Recentemente, Massimo Fini - uno dei pochi giornalisti ad avere una solida base culturale, almeno in Italia - ha pubblicato un interessantissimo saggio (1) nel quale egli vorrebbe mettere a punto che cosa veramente sia la democrazia. Secondo chi scrive, egli non ci arriva, in quanto descrive soltanto che cosa la democrazia non è - e già questo è comunque qualcosa di utilissimo. Mettendo a fuoco le fenomenologie fattuali che si sviluppano dove ci sono governi che si autodefiniscono 'democratici' - cioé, al giorno d'oggi, dappertutto - egli arriva, ma non va oltre, alla constatazione che ovunque agisce una gestione fattuale del potere da parte di una congerie di mafie - oligarchie delittuose o se no affaristiche, il che in ultima istaura generalmente la stessa cosa - e che la 'democrazia' non ha niente a che vedere con la 'libertà' o la 'giustizia' con cui, mediaticamente, si tende ad associare questo termine. Vale, quindi, la pena di approfondire questa tematica di grandissima attualità nei nostri tempi. Per incominciare, bisogna osservare che la parola 'democrazia' è divenuta probabilmente il più esagerato feticcio lessicale di cui ci sia conoscenza storica (2). Al giorno d'oggi ognuno che si occupi di politica deve essere 'democratico', perché a dire di non esserlo si espone ad attacchi verbali e anche fisici, alla perdita del posto di lavoro, ecc., in quanto quasi tutti sono stati pavlovianamente condizionati a vedere nel 'non democratico' (checché esso sia), il 'nemico'. Quindi non c'é governante né aspirante tale che non sia democraticissimo ('fascista' è, facendo sempre del pressappochismo verbale e del pavlovismo mediatico, l'antidemocratico - e quindi il paria politico - per eccellenza). Quindi, le battaglie 'politiche', al giorno d'oggi, si combattono di necessità a forza di accuse, e controaccuse, di non essere sufficientemente democratici - quasi invariabilmente senza sapere di che cosa si sta parlando. In questa sede si vuole accettare uno spengleriano invito. Oswald Spengler, nel suo Der Untergang des Abendlandes (3), voleva fare una fisionomistica della storia, cioé un'analisi della medesima quale essa era stata nella sua nuda fattualità - e così scoprirne i meccanismi intrinseci - e non una disamina guidata da schemi preconcetti. Il sottoscritto, qui, ha la pretesa di fare un'analisi fisionomistica del fenomeno democratico, del tutto libera da sofismi preconcetti, per arrivare il più vicino possibile a individuarne il nocciolo concettuale e ideologico. Ciò sarà fatto tramite una disamina 'strutturale' di quei movimenti e di quelle ideologie politiche - tanto a livello teorico che squisitamente e , spesso, tragicamente pratico - che si auto definiscono come democratiche (4). Quindi, la democrazia secondo essa è ed è stata, per ammissione esplicita degli esponenti della medesima nelle sue diverse forme; e non come essa 'avrebbe dovuto essere stata' a sentire certuni che si afferrano a sofismi di tipo economicista, religioso o pseudo tale, sociologico, addirittura etimologico. Frasi vuote di senso come: "questa non è una vera democrazia", "voi non siete dei veri democratici", "quel (determinato) paese non è ancora maturo per la democrazia", "non è vero che la democrazia fallisca in certi paesi, ci sono invece dei paesi che falliscono di fronte alla democrazia" (5), sono banalmente note. Si può liquidare subito la fola, spesso ripetuta, secondo la quale la democrazia sarebbe quel sistema politico nel quale il potere è in mano di tutti i costituenti della comunità. Ciò di per sé costituisce una contraddizione di termini: il potere non può essere in mano a tutti senza cessare di essere tale - potere implica che ci sia chi può, chi comanda, e chi obbedisce. Il fatto che ogni forma di potere sia per necessità di natura assolutistica era già stato detto in modo esplicito dai pensatori politici controrivoluzionari della prima metà dell'Ottocento (in particolare, da Joseph De Maistre) ed era stato visto in modo ugualmente chiaro dagli anarchici di fine Ottocento (in particolare da Michal Bakunin, secondo il quale "tutti i governi devono essere combattuti, perché tutti i governi sono dittature") (6). Perciò si può anche scuotere via quell'asserzione senza senso - però martellata in testa dai mass media per beneficio di tutti coloro per i quali pensare è doloroso - secondo la quale la democrazia sarebbe il contrario della 'dittatura': ogni forma di potere, qualsiasi cosa che non sia il caos politico puro, è, per natura di cose, una 'dittatura'. Sistemi democratici - questa è un'altra cosa che ci si dice - sono quelli sotto i quali il potere è in mano a dei tali che sono bene accetti dalla maggioranza dei governati (il 50% + 1 e magari anche di più) (7). E la volontà di questa fantomatica maggioranza viene scoperta sperimentalmente attraverso il suffragio universale: quello, tanto per intenderci, che Benito Mussolini, chiamò ludo cartaceo. (Chi invece governava le democrazie marxiste affermava che la vera democrazia era la 'dittatura del proletariato'.) Fu Jean Jacques Rousseau (8), un personaggio che ognuno che si consideri democratico riverisce come importantissimo padre spirituale, ad affermare che "la volontà generale non è necessariamente la volontà del più grande numero, ma quella che dovrebbe essere del gran numero". Questo insegnamento di Rousseau, pochissimo citato, è larghissimamente applicato da ogni governo che afferma di essere 'democratico'. Vale l'osservazione che ben difficilmente un privato può avere i mezzi e le possibilità di presentarsi come candidato a una elezione: quindi i politici divengono dei professionisti che concorrono alla gara per mettere le mani sulla cosa pubblica come rappresentanti di quelle organizzazioni tentacolari e spessissimo sovranazionali che sono i partiti politici. Quindi, in termini generali, sia nelle ex-democrazie 'popolari' marxiste che in quelle 'democratiche' che adesso ci sono dappertutto, per quel che riguarda l'amministrazione tecnica del potere si deve parlare di partitocrazia: una volta ottenuta una fetta (o la totalità) del potere, i partiti fanno e disfano senza ricordarsi minimamente di quelli che, depositando il loro voto, hanno dato loro in mano l'amministrazione pubblica. Con riferimento invece al procedimento, usato ormai quasi dappertutto, per consegnare fette di potere a questo o a quell'altro partito - il suffragio universale - a buon diritto si può parlare di suffragiocrazia (9). La suffragiocrazia consiste nel portare a termine a intervalli regolari oppure irregolari l'appena menzionato ludo cartaceo, i cui risultati, manipolati qualche volta onestamente e più spesso disonestamente secondo determinate regole - cioé impastati aritmeticamente, oggi facendo uso e spreco del calcolatore elettronico - servono a dare a questo e a quello la sua porzione di amministrazione pubblica. Il termine 'democrazia' è stato usato, anche da grandi menti quali Oswald Spengler e Julius Evola come sinonimo di 'suffragiocrazia': cioé di quel tipo di sistema a cui a ogni partito politico è assegnata periodicamente la sua perecentuale di 'potere', in base a un procedimento detto elezioni. Riguardo alle elezioni va detto che affermare - come viene sempre ripetuto - che il votante sa quello che vuole è qualcosa che dovrebbe costituire motivo di riso. Con l'eccezione di ciò che si riferisca ai suoi bisogni, alle sue voglie, alle sue ambizioni e magari ai suoi risentimenti del tutto personali, l'elettore è quasi sempre un analfabeta politico. Bisogna circuirlo, per convincerlo a dare, o magari a vendere, il suo voto a questo o a quello: e ciò, generalmente, non può essere fatto se non mettendo in moto le grancasse di quelle parate da circo che sono divenute le campagne elettorali, nelle quali si usano quelle tecniche psicologiche conosciute da ogni venditore di qualsiasi mercanzia per convincere il pubblico a comperare il suo prodotto. La campagna elettorale costa cara; e il massimo di voti andrà molto spesso a quei partiti che se ne possono finanziare una il più vasta e capillare possibile. Ne risulta che sotto una metodologia suffragiocratica il potere sarà quasi sicuramente in mano a chi potrà disporre di un massimo di finanziamenti per potere convincere i votanti - usando, di massima, l'arma mediatica - a dargli o a vendergli il voto. Il potere è quindi in mano di chi ha il denaro da elargire, perché chi ha denaro non finanzierà alcun candidato senza esigere una contropartita. Siccome oggi il denaro è in mano agli usurai bancari internazionali, si può, a buon diritto parlare di usurocrazia. Il primo a dire, ormai quasi un secolo addietro, che la 'democrazia' (leggi: suffragiocrazia) non è né può essere se non uno strumento nelle mani di chi ha tanta disponibilità finanziaria, fu Oswald Spengler. Del sistema democratico-suffragiocratico fu Julius Evola a dire che è quello nel quale si ammette che sia chi ci vede a guidare i ciechi, ma poi si pretende che siano i ciechi stessi a decidere chi ci vede e chi non ci vede. Adolf Hitler aveva definito il medesimo sistema come la dittatura della maggioranza, aggiungendo che la maggioranza è composta dagli indecisi, dagli egoisti e dai vigliacchi. Passare da quanto sopra a dire che la democrazia è la dittatura degli imbecilli, il passo sarebbe breve, ma in ultima sbagliato, perché gli imbecilli non governano mai. Un poco più esatto sarebbe dire che gli imbecilli regnano e i furbi governano: inesatto però anche questo, perché si tratta di ben squallidi furbastri, marionette degli Shylock dai cui finanziamenti hanno dipeso e continuano a dipendere. Fu un agente della grande finanza internazionale, Walther Rathenau (10), a definire la democrazia come "la dittatura che gli informati (die Wissenden), i furbi e i ricchi esercitano sul bestiame votante (das Stimmvieh - tanto per intenderci, il 'popolo bue'). Dal punto di vista storico, i governi autoproclamantisi democratici - un fenomeno politico del tutto atipico - hanno fino a oggi avuto due impennate. La prima fu nel mondo ellenico del V secolo a.C., dove questo fenomeno già manifestò le sue più salienti caratteristiche e ci furono dei pensatori che tentarono di farne un'analisi e di definirlo discorsivamente. La seconda incomincia poco più di duecento anni fa, perdura ancora ed è, dal 1945, di onnipervadenza planetaria. Prima di proseguire l'analisi del fenomeno democratico per se, è utile, per ragioni di chiarezza, fare un breve excursus storico nell'Antichità, cioé nella democrazia ellenica. Il materiale storico grezzo è dato in esposto molto completo in un libro di Luciano Canfora (11). Da notare che nella Grecia antica il demos (di cui la demokratìa doveva essere il 'potere' - kràtos), a differenza dell'ellenico làos, dell'italico populus, del germanico Volk, dello slavo narod, non era la popolazione organizzata e formante uno stato organico, ma quella parte della popolazione che era opposta ai monarchi e alla nobiltà: quindi il démos veniva a essere la feccia sociale, la canaille. Perciò: democrazia = il potere in mano ai peggiori, i quali, sia detto per inciso, solo eccezionalmente erano la maggioranza, anzi, normalmente erano minoranza. Aristotele classifica la democrazia come uno dei peggiori sistemi di governo, il contrario dell'illuminata politéia. Quell'Anonimo ateniese (forse Senofonte) che per primo fece un'analisi sistematica del fenomeno democratico, afferma esplicitamente che essa, oltre a essere il più dannoso di tutti i tipi di governo, è anche il più oppressivo, il più liberticida. E Atenagora, dirigente democratico siracusano, raccomandava di perseguitare gli oppositori non solo per il reato d'opinione (il reato d'opinione viene così a essere un'invenzione squisitamente democratica) ma per le loro opinioni stesse, con l'argomentazione che è facile passare dalle parole alle vie di fatto e che se si fosse aspettato che gli oppositori si fossero organizzati si sarebbe andati a rischio di essere sbalzati dal potere prima di avere il tempo per difendersi. Questa fu la democrazia classica, alla quale fanno riferimento tutti i democratici moderni, a partire dalla Rivoluzione Francese. Dal V secolo a.C. fino al secolo XVIII d.C. lo 'spirito democratico' si accontentò di dormicchiare nelle fogne, fino a che i tempi non furono 'maturi'. Sia qui anche menzionato che è stato documentato da Hans F. K. Günther (12) come nella popolazione greca classica, fino dai suoi primi tempi, non mancò di esserci un elemento levantino al quale si devono attribuire tutte quelle nuances che, per un gusto schiettamente europeo, la luminosa Ellade poté avere di meno attraenti. In particolare, le pratiche omosessuali ebbero i loro inizi dai contatti che i greci ebbero con il Medio Oriente, del quale, molto più tardi, si disse che ex Oriente lux, ma del quale i romani preferivano asserire che ex Oriente nox. Sarebbe del maggiore interesse potere stabilire fino a che punto l'elemento levantino fu responsabile del fenomeno politico democratico nell'antica Grecia: una ricerca storica del genere, se eseguibile, non mancherebbe di dare dei risultati inattesi (13). Da considerarsi comunque come accertato che le due prime 'luci' che il Medio Oriente esportò in Europa furono la pederastia e la democrazia: altro sarebbe venuto dopo. Anche se, come detto, il vocabolo 'democrazia' scompare nella tarda Antichità, vale la pena di menzionare certi sviluppi legati all'avvento del cristianesimo, che non mancarono, per vie traverse, di aver eun'influenza sui fatti etichettantesi 'democratici' che sarebbero venuti duemila anni dopo. Da notarsi che il cristianesimo si rivela una religione della decadenza: esso si affermò al tempo dello sfacelo del mondo classico, sfacelo che esso accelerò e poi portò a compimento (ma che, non causò: se la civiltà classica non fosse già entrata in una fase involutiva non è concepibile che il cristianesimo avrebbe potuto affermarsi). E il cristianesimo, religione della decadenza, si rivolge all'individuo e alla sua personale 'salvazione' (di checché si possa trattare). Quindi fondamentale egalitarismo del cristianesimo, per il quale ogni atomo umano ha il medesimo valore. Dunque nessun pensiero per la sopravvivenza di una qualsiasi compagine sociale, nazionale o etnica. A coloro che - generalmente in campo protestante e spessissimo in America - dicono che "non si può accusare il cristianesimo di avere fallito il suo scopo sociale, perché uno stato veramente cristiano non è mai stato sperimentato" è stato validamente risposto che nessuna società civile, o magari incivile, potrebbe essere basata su di un cristianesimo 'puro', che fa riferimento esclusivamente all'individuo e al quale non interessa minimamente la permanenza di una qualsiasi struttura sociale. Fu per necessità di cose che il cristianesimo dovette adattarsi al mondo, se volle sopravvivere come religione storica - almeno in attesa di quel tale improbabile 'giudizio universale'. Neppure dottrinalmente si poté mai avere un 'cristianesimo puro': il cattolicesimo medioevale fu uno strano e distorto prolungamento del paganesimo classico, del quale però poté conservare non poche valenze positive; i protestantesimi hanno da essere visti come svariate forme di giudaismo camuffato da 'cristianesimo' ed edulcorato per un gusto europeo (14). Il suo adattarsi al mondo non impedì che, larvatamente, la mentalità cristiana cessasse di avere una certa nostalgia per un mondo 'perfetto', riflesso di quell'ipotetico 'regno dei cieli' dove ogni anima è uguale - anzi, identica - agli occhi di dio. Questa nostalgia è affiorata talvolta in modo scomposto e violento, dando origine a sinistri fatti storici. Siano menzionati, fra i tanti: nel Medioevo: gli esperimenti comunisti di Fra Dolcino a Brescia e di Jean Vaud a Lione (15) e le guerre hussitiche nel XV secolo; per i tempi della riforma protestante: la dittatura comunista degli anabattisti a Münster e le rivolte dei taboriti e degli adamiti in Boemia-Moravia. E in tempi desacralizzati in modo completo quali possono essere quelli contemporanei, l'egalitarismo cristiano secolarizzato ha dato origine a forme particolarmente acute di utopismo sociale, una delle quali è stato (ed è) il marxismo. Ralph Perier (16) ha fatto notare che proprio adesso che alla mitologia cristiana non crede più nessuno, l'utopismo sociale proprio del cristianesimo celebra i suoi massimi fasti. Come conseguenza dell'egalitarismo fondamentale che impregna il cristianesimo, non poteva mancare chi si ponesse il quesito di chi, a questo mondo, era, al meno con il massimo di approssimazione,il 'popolo di dio', dal quale sarebbero scaturiti i futuri commensali di Gesù Cristo dopo il 'giudizio universale', a livello dei quali ogni 'superbo' sarà abbassato; rendendo reale, sia pure nel mondo delle anime, quell'uguaglianza assoluta che nel mondo tangibile ovviamente non esiste. Questo quesito ha avuto più risposte (17); qui daremo due esempi del tipo di figuri che secondo certi santoni levantini - adesso messi nel novero dei cosiddetti padri della chiesa - devono essere visti come rappresentanti di spicco del 'popolo di dio'. Si tratta sempre di tipi particolarmente estremi di mendicanti professionisti. (a) Esempio proveniente da Costantinopoli, ai tempi del Basso Impero: quei mendicanti che oltre ad autoinfliggersi ogni tipo di mutilazioni e a esporre piaghe spesso purulente e coperte di vermi per eccitare la compassione e l'orrore dei passanti, bucavano gli occhi ai loro bambini ancora piccoli per poi tenere in alto quei lattanti dalle occhiaie vuote come oggetto di commiserazione per le folle dei mercati (18). (b) Esempio contemporaneo (anni Quaranta), proveniente dall'India: esisteva (e magari esiste ancora) una determinata categoria di mendicanti che fanno passare una cannuccia appuntita lungo la propria uretra causando una perforazione fino a dentro allo scroto; soffiando per la cannuccia si può poi fare gonfiare lo scroto come un pallone. La cannuccia viene poi ritirata e l'aria compressa fuoriesce per il pene, manipolando poi il quale come grottesco flauto, si suona della musica. Ecco quindi un'impensata arietà terzomondista del mendicante che, in Europa, per ricevere qualche moneta suona invece il violino o la fisarmonica (19). Dovrebbe essere abbastanza chiaro chi costituisce il 'popolo di dio' secondo quei tali santonio levantini: non l'evangelico poveretto che, per amore di dio, si accontenta anche di sopportare ingiustizie con la speranza di godere, dopo morto, la beatitudine 'in seno a Gesù Cristo'; ma l'elemento più abbietto che una società a sfondo levantino può produrre (20). Sono queste le tendenze che il cristianesimo si è trascinato dietro durante tutta la sua storia e che poi abilmente strumentalizzate da tanti avvoltoi e da tanti psicopati diedero un contributo ragguardevole al fenomeno democratico in utta la sua variopinta molteplicità. Il dogma central di tutte le ideologie politiche democratiche (cioé, al giorno d'oggi, tutte) - siano esse liberali, marxiste, anarchiche, ecc. - è, formalmente, l'egalitarismo (21). La democrazia non ha per soggetto l'uomo, quale persona dotata di una sua specificità e di una sua dignità, ma l'atomo umano, interamente intercambiabile, sradicato, senza cultura, senza nazione, senza famiglia, senza religione, senza razza, mosso esclusivamente da motivazioni di tipo edonistico (22). È di Platone è l'acuta osservazione che, logicamente, perfino le più ineccepibili elezioni suffragiocratiche sono antidemocratiche, in quanto esse presuppongono, almeno teoricamente, una scelta e un giudizio; mentre in un sitema basato veramente sul dogma egalitarista i governanti dovrebbero essere nominati per mezzo di una lotteria. Per quel che riguarda la prassi, la democrazia - sostantivo collettivo: sarebbe forse preferibile dire: le 'democrazie' - può essere vista come quel sistema politico nel quale la cosa pubblica tende ad andare in mano alla classe criminale (salvo mai, eccetto in casi marginali ed estremi, andarci del tutto; perché, secondo sarà menzionato più avanti, una 'democrazia pura' di questo tipo non potrebbe sopravvivere se non di parassitismo puro). Questo obbedisce a una logica perfetta, perché la classe criminale è l'ultimo dei comuni denominatori sociali, al di sotto del quale è difficilmente concepibile che si possa andare. Ecco che la democrazia contemporanea dà la mano ai suoi predecessori ellenici e cristiano-levantini. Il controllo della politica da parte di elementi criminali ha preso e prende, naturalmente, diverse gradazioni: la forma più estrema (più perfetta) essendo stata, nei nostri tempi, le democrazie popolari di stampo marxista tipo il Pol-Pot cambogiano. La forma più blanda e più sorniona - che dopo la caduta dei 'socialismi reali' è divenuta la più generalizzata e virulenta - è quella liberale. Un'analogia al riguardo può essere tratta da un'affermazione fatta da Julius Evola in un suo giovanile ma profondo scritto (23): ciò che il cattolicesimo aveva di positivo (dopo il Vaticano II non ha più niente) non era cristiano - il cristianesimo era già stato definito da Oswald Spengler il 'bolscevismo dell'antichità'. Analogamente, ai tempi appena trascorsi della 'guerra fredda' si diceva a chi voleva crederci che in Occidente si godeva di una certa libertà (sia pure poca e sempre meno) perché in Occidente c'era 'democrazia', mente Oltrecortina imperava il 'totalitarismo'. La verità era invece tutto il contrario: la libertà di cui in Occidente si poteva ancora godere risultava dal fatto che esso era meno democratico dell'Oriente bolscevico. Sotto un sistema democratico-suffragiocratico-usurocratico, quale esso oggi impera, il potere politico - almeno quello palese - è messo in mano a un nuovo tipo di classe criminale - da essere aggiunta a quella degli spacciatori di droga, dei pedofili, dei lenoni, dei contrabbandieri di armi e di immigranti clandestini, ecc. (24). Si intende parlare del tipico politico di professione, post-1945, accattone-ladro di voti, che egli ottiene da quel bestiame votante di rathenauerina memoria (ormai in massima parte rimbecillito e incanaglito dal potere mediatico) offrendogli ogni più basso servigio e facendogli promesse che, in partenza, sa che non avrà la possibilità (e meno ancora l'intenzione) di mantenere; mentre dietro le quinte fa da prosseneto a chi lo finanzia. Di questo tipo di individui fecero dei calzanti ritratti psicologici alcuni grandi scrittori: Francisco Quevedo Villegas, che nella Vida del buscón llamado Don Pablos descrive il disonesto obbligato; Edgar Allan Poe, che nel The man in the street, descrive l'autolesionista che gode della propria degradazione; Fjodor Dostojevskij, che nelle Memorie del sottosuolo descrive l'abbietto allo stato puro, quasi quintessenziato. E il sistema suffragiocratico ha portato allo scoperto alcuni fra i più grandi criminali di tutti i tempi, sia pure sotto circostanze eccezionali: Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt sono due calzantissimi esempi: due figuri in confronto ai quali ogni persona onesta non potrà trovare Stalin se non simpatico. In Pol-Pot si ebbe un'approssimazione di quella che si può chiamare 'democrazia pura': un sistema retto da un capo che non ha alcun carisma che non sia la brutalità assoluta e che si mantiene al suo posto esclusivamente con la violenza esercita un potere despotico e assoluto su di una massa di maledetti tutti uguali (25). Casi di democrazia pura o quasi sono documentati per certe associazioni sul tipo di quella dei mendicanti della Parigi medioevale, descritta da Alexandre Dumas in Notre dame de Paris, oppure quella dei lebbrosi della Cayenne, descritta da Henri Charrière nel suo romanzo Papillon. Capo è là il ladro più abile, l'assassino più spietato, il lebbroso più orrendo; e il capo non viene mai destituito, egli può soltanto essere ucciso da chi, a crimine espletato, si imporrà sulla massa senza volto come nuovo tiranno. Non a caso le democrazie pure non potettero sussistere se non in comunità od organizzazioni a funzionamento parassitario. Si può fare un breve riferimento 'critici' della democrazia quali l'austro-americano Erik von Kühnelt-Leddihn, l'italiano Panfilo Gentile, il francese Jules Monnerot, il tesdesco Fritjof Meyer, ecc. (26). Si tratta sempre di 'bravi borghesi', che omologano invariabilmente la democrazia a quella sua variante che è la suffragiocrazia e la loro critica della suffragiocrazia ha per tema centrale che mettere la potestà di conferire il potere in mano al 'popolo', a tanto inadatto, può portare a 'pericolosi sbalzi' come la scelta (suffragiocraticamente ineccepibile) di Adolf Hitler nel gennaio 1933. Avendo disimparato a distinguere fra démos e làos-populus-Volk, essi mettono Hitler e Stalin nello stesso diabolico sacco, mentre Roosevelt e Churchill sono angelici: ecco un vecchio vizio liberale, quello della credenza negli 'opposti estremismi'. E la loro ricetta, perché tutto vada nel migliore dei modi, è quella di mettere il potere assoluto in mano ai finanziocrati, alla plutocrazia bancaria. Dovrebbe essere perciò del tutto chiaro che che l'opera di costoro è di valore normativo nullo - pur senza negare che talvolta vi si possono trovare qualche osservaziione acuta e qualche analisi azzeccata. Perfino l'autore di un libro certamente intelligente, La rebeliòn de las masas, José Ortega y Gasset, quando si trattò di proporre un rimedio per l'andazzo democratico, non seppe afferrarsi a niente di meglio che al liberalismo 'anglosassone' (27). Molto più nel giusto vide Friedrich Nietzsche nel suo Zarathustra, dove dice di avere disimparato a distinguere fra povero e ricco: perché c'è plebe in alto e plebe in basso. Già Julius Evola osservava che l'ambiente democratico esercita una controselezione, sia a livello individuale che a livello collettivo, portando a galla ciò che di peggiore ci può essere sia negli individui che nelle collettività. Né è pensabile, salvo che sotto circostanze democratiche, quella particolare perversione dei valori giuridici che esiste nel mondo contemporaneo, secondo a quale la solidarietà con le vittime dei crimini e con i loro congiunti (28) deve passare in secondo piano davanti all'imperativo del 'reinserimento sociale' dei criminali: c'è una tendenza, quindi, a sostituire le norme giuridiche tradizionali, tendenti alla protezione della società, con contorte fantasie di freudiana psicanalisi. Secondo la giurisprudenza democratica il criminale è una vittima della società o, nel peggiore dei casi, uno che comunque non porta colpa. Di conseguenza, chi dovesse trovarsi a essere vittima di un atto delittivo è semplicemente uno sfortunato, come colui che è colpito da un fulmine o travolto da una valanga. Fu l'americano James Rawls (29) ad asserire che siccome le differenze di nascita e di attitudini sono 'ingiuste' (ingiusta in questo caso è la natura), sarebbe giusto che queste differenze venissero compensate dando trattamenti preferenziali agli elementi peggiori della società (non esclusi, anzi inclusi, assassini, stupratori, pedofili, ecc.). Per tirare le somme, adesso come adesso, nella 'democrazia' può essere visto essenzialmente quel feticcio lessicale (che nessuno sa esattamente cosa sia) che serve di riferimento liturgico per tutte le cerimonie a sfondo politico che, mondialmente, hanno luogo dal 1945 a questa parte - questa è probabilmente la migliore, per quanto approssimata, definizione che se ne può dare. Per quel che riguarda la prassi, in un ambiente autoproclamantesi democratico si danno tutte le fenomenologie teratologiche di cui sopra si è fatto uno schizzo. Si percepiscono due tendenze, diverse ma convergenti: una è l'insorgere pandemico di quella particolare 'specie antropologica' che vede in ogni abbietto, in ogni tarato o criminale, in ogni maledetto, un 'fratello'. L'altra è il fatto che la struttura 'democratica', sia pure a livello subconscio, sa che garanzia della sua sopravvivenza è che sussista una classe criminale il più ipertrofica possibile,sicura di sé stessa perché può contare sull'incolumità. (1) Massimo Fini, Sudditi, Marsilio, Padova, 2004. (2) A non volervi veder un mantra ('parola di potenza'), per cui basta che un governo si autoproclami democratico per invocare automaticamente tutte le casistiche oggetto di quanto segue. (3) Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes, Beck, München, 1982 (originale 1917). (4) Né il fascismo italiano né il nazionalsocialismo tedesco si proclamarono 'democratici'. (5) L'ultima frase citata è un'affermazione fatta negli anni settanta da un noto politico venezuelano riferendosi alla Bolivia. (6) Cfr. su questo argomento Carl Schmitt, Politische Theologie, Duncker und Humblot, Berlin, 1934. Schmitt osserva giustamente che il discriminante fondamentale di ogni governo non è il suo modus operandi ma la sua legittimità; problema questo estremamente astruso e nel quale non è qui il caso di addentrarsi. (7) A questa maggioranza la minoranza che non è d'accordo (il 50% - 1 o meno) deve sottomettersi e su di essa la maggioranza può esercitare un dominio incondizionato. (8) Citato da Cesare Trocchi nella sua Storia della massoneria dalle origini alla loggia P-2, Pasquarelli, Sora, 1981. (9) La fenomenologia dell'apparato suffragiocratico, quale esso funziona ai nostri giorni, è stata diescritta in modo eccellente da Alberto Ostidic, Sulla democrazia, Ar, Padova, 1991. Da notarsi comunque che anche strutture politiche radicalmente aristocratiche, tipo la Repubblica Romana, poterono usare il suffragio (non universale), ma esclusivamente come 'regola di gioco' - in riguardo, cfr. Louis Rougier, La mistica democratica, Volpe, Roma, 1967. (10) L'ebreo Walther Rathenau, ministro del Reich ai tempi del Kaiser Guglielmo II, fu, fino alla sua uccisione nel 1923, il re senza corona della Germania sconfitta dopo il 1918. (11) Luciano Canfora, Anonimo ateniese: la democrazia come violenza, Sellerio, Palermo, 1982. (12) Hans F. K. Günther, Lebensgeschichte des hellenischen Volkes, Franz von Bebenburg, Pähl, 1965. (13) Ma qualche spunto interessante, anche se non del tutto esplicito, può essere rintracciato nell'appena citato testo di Hans F. K. Günther. (14) La virtuale identità fra il protestantesimo (soprattutto nella sua fattispecie calvinista) e il giudaismo fu indicato per la prima volta dal teologo spagnolo Sebastián Castellòn ancora nel secolo XVI (cfr. Georges Batault, Aspetti della questione giudaica, Ar Padova, 1983). Questo è stato poi sviluppato, nei primi anni del Novecento, da Werner Sombart (Der Bourgeois, Duncker und Humblot, Berlin, 1913). (15) Fondatore della setta dei valdesi (originalmente les pauvres de Lyon), probabilmente ebreo (cfr. Salvador Borrego, América peligra, edizione dell'autore, Città del Messico, 1976; Massimo Introvigne, I protestanti, Elledici, Torino, 1998). (16) Ralph Perier, The Jews love Christianity, Liberty Bell, Arlington/Virginia (America), 1980. (17) Cfr., per esempio, Gérard Walter, Les origines du communisme, Payot, Paris, 1975. (18) Gérard Walter, op. cit. (19) Fatto riferito all'autore da un testimone oculare, anni Settanta. (20) L'islam rese all'Europa un servizio, nel VII secolo, causando in brevissimo tempo la dissoluzione del cristianesimo levantino e così introducendo un'importante barriera culturale e quindi anche genetica fra l'Europa e il Medio Oriente. (21) Si consultino: Julius Evola, Americanismo e bolscevismo, in I saggi della Nuova Antologia, Ar, Padova, 1970 (originale 1929); Alain De Benoist e Giorgio Locchi, Il male americano, LEDE, Roma, 1978; Rolf Kosiek, Marxismus? Ein Aberglaube!, Vowinckel, Berg am See, 1972. (22) Anche se si fa spreco dell'espressione 'dignità umana', quello che in realtà si vuole dire è che qualcuno è tanto più 'degno' quanto più assomiglia a Trimalchione. (23) Julius Evola, Imperialismo pagano, Atanor, Roma, 1928. (24) Quest'affermazione non è assolutamente peregrina. Gustave Le Bon, nella sua La psicologia delle folle, tr. it. Longanesi, Milano 1996 (originale 1895), cita il seguente discorso pronunciato al parlamento francese negli anni Novanta del XIX secolo: "Il giorno in cui una stessa nave porterà verso le insalubri terre di deportazione il losco politicante e l'anarchico assassino, li vedremo conversare tra loro e ravvicinarsi, come due aspetti complementari di uno stesso ordine sociale". (25) Il mitico Procuste è il prototipo del perfetto democratizzatore. (26) Erk von Kühnelt-Leddihn, L'errore democratico, Volpe, Roma, 1966; Panfilo Gentile, Democrazie mafiose, Volpe, Roma, 1969; Jules Monnerot, Sociologie du communisme, Gallimard, Paris, 1963; Fritjof Meyer, Weltmacht im Abstieg, Bertelsmann, München, 1984. (27) Se si devono chiamare gli abitanti dell'isola inglese e dei suoi effluvi 'anglosassoni'; allora bisognerebbe chiamare quelli della valle padana 'longobardi' e quelli della penisola iberica 'visigoti'. (28) Molto spesso la 'coscienza democratica' esige quel complemento dell'atto criminale che è il linciaggio morale mediatico della vittima e dei suoi congiunti. (29) Citato da Alain De Benoist e Giorgio Locchi, op. cit.
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