ovest del paese, così come la 3624ª Base Aerea di Erebuni, situata alle porte di Yerevan. Recentemente l’Armenia ha inoltre firmato con Mosca un accordo che prevede la creazione di un sistema regionale comune di difesa aerea, che assicurerà lo scambio di informazioni tra i due paesi su tutto lo spazio aereo del Caucaso, e aiuterà lo sviluppo dei sistemi missilistici di difesa aerea e dei sistemi radar armeni.


La Russia gioca inoltre un ruolo di primo piano nel processo di pacificazione del Nagorno-Karabakh, territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian che fu teatro nella prima metà degli anni Novanta di un sanguinoso conflitto armato, terminato nel 1994 in seguito a un cessate il fuoco negoziato proprio dal Cremlino. Il fatto che in oltre vent’anni i governi di Armenia e Azerbaigian non siano mai riusciti ad avviare un dialogo costruttivo, aspettando che qualche organizzazione o paese terzo risolvesse la questione per conto loro, ha così finito per conferire gradualmente alla Russia un ruolo di fondamentale importanza nel processo di risoluzione del conflitto.


Attualmente Mosca insieme a Francia e Stati Uniti siede alla presidenza del Gruppo di Minsk, struttura creata nel 1992 dall’OSCE (all’epoca CSCE) per cercare di risolvere la questione del Nagorno-Karabakh attraverso vie diplomatiche, la quale finora non è però riuscita a conseguire risultati importanti. Ma il ruolo di primo piano di Mosca va oltre i negoziati portati avanti dal Gruppo di Minsk; in seguito alle reciproche provocazioni e ai conseguenti incidenti che si sono verificati negli ultimi anni lungo la linea di confine armeno-azera, il Cremlino, quale principale potenza regionale,è sempre stato pronto a prendere in mano la situazione, finendo quindi per essere legittimato dalle due parti nel ruolo di principale mediatore del conflitto.

Mosca e l’Azerbaigian, amici in conflitto d’interessi.


Il rapporto che l’Azerbaigian ha intrattenuto con la partire dalla fine dell’epoca sovietica si può definire ambivalente: da un lato Baku ha sempre cercato di mantenere rapporti amichevoli con Mosca, a cui è in parte ancora legata dal recente passato e poiché consapevole dell’importante peso del Cremlino in chiave regionale; dall’altro il paese caucasico ha sviluppato negli anni una politica di progressivo allontanamento dalla Russia, per avvicinarsi invece alla Turchia e ai paesi occidentali, specialmente europei, con i quali intrattiene importanti rapporti economici. Considerati quindi i legami che uniscono Baku a Mosca e i rapporti commerciali che allo stesso tempo la avvicinano all’Europa, i vertici del paese caucasico negli ultimi anni hanno preferito promuovere una linea neutrale in politica estera, decidendo di non schierarsi apertamente né con l’una né con l’altra parte. La posizione di neutralità assunta dall’Azerbaigian è stata confermata dalla decisione di aderire nel 2011 al Movimento dei paesi non allineati, unico caso tra le repubbliche del Caucaso.

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In ambito economico i rapporti tra Russia e Azerbaigian sono segnati dal conflitto d’interessi nel settore energetico causato dal tentativo dei paesi dell’Unione Europea di diversificare il proprio approvvigionamento cercando fornitori alternativi a Mosca, e dal fatto che Bruxelles abbia individuato proprio in Baku il partner ideale per la realizzazione di questo progetto. Nel 2006, con la realizzazione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, l’Azerbaigian è riuscito a fare arrivare il proprio petrolio fino al bacino del Mediterraneo e quindi ai mercati europei, aggirando per la prima volta la Russia. Inoltre, a partire dal 2007, in seguito all’inizio dello sfruttamento del grande giacimento off-shore di Shah Deniz, il più grande giacimento di gas naturale del paese, l’Azerbaigian ha deciso di interrompere le forniture di gas russo, rivelatesi ormai non più necessarie, diventando a sua volta uno dei più importanti produttori regionali. Con la definitiva rinuncia da parte della Russia al progetto South Stream, che avrebbe dovuto trasportare il gas russo in Europa attraverso il Mar Nero e i Balcani, l’Azerbaigian ha colto l’opportunità di prendere parte alla creazione un proprio Corridoio Meridionale del Gas, progetto reso possibile dall’inizio dei lavori di realizzazione dei gasdotti TANAP e TAP, che trasporteranno il gas azero fino in Italia. Nonostante il conflitto d’interessi nel settore energetico, negli ultimi anni Mosca e Baku hanno comunque firmato diversi accordi commerciali che hanno portato a un continuo aumento degli scambi economici tra i due paesi.


Tra i settori chiave in cui i due paesi collaborano maggiormente vi è sicuramente quello della sicurezza. Baku negli ultimi anni ha incrementato esponenzialmente le proprie spese militari, stringendo importanti accordi con Mosca ma anche con Israele per l’acquisto di nuovi armamenti mirati ad ammodernare il proprio esercito e per l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte. Nel 2012 la Russia è stata comunque costretta a rinunciare alla propria presenza militare nel paese caucasico, con la chiusura della stazione radio di Qabala in seguito al mancato accordo per il rinnovo del contratto d’affitto dell’impianto. Nonostante i due paesi abbiano sempre collaborato nel settore della sicurezza, vi sono anche punti su cui essi si trovano in disaccordo. Su tutti vi è la questione del Nagorno-Karabakh, del cui processo di pacificazione la Russia svolge un ruolo chiave. Secondo il governo dell’Azerbaigian infatti, il Gruppo di Minsk, co-presieduto da Mosca, sarebbe troppo sbilanciato su posizioni filo-armene; inoltre a Baku non viene visto di buon occhio il consistente supporto militare che la Russia fornisce all’Armenia, con l’obiettivo di far fronte proprio al riarmo azero, così come continua a creare tensioni il progressivo avvicinamento di Yerevan a Mosca, culminato con l’ingresso dell’Armenia all’interno dell’Unione Economica Euroasiatica.

* Emanuele Cassano. Studente di Scienze Internazionali con specializzazione in Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa dell’area del Caucaso, sia dal punto di vista politico che da quello storico e culturale. Dal 2012 è redattore di East Journal, mentre dal 2014 è coordinatore di redazione della rivista Most, quadrimestrale di politica internazionale.

La Macédoine convoitée par les Américains

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La Macédoine convoitée par les Américains

Ex: http://www.katehon.com

Le 24 courant auront lieu des élections législatives anticipées en Macédoine, décidées après la démission du Premier ministre, Nikola Grouevski, à l'issue d'une cabale organisée contre lui par des mouvements stipendiés par les services américains, tels que les Fondations Georges Soros qui fleurissent dans les pays de l'est de l'Europe.

Dépourvue certes d'accès à la mer, la Macédoine occupe néanmoins une place stratégique importante au cœur des Balkans, attirant la convoitise des Américains. Elle est entourée par la Grèce, la Bulgarie, la Serbie, l'Albanie et le Kosovo. Durant son histoire, illustre depuis Alexandre le Grand, elle a subi des mutations territoriales, des mouvements migratoires à l'instar de la vague de migration actuelle qui frappe le continent européen, enrichissant sa culture mais compliquant la compréhension des enjeux politiques aussi bien de ce pays que de cette région de l'Europe. Cette complexité et cette mosaïque s'illustrent par le nom qu'elle a offert à des plats composés de mélanges de légumes ou de fruits, à l'instar de la « balkanisation », une terminologie qui fait référence au processus de fragmentation des Etats et des régions en entités plus petites, hostiles les unes envers les autres.

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En effet, la Macédoine contemporaine s'est tissée au cours des guerres des Balkans, entre le XIXème et le XXème siècle, comme le décrit bien le journaliste et essayiste, Milenko Nedelkovski : d'abord, lors des soulèvements contre les Ottomans dont le plus célèbre est celui du 2 août 1903, le jour de la Saint Elie, ensuite son passage à une autonomie limitée sous la Fédération de Yousolavie, en 1944, avant d'accéder à l'indépendance en 1991, à l'issue de la chute de l'ex-Union soviétique et la dislocation de la Fédération yougoslave.

Mais cette indépendance n'est pas dépourvue de difficultés qu'elle rencontre avec ses voisins. La Grèce lui conteste son nom, craignant une sécession d'une partie du nord de son territoire, à l'instar du pays Basque partagé entre la France et l'Espagne.

Dans une moindre mesure, la Serbie et le Bulgarie sont méfiants de leur voisin et maintiennent avec lui des relations distantes. L'essor économique de la Macédoine, pays limitrophe de la Bulgarie et de la Grèce, membres de l'Union européenne qui endurent des difficultés, augmente cette crainte.

Par ailleurs, les rapports entre la Macédoine avec l'Albanie sont difficiles en raison d'un conflit opposant les Macédoniens d'origine albanaise, de confession musulmane, aux Macédoniens chrétiens de rite orthodoxe. Ce conflit a éclaté en 2001, menaçant ce pays d'une sécession au profit du Kosovo, ce qui explique aussi ses relations actuellement tendues avec cette province.

Cet imbroglio est un terrain d'expérimentation favorable aux projets visant la création du chaos non seulement dans les Balkans mais dans l'ensemble des pays de l'Est de l'Europe allant jusqu'aux frontières de la Russie.

Les Américains, présents dans la région comme ils le sont dans le Caucase, alimentent ces divisions et ces conflits par le biais du « soft power », notamment à travers les Fondations précitées de George Soros.

L'ambassade américaine de Skopje est une véritable forteresse, un bâtiment impressionnant s'étendant sur plusieurs hectares avec une technologie sophistiquée, pour dissuader et exercer une hégémonie sur cette région. Les Macédoniens semblent excédés par ces intrigues et soutiennent massivement leur Premier Ministre sortant, Nicolas Gruevski, candidat du parti patriote (VMRO-DPME) à ces élections qui, nous l'espérons, confirmeront l'indépendance de ce pays.

 

Le MAI 1968 dont les médias n’ont pas voulu parler

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Le MAI 1968 dont les médias n’ont pas voulu parler

Ex: http://zejournal.mobi

Soyons sérieux : le véritable anar, en mai 1968, ça n’était pas Cohn-Bendit, c’était le général de Gaulle. Il était seul, entouré d’ennemis. A 78 ans, ce vieil anticonformiste a livré ses dernières batailles, tiré ses dernières cartouches. C’était Roland à Ronceveau ! Dien bien phu !…

« La seule chose que les Américains ne lui ont jamais pardonné, m’a dit Pierre Messmer peu avant sa mort, ça n’est pas sa sortie de la défense intégrée de l’OTAN (où Sarkozy veut nous faire réentrer), ni son fameux discours de Pnom-Penh dénonçant la guerre au Vietnam, mais c’est sa remise en cause du « privilège exorbitant du dollar ». Monnaie de réserve mondiale, encore liée à l’or à l’époque, du moins symboliquement, le dollar permettait aux USA de vivre à crédit sur le dos du monde en faisant marcher à tour de bras la planche à billets (ça continue aujourd’hui en mille fois pire !)…

De Gaulle, Che Guevara de la finance (et autrement dangereux qu’un Che Guevara puisqu’il dirigeait une nation puissante munie de l’arme atomique) a envoyé la marine nationale aux Etats-unis, acte hautement symbolique, pour remporter « son or » en échange de billets verts, monnaie de singe dont il ne voulait plus. Là, il visait juste, il visait où ça fait mal. Et il a essayé d’entrainer avec lui, dans cette aventure (se débarrasser des dollars-papier), l’Afrique du sud, les pays arabes, la Russie, la Chine… Les stocks d’or US fondaient.

La presse d’outre-atlantique poussait des hauts cris, dénonçant « Gaullefinger » ! Par ailleurs, il tentait de construire une Europe « indépendante des deux blocs » qui inclurait des pays de l’est (en plein mai 68, il rendait visite en ce sens en Roumanie à Ceaucescu). Dans le même esprit il avait élaboré une défense « tous azimuts », ses missiles nucléaires devant être tournés vers l’est mais aussi vers l’ouest (le général Ailleret, metteur en œuvre de cette politique, mourrait opportunément dans un accident d’avion en mars 68, à la veille du fameux mois de mai).

Qui sait, disait de Gaulle pour justifier cette politique, qui gouvernera les Etats-unis et la Russie dans quelques décennies. En sus des Américains, de Gaulle avait à dos leurs suiveurs atlantistes, de Mitterrand à Lecanuet, sans compter Jean-Jacques Servan-Schreiber qui, en plein mois de mai, dénonçait « la dictature intellectuelle du Général qui avait tout gelé en France ». Et cela dans un magazine américain : « Life » qui par ailleurs voyait dans l’Elysée un nid d’espions du KGB. Aux USA une campagne de presse antigaulliste d’une violence et d’un bêtise inouïes battait son plein…

Participaient encore à cette curée, le banc et l’arrière banc du vichysme et de l’OAS : « mai » c’était l’occasion de régler son compte à l’homme de la France libre et au décolonisateur de l’Algérie. Sans compter les milieux d’affaire : « De Gaulle a pour opposants les mêmes gens, haute finance et classe moyenne, qui firent tomber le gouvernement Blum dans les années trente en spéculant contre le franc et en plaçant leur argent à l’étranger (écrit Hannah Arendt dans une lettre à Mary Mc Carty fin 68). Le tout non pas en réaction aux émeutes étudiantes, mais aux idées grandioses de de Gaulle sur la PARTICIPATION des travailleurs dans les entreprises »…

Autre crime impardonnable du vieux baroudeur en effet. Tandis que les pavés volaient, les stocks d’or français s’envolaient. La guerre contre le dollar, ourdie par de Gaulle se retournait en offensive spéculative contre le franc… Le paradoxe du gauchisme, __et sa vérité farcesque__ c’est que prétendant abattre la société bourgeoise, il avait derrière lui tous les notables, tous les nantis qui rêvaient d’abattre la statue du Commandeur gaullien (car la France est le seul pays où le mouvement mondial de mai a pris un tour directement politique: renverser un gouvernement).

Des « situationnistes » m’ont raconté que, lors de l’occupation de la Sorbonne, des gens « louches », manifestement de l’OAS, leur avaient proposé des armes. Au cours d’une manif, un ancien mao se rappelle que, pris dans la foule, au premier rang, des mains invisibles, par derrière, distribuaient par centaines barres de fer et manches de pioches. Provocateurs ? Qui avait intérêt à mettre de l’huile sur le feu ?

Ce dont le sympathique et, dans une certaine mesure, naïf Cohn-Bendit ne se vante pas, c’est que depuis mars 68, il était suivi pas à pas par Paris-Match et RTL, entre autres, qui l’ont transformé en « star révolutionnaire ». Reportage-photos sur Cohn-Bendit dans sa cuisine, se préparant un café; ou faisant joujou avec les enfants de son frère; ou bien, comble de l’ironie, cliché en double-page le montrant en blouson, portant une valise de « bolchevique errant », devant la porte de Brandebourg, avec en légende : « ET MAINTENANT IL PART PRECHER L’ANARCHIE DANS TOUTE L’EUROPE ». Cela, je le dis bien, dans Match, feuille de choux « gauchiste » s’il en est !!!

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C’est dans la voiture de Match, une ID 19, que Cohn-Bendit a quitté la France au milieu de mai 68, c’est dans la voiture de Match qu’il y est entré à nouveau: ses cheveux roux teints en noir. De la commedia dell’arte ! A qui appartenait Match à l’époque (et en partie RTL): à Jean Prouvost qui, en sa personne, résume un bonne part de tout ce que de Gaulle comptait d’ennemis: le notable, le nanti, le grand industriel, le sympathisant vichyste (frappé d’indignité nationale en 45). Prouvost figure comme rédacteur en chef de Match, début juin 68, ayant purgé son équipe: grand-patron-journaliste et supervisant donc directement le contenu du journal !… Non sans ironique finesse politique, Cohn-Bendit lançait, en plein 68: « En fait on roule pour Mitterrand ». Pour l’atlantisme ? Les manipes, il les a senties lui aussi.

En juin 68 Cohn-Bendit déclare à Hervé Bourges: « Il semble que la CIA se soit intéressée à nous ces derniers temps: certains journaux et associations américaines, filiales et intermédiaires de la CIA, nous ont proposé des sommes importantes; inutile de vous dire l’accueil que nous leur avons fait… »(1). Les sentiments de la CIA à l’égard de de Gaulle, nous les connaissons grâce à un rapport de Richard Helms au président Johnson du 30 mai 1968 dénonçant dans le général un dictateur qui ne pourra se maintenir au pouvoir qu’en versant des fleuves de sang (2).

Les gaullistes, me direz-vous, ont gagné les législatives de juin 1968. Certes. Mais de Gaulle les a perdues. Il a perdu sa guerre: « Notre monnaie était profondément atteinte, écrirait Georges Pompidou. Nos réserves avaient fondu comme neige au soleil…La France du général de Gaulle était ramenée à ses vraies dimensions et on ne s’en réjouissait pas moins. Finie la guerre au dollar. Finies les leçons données aux grands de ce monde. Fini notre leadership en Europe occidentale. Telle était la réaction mondiale et, si je ne le montrais guère, j’éprouvais de tout cela une immense tristesse »(3). Mai 68 ça n’est pas que cela sans doute. Mais c’est AUSSI cela…

Notes:

1-Farkas, Jean Pierre: 1968, le Pavé,Phonurgia nova éditions,1998.

2-Jauvert, Vincent: L’Amérique contre de gaulle, Seuil, 2000.

3- Pompidou, Georges: Pour rétablir une vérité, Plon 1982.

Photo: Charles de Gaulle et Nicolae Ceausescu en Roumanie


- Source : Comité Valmy

Refugees Are a Vital Part of the Modern Nation-State

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Refugees Are a Vital Part of the Modern Nation-State

The refugee crisis has been arguably the news story of the last year. Like every news-story, it has settled down into a tit-for-tat dialectic and has assured its own propagation. What I mean by that is that the big picture is barely even conceived, not to mind discussed, and so the problem, since it is not understood, will never converge to a solution amidst the heat of debate.

So, what is the big picture of the refugee crisis? And when I say big, it is with the intention of aiming for a picture with as much perspective as we need so as to understand the crisis fully. Without taking this primary step we are unable to engage with the issue in an honest and forthright manner.  Is the big picture Syria? Sunni versus Shia? The Middle East? The War on Terror? The Clash of Civilisations? Religion? Human evil?

It is none of these although one could make a case based on the numbers of refugees on record that the crisis is largely a matter of either Arabic/South Asian Muslim-majority or Sub-Saharan Christian-majority nations. This does not stand scrutiny, though. Refugees are a symptom of the modern nation-state. Here is the evidence.

First, a broad outline of the evolution of the modern nation-state. The modern nation-state began to emerge most strongly after the French Revolution and stood triumphant after WWI. In the interim there was considerable resistance from the ‘old guard’ – the Hapsburgs and Romanovs of the world – who had developed ‘States’ but had not fostered a national spirit. The great Empires who fell to the ground during or after WWI were not ‘nations’, i.e. they were not territories inhabited by those who shared a mixture of well-defined ethnic, religious, linguistic, historical, or cultural characteristics.

After WWI, the principle of self-determination was vigorously promoted at the Versailles peace conference. The purpose of self-determination was to have the components of an international law system. To have a workable international system, there had to be units that were similar, even identical in form, in much the same way as a domestic legal system requires citizens who largely think the same.

Having people of the same nationality live together in the same territorial region appeared a simple answer at first to President Wilson. As the negotiations in Paris wore on, it became obvious that such a ‘clean’ solution was unrealistic. National self-determination was then supported by another concept, the idea of protecting minority rights.

During the war, there were large numbers of refugees fleeing the onrushing troops and artillery barrages. This was not unusual historically. During the Thirty Years’ War or the Napoleonic invasions, people often had to leave their homes carrying what belongings they could muster to seek shelter elsewhere. What was unusual about the ‘war to end all wars’ was the aftermath. Before WWI, refugees would typically have just gone back home. Now, new states were being forged and in order for these new states to satisfy ideals of self-determination, they had to expel or incorporate ‘aliens’ or ‘comrades,’ respectively. This was a particularly acute problem in central and Eastern Europe, where there was a vast patchwork of nationalities and religions.

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German refugees leaving the newly created state of Poland, 1920.

The new nation-states in Europe eventually settled down into some sort of order in the inter-war years. However, there was one notable and well-known example during this time and later in the WWII years, that of National Socialist Germany, which demonstrated the anatomy of the nation-state idea. Here, there was a very conscious effort to completely purify Germany of all ‘alien’ influences and to absorb those peoples who had become ‘unmoored’ from German national destiny. Minority rights were totally swept aside and the bare nakedness of self-determination was apparent. Japan somewhat shadowed Germany also in the inter-war years.

After the war, Europe was like a nut caught in a vice-grip, the two handles of the vice-grip held by the US and Soviet Union, the latter fostering a quite conservative nationalism to supplement the proletarian revolution. Therefore, as a result of the stabilizing influence of the US and USSR, conflict and hence refugee crises were largely quelled in Europe. In the Cold War, the genie of national self-determination spread to non-European nations. Israel declared independence and began expelling the natives. In return there was the rise of Arab nationalism and Jews, tolerated and respected under the Caliphs and Sultans, left Egypt, Yemen, and other places in droves. Pakistan and India deliberately expelled and absorbed who they wanted in perhaps the most tragic episode of the modern nation-state when Britain packed up and left in 1947.

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Schematic of migrations on the Indian sub-continent after Pakistani and Indian independence.

Then the ‘winds of change’ begun in Africa. In Rwanda, Nigeria and other places there was ethnic cleansing and there were also expulsions of colonial settlers, sometimes even ethnic minorities like those of Asian extraction kicked out by Idi Amin in the 1970s. And then, just to remind Europe of the post-WWI culture of self-determination, the former Yugoslavia rent itself apart in ethnic clashes during the 1990s. Kosovo, which most people in the world had never heard of, was the symbol of unfinished business left over from WWI. Oh yeah, let’s not forget Rwanda where two tribes who had lived peacefully together for hundreds of years prior to the Belgian occupation, now literally cut each other to pieces.

At this stage, I really don’t need to mention Iraq or Syria or Lebanon. You can see from what has been cited that refugee crises have affected most parts of the ‘Old World’ since WWI, the American nations having the benefit of being either dominated by Anglo-Saxon or Hispanic cultures and thus avoiding internecine conflicts (which is probably why Woodrow Wilson chose this template for international consumption). The big picture is obvious and no one can deny it. It is the construct of the nation-state which is joined at the hip with refugee crises and one can say that refugees are inherently part of a world where international law has nation-states as components.

As long as the nation-state ideal exists, there will always be the possibility of refugee crises and there will always be refugee camps stocked with those who are nation-less. Nearly 100 years after the nation-state concept became the bread and butter of international relations we really need to ask ourselves whether such a grossly inhumane concept has a future. It was an academic proposition but academics typically only have experience of the academic and not the real world. At time of writing, however, the academics and bureaucrats seem unwilling to broach this issue and, for the time being, a blogger on WordPress with a few followers is likely to be about as far as this question is pursued. And, it’s only a matter of time before refugees travel away from Europe and not towards her as new justifications for nation-states are formulated by demagogues.