lundi, 29 août 2016
Apologia della geopolitica tedesca
Apologia della geopolitica tedesca
Autunno 1945: crollato il Terzo Reich, un Haushofer vecchio e stanco espone, su intimazione degli Alleati, i lineamenti della sua dottrina. Lo scritto è, insieme, un lascito e un’autodifesa, che segna la fine di un’epoca tragica. E di un’intensa avventura umana.
Alla luce di quanto emerso nei colloqui del 5 e 6 ottobre 1945.
Ad personam: Anche se non sono l’autore del termine tecnico «geopolitica», sono però con ragione considerato il principale rappresentante della sua scuola tedesca. Sin dalle prime righe di questo tentativo di resoconto oggettivo si pone all’Autore il dubbio se formularlo ricorrendo alla prima o alla terza persona. Usare la terza persona presenterebbe il vantaggio di una maggiore oggettività, ma inevitabilmente suonerebbe artificioso.
L’Autore preferisce quindi assumersi il rischio dell’immodestia e parlare di sé usando la prima persona. Un ostacolo nelle conversazioni di Norimberga può essere considerato il fatto che il gruppo degli investigatori giovani, energici e provvisti di documentazione scritta aveva di fronte un individuo cui quasi non veniva in aiuto la memoria perché logorato dall’età avanzata e dalla tensione interna. Questo documento, nella misura in cui deve valere come riassunto dell’impressione lasciatami da quel colloquio, non può avanzare alcuna pretesa di completezza.
Ad rem: La genesi della geopolitica tedesca costituisce al tempo stesso la sua apologia, poiché essa – nata nel 1919 come pubblica dottrina accademica – è figlia della necessità. Lo si nota con particolare intensità in tre questioni, in cui secondo la didattica americana vengono raggruppati i contributi conoscitivi essenziali forniti dalla geopolitica tedesca: lo spazio vitale, i confini e la contrapposizione fra geopolitica oceanica e geopolitica continentale. Infatti, una dottrina nata in momenti così drammatici per il proprio paese – per quanto il suo autore si sforzi di procedere secondo i dettami della stretta scientificità, se è non un automa scientifico, bensì un uomo in carne ed ossa capace di vive sensazioni – deve presentare i segni e le manchevolezze tanto del tempo e della situazione in cui ha preso origine, quanto del proprio tardivo ingresso nell’arena scientifica. Sarebbe disumano e impossibile pretendere che uno scienziato tedesco vissuto in quei tempi non prendesse in considerazione l’inadeguatezza della suddivisione dello spazio vitale nella Mitteleuropa di allora (come conseguenza della sua altissima industrializzazione e inurbamento) e la sua frammentazione, dovuta a confini alla lunga insostenibili e quindi ingiustificabili dal punto di vista geopolitico. (Così prese forma, tra l’altro, il mio libro Grenzen, 1927).
Alla ripresa dell’insegnamento la gioventù tedesca del dopoguerra sembrava priva soprattutto della capacità di visioni grandiose (di dimensioni continentali!) e della conoscenza delle condizioni di vita di altri popoli, in particolare di quelli oceanici. Tagliata fuori dal vivificante respiro del mare e privata dei suoi rapporti ultramarini, era portatrice di una visione del mondo di ristrettezza continentale, era divenuta meschina e si perdeva in una quantità di tensioni di poco conto, come dimostrava anche la frammentazione in 36 partiti e in numerose leghe. La sua conoscenza di ampie realtà condizionate dal mare, come quelle dell’impero britannico, degli Stati Uniti d’America, del Giappone e dell’Impero olandese delle Indie Orientali, era ancora più esigua di quella che aveva del Medio e Vicino Oriente, dell’Eurasia e dell’Unione Sovietica.
Per questa ragione sembrava alla geopolitica tedesca così necessario far conoscere gli imperi oceanici e lo spazio indo-pacifico, in modo da creare un contrappeso all’accalcarsi centripeto degli anni 1919-1933: accalcarsi che infelicemente, sotto la pressione delle lotte partitiche interne, offuscò e oscurò le conoscenze sull’estero. Assolveva questo compito anche la facoltà per le Scienze dell’estero dell’Università di Berlino, con l’Istituto di geografia politica e di geopolitica (l’unico in Germania) diretto da mio figlio, il professor Albrecht Haushofer. A Monaco di Baviera non è mai esistito un Istituto di geopolitica. La mia biblioteca personale, in parte trasferita dagli incaricati degli Stati Uniti (ten. Morgenstern e Kaufmann), era una mia proprietà privata messa insieme faticosamente; infatti, dall’università non ho ricevuto alcun sussidio o stipendio, perché altrimenti avrei ricevuto un «doppio pagamento» a causa della mia pensione militare come invalido di guerra. La geopolitica tedesca, priva di ogni appoggio statale, incominciò fra grandi difficoltà a causa della sua povertà iniziale.
Nessuna persona animata da sentimenti normali, quale che sia la sua nazionalità, potrà mettere in dubbio il fatto che anche uno studioso tedesco, per quanto miri all’oggettività, dopo vicende così gravi come quelle del periodo 1919-1932 avesse il diritto di stare al fianco del suo popolo in una simile lotta per l’esistenza, con tutte le conoscenze onestamente e legittimamente acquisite nel proprio campo scientifico. Anche se non ho mai fatto mio sino in fondo il principio «right or wrong, my country», bisogna tuttavia ammettere che in tempi di così alta tensione i confini tra scienza pura e scienza applicata divengono evanescenti e che, quindi, anch’io mi sono lasciato andare ad eccessi, come ho apertamente ammesso davanti agli investigatori. Essi, d’altronde, hanno riconosciuto che io, dal 1933, ho potuto lavorare manifestandomi a voce e per iscritto soltanto sotto la pressione di una quadruplice censura.
Se gli investigatori hanno accertato che – in confronto alla concezione della geopolitica «legittima» secondo gli Stati Uniti – la geopolitica tedesca contiene un 60-70% di conoscenze accettabili, bisogna però tracciare una netta linea di confine tra ciò che è stato stampato prima del 1933 e ciò che è stato stampato dopo quella data. Con riferimento agli anni dal 1919 al 1933, se all’inizio di maggio [1945] tutti i miei strumenti di lavoro scientifico non fossero stati prelevati e in parte trasferiti (sia pure con la promessa di restituirli) da una commissione diretta dal ten. Morgenstern e dal Signor Kaufmann, avrei potuto mostrare numerosi corsi la cui struttura coincide, ad esempio, con lo Schema II «Methodology» del «Course on Geopolitics» presso la School of Foreign Service della Georgetown University 21 del 1° luglio 1944. In quel materiale si trovavano anche gli appunti per le mie lezioni.
Quanto venne scritto e stampato dopo il 1933 era «under pressure» e deve, quindi, essere valutato sulla base di questa circostanza. Come poi si sia manifestata questa pressione – della quale Rudolf Heß non fu mai partecipe, perché anzi cercò di proteggermi – è dimostrato dai quasi tre anni di prigione o di domicilio coatto della mia famiglia, dalla mia detenzione nel campo di concentramento di Dachau, dall’uccisione il 23 aprile 1945 del mio figlio maggiore da parte della Gestapo e, infine, dalle strette limitazioni e dalla chiusura della mia Zeitschrift für Geopolitik.
Nel Terzo Reich non esisteva alcun organo ufficiale che si occupasse delle dottrine geopolitiche o le approfondisse, cosicché il partito faceva uso di slogan mal digeriti desunti da quelle dottrine, senza però capirli. Solo Rudolf Heß e il ministro degli Esteri Constantin von Neurath (il primo dai tempi in cui fu mio allievo, prima che esistesse il partito nazionalsocialista) avevano una certa comprensione della geopolitica, senza però poterla imporre. Invece, la comprensione per la geopolitica era frequente tra gli uomini di Stato o i rappresentanti più in vista della «political science» negli anni fra il 1922 e il 1933. Fra i tedeschi ricordo il ministro degli Esteri Stresemann, l’ambasciatore Schulenburg e altri; fra gli austriaci il cancelliere Seipel e il ministro dei Culti von Srbik; in Ungheria il conte Paul Teleki e Gömbösch; francesi come Ancel, Briand, Demangeon, Montandon; a Praga il presidente Masaryk; celebri russi e rumeni; italiani come Gabetti, Tucci, Massi, Roletto; le buone relazioni con il gruppo dei paneuropeisti raccolto intorno al conte Coudenhove-Kalergi, con conferenze tenute per lui a Brünn, Olmütz, Praga e Vienna.
Queste vicende d’una legittima geopolitica, fino all’alterazione del suo naturale divenire dal 1933, sono già state ampiamente illustrate agli investigatori della Terza Armata (dal 14 al 18 giugno), a quelli del quartier generale del generale Eisenhower (dal 24 agosto al 2 settembre) e a quelli del giudice Jackson (dal 2 al 10 ottobre). Le si può illustrare nel migliore dei modi esaminando le mie teorie sulla geopolitica scientifica relativa agli oceani e ai continenti. Queste teorie prendono origine da Friedrich Ratzel (La terra e la vita, Geografia politica, Antropogeografia) e dai suoi seguaci negli Usa (Semple) e in Svezia (Rudolf Kjellén) e affondano le radici più nelle fonti dei popoli anglofoni che in quelle continentali. Richiamandosi al loro principio «Let us educate our masters», sono poi state introdotte in Germania. Mahan, Brooks-Adams, Joe Chamberlain (in una conversazione personale del 1899 sull’opportunità di un’alleanza dell’Impero britannico con gli Usa, il Giappone e la Germania), Sir Thomas Holdich (padre della teoria dei confini), Sir Halford Mackinder (The geographical pivot of history), Lord Kitchener (1909) e poi J. Bowman (The new world) sono stati le mie fonti primarie, ripetutamente citate.
Nel Terzo Reich è stato grottescamente frainteso l’ammonimento a non oscillare fra una politica oceanica e una continentale, atteggiamento che si era rivelato disastroso già con Guglielmo II. Ancor più [frainteso] è stato il paragone del principe Ito della troika russa in rapporto all’Europa colta, all’Asia colta e all’Eurasia. L’espansione unilaterale verso Oriente del 1939 e del 1941 fu un peccato mortale contro di esso.
Né i miei scritti né le mie conferenze hanno mai favorito i piani di conquista imperialista. Tanto nel mio libro sui confini quanto nelle mie conferenze pubbliche ho protestato contro la mutilazione della Germania attuata dal Trattato di Versailles, mi sono impegnato per i tedeschi in Alto Adige, ho salutato il ricongiungimento dei territori tedesco-sudeti, ma non ho mai approvato l’annessione di territori di altre etnie, di territori cioè che non fossero abitati da tedeschi. I sogni di quelle annessioni mi sono sempre sembrati sogni pericolosi, e quindi li ho respinti. Il fatto poi che, sotto la mia direzione, la Vda (1) abbia riportato in Germania, con costi e fatiche, molte migliaia di tedeschi dall’Est europeo, dimostra nel migliore dei modi che allora non si progettava alcuna occupazione di quei territori, o – come minimo – che non era noto che lo si desiderasse.
Con l’occupazione di territori popolati da genti di altro sangue il nazionalsocialismo avrebbe rinnegato gli ideali con cui si era inizialmente presentato. Io l’ho sottolineato in ogni occasione, tra l’altro l’8 novembre 1938, e mi sono opposto a questi piani di conquista. Io credo alla «promessa di saturazione» del 1938. Soprattutto nell’Europa orientale, è pressoché impossibile tracciare confini giusti, che soddisfino tutti e che non facciano violenza a nessun popolo, a causa dell’intreccio terribilmente complesso dei gruppi linguistici e delle strutture economiche. A questo proposito tanto io, quanto mio figlio Albrecht, quanto altri miei allievi e collaboratori abbiamo tentato invano, durante lunghi conciliaboli, di gettare le fondamenta giuste e durature per quei confini, e io badavo sempre a che questa attività non divenisse, a sua volta, causa di un qualche irredentismo. Di fronte a questo convinto ritegno già all’interno dell’Europa, va quindi da sé che devono essere considerati come totalmente inventati i piani di conquista che mi vengono accollati (persino con l’elaborazione di carte) per l’invasione di altri continenti, come l’America meridionale. In queste vicende il sensazionalismo della stampa si è scatenato senza ritegno, persino falsificando delle carte geografiche.
La mia predilezione geografico-culturale per il Giappone si fonda sulla confidenza con il paese e con il suo popolo acquisita in due anni di soggiorno. Essa venne rafforzata dal fatto che vi conobbi i rappresentanti della cultura tradizionale – particolarmente diffusa grazie alla conoscenza della storia culturale e religiosa dell’antica Asia orientale – incontrando personalità distinte e gradevoli, mentre non ebbi quasi l’occasione di conoscere le poco simpatiche forme del nuovo Giappone. Ho ritenuto che la guerra sino-giapponese del 1937 fosse una sciagura (opinione condivisa del resto anche da mio figlio, prof. Dr. Albrecht Haushofer, che al momento del suo scoppio giungeva in Cina e Giappone provenendo dagli Usa) e ho fatto quanto ho potuto per scongiurarla. Invece, nel 1909 la Corea mi ha dato l’impressione di non potersi reggere in piedi da sola e, pertanto, di poter soltanto scegliere fra la tutela giapponese, cinese, russa od oltremarina. Lo stesso valeva per la Manciuria.
Giudicavo insensato ogni scontro armato dell’Occidente europeo con le razze colte dell’Estremo Oriente in Cina, in Giappone o nell’Asia sudorientale e tentavo di porvi riparo favorendo l’equilibro attraverso una saggia politica culturale. Da questo atteggiamento deriva il libro Deutsche Kulturpolitik im Indopazifischen Raum (1939), ma anche, già nel 1913, Dai-Nihon, con i suoi avvertimenti contro la superiorità razziale e con il suo richiamo alla forza della popolosa dell’Asia sudorientale nel suo sforzo di rinascita attraverso l’autodeterminazione. Sono anche convinto che il nonno dell’imperatore del Giappone, Mutsuhito Meiji-Tenno, da me conosciuto personalmente, non avrebbe perso il controllo dei partiti e dei clan giapponesi, sempre gelosi l’uno dell’altro, come invece avvenne con suo nipote. Le prime edizioni della mia Geopolitik des Pazifischen Ozeans (1924) sottolineano infatti la libertà di quell’area da precedenti gravami bellici. Su questo punto mi trovavo d’accordo con i primi editori di Pacific Affairs, al tempo ancora edita a Honolulu, con i fondatori della tendenza equilibratrice pan-pacifica e con studiosi come l’australiano Griffith Taylor, che mi inviò il suo Environment and Race, da me recensito positivamente. Non ho fatto nulla per infiammare il Pacifico, anzi, nel recensire gli allora diffusi romanzi di fantascienza bellica (2) ho messo in guardia dal giocare con un fuoco così pericoloso. Solo nei resoconti correnti ho dovuto rendere conto dei dati di fatto politico-militari.
Ho letto Mein Kampf per la prima volta quando ne era già stato stampato il primo volume e ho rifiutato di recensirlo perché non aveva nulla a che fare con la geopolitica. Mi sembrò allora una delle tante ed effimere pubblicazioni propagandistiche. Ovviamente, non ho partecipato alla sua stesura e credo che basti un confronto del mio stile di scrittura con quello di quel libro per proteggermi dal sospetto di avervi collaborato, come sostiene la stampa scandalistica.
Non ho mai incontrato Hitler a tu per tu; per l’ultima volta l’ho visto con altre persone l’8 novembre 1938 e ho avuto uno scontro con lui. A partire da quel momento sono caduto in disgrazia e, dopo il volo di Heß [in Gran Bretagna] del maggio 1941, sono stato abbandonato alle persecuzioni della Gestapo, concluse soltanto alla fine del 1945 con l’assassinio del mio figlio maggiore, che era al corrente di quanto si progettava per il 20 luglio 1944 [data dell’attentato a Hitler] e che intratteneva rapporti con i popoli anglofoni. La mia amicizia con Rudolf Heß data dal 1918 ed è – come la sua partecipazione alle mie lezioni – di quattro anni anteriore alla fondazione del partito nazionalsocialista.
Ho visto Hitler per la prima volta nel 1922 e l’ho considerato uno dei tanti tribuni saltati fuori dal surriscaldato clima popolare tedesco e dai suoi vari movimenti e gruppuscoli. Fino al 1938 sono caduto nell’errore di ritenere possibile qualche sviluppo positivo, come del resto Henderson e Chamberlain, e ancora sino a metà ottobre [1939?] ho sperato in una soluzione pacifica.
Dall’autunno del 1938 iniziò la via crucis sia della geopolitica tedesca (come dimostrò la prigionia e la morte nel nostro comune destino di padre e figlio), sia della «political science» nella Mitteleuropa, sotto il dominio esclusivo di un unico partito, fino al loro abuso e alla loro incomprensione nella sfera statale. Eppure, originariamente la geopolitica tedesca era diretta a fini del tutto simili a quelli perseguiti dalla geopolitica americana. Il programma con cui quest’ultima si presentò per la prima volta contiene l’affermazione che essa voleva essere «la coscienza geografica dello Stato». Nel 1938 questo principio avrebbe prescritto di attenersi con gratitudine a quanto raggiunto a Monaco. Quando però, finalmente, riuscii ad accedere al capo dello Stato l’8 ottobre 1938, di ritorno dall’Italia, caddi in disgrazia e non ebbi più occasione di incontrarlo. Fino a quel momento, dunque, questo fautore della geopolitica tedesca può essere considerato un legittimo sostenitore anche della geopolitica americana.
Come per la legittima geopolitica americana, il fine della geopolitica tedesca consistette originariamente nel fare il possibile tanto per evitare futuri conflitti analoghi a quello del 1914-18, facendo appello alla reciproca comprensione dei popoli nelle loro possibilità di sviluppo rispetto alle aree culturali e allo spazio vitale, quanto per ottenere a favore delle minoranze il massimo possibile di giustizia e di autonomia politico-culturale, come era avvenuto in Estonia e come sembra ora avvenire in Transilvania. Tutto ciò presupponeva un’esatta visione geografica del mondo, la reciprocità e il rispetto reciproco di ogni nazionalità e razza e il riconoscimento del diritto umano alla «personalità»: cioè la massima misura possibile di sopportazione e tolleranza, di cui erano pervase, ad esempio, le mie lezioni dal 1919 al 1932. Altrimenti, i gruppi paneuropeisti non mi avrebbero invitato a tenere conferenze a Praga, su invito del capo dello Stato, a Brünn e a Olmütz e nella Vienna di Seipel; né i ministri dell’Istruzione ungherese ed estone sarebbero intervenuti alle mie conferenze a Budapest e a Reval; né, in tempi di tensioni internazionali, sarei stato invitato a Roma, in Svizzera, a Oxford e a Lisbona; né sarebbero stati in costante scambio epistolare con me studiosi appartenenti a tutte le culture, società di geopolitica (come la Tschungking in Cina) e professori dell’università di Gerusalemme, come Kohn.
Alcune di queste influenze politico-culturali della geopolitica tedesca continuarono a dar frutti dopo il 1933, in Svezia e Norvegia, nel Vaticano, in Cina, in Inghilterra (dove sono membro onorario della Legione britannica), in Francia (Ancel, Demangeon, Montandon, Haguenauer, Société Franco-Japonaise di Parigi), per tacere dei paesi più prossimi alla politica tedesca come l’Italia, il Giappone, l’Ungheria e la Romania.
Il primo volume sulla geografia politica, stampato purtroppo solo come manoscritto a opera del mio figlio assassinato dalla Gestapo, potrebbe altrettanto bene aver preso forma in uno dei laboratori geopolitici stranieri di qualsiasi Stato alleato. Cominciò a scriverlo durante un periodo di vacanza nella casa dei genitori; lo abbiamo pensato insieme e ha ricevuto la mia piena approvazione, però non avrei potuto scriverlo io stesso, perché per farlo mi mancava la preparazione metodologica e la tecnica, benché io possa essere stato utile come suo promotore.
Nei memoranda nati come risposte agli interrogatori del comando del generale Eisenhower (e nella disponibilità degli investigatori) ho descritto nei particolari come una geopolitica costruita attraverso uno scambio assai vivace di contatti personali e intellettuali fra professori, docenti, assistenti e studenti a livello internazionale sarebbe uno dei mezzi migliori per evitare future catastrofi mondiali. Etimologicamente, potrebbe portare nuovamente la «Sacralità della Terra», la santità del suolo che nutre l’umanità, alla posizione d’onore che le spetta nell’arte politica. Fra i terremoti del 1914-18 e del 1938-45, la geopolitica tedesca cercò di costruire una via che conducesse a questo nobile scopo. Nel farlo commise errori e sbagli, ma sempre sotto il benevolo influsso di un saggio detto in inglese: «All human progress resolves itself into the building of new roads».
Signed in my presence,
at Hartschimmelhof on Ammersee, Bavaria, Nov. 2. 1945.
Edmund A. Walsh
Dr. Karl Haushofer
2 novembre 1945
(1) Il Volksbund für das Deutschtum im Ausland era l’ente che si occupava dei tedeschi irredenti, di cui Haushofer fu presidente.
(2) Dall’inizio del Novecento, ma soprattutto dopo il Trattato di Versailles, in Germania si pubblicavano consolatori romanzi di fantascienza bellica (Zukunftskriegsromane): essi prefiguravano una guerra futura culminante con la vittoria della Germania, con la sua espansione territoriale e con la riconquista delle sue colonie. Quindi erano in certa misura il riflesso letterario della geopolitica, e per questo Haushofer se ne era occupato.
Tratto da “Il testamento geopolitico di Karl Haushofer”, di Mario G. Losano, presente in Limes 2/09 Esiste l’Italia? Dipende da noi
00:06 Publié dans Eurasisme, Géopolitique, Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : eurasisme, géopolitique, histoire, karl haushofer, allemagne, géopolitique allemande, deuxième guerre mondiale, seconde guerre mondiale | | del.icio.us | | Digg | Facebook