samedi, 06 juin 2015
L’unità del vivente e la inesistenza del dualismo Anima-Corpo nella spiritualità indoeuropea
L’unità del vivente e la inesistenza del dualismo Anima-Corpo nella spiritualità indoeuropea
di Giandomenico Casalino
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Perché i Greci non possiedono nel loro lessico una parola per dire “corpo”? Perché non possiedono una parola per dire “materia”? Ed affermano che essa come tale non esiste? (1) Perché quando parlano di “corpo” si riferiscono al “soma” cioè al “cadavere”? Fanno riferimento quindi al “corpo” senza vita, senza funzione, senza pensiero, sentimenti, coraggio, personalità, senza “Io” nel significato omerico (arcaico) e quindi tradizionalmente ellenico, come complesso multivocale e multifunzionale, ancorché unitario (2), di potenze della Vita simili a quelle cosmiche (gli Dei). Fanno riferimento pertanto ad un non-ente, ad un “niente”.
L’uomo da Omero è chiamato “il vivente”, (3) non il “corpo”, e quando i Greci parlano di “anima”, la psychè è sempre in riferimento all’evento morte cioè alla distruzione del “vivente”, alla scomposizione del composto, alla disarmonia dell’armonico; allora il “dualismo” anima-corpo è la conseguenza (sul piano della spiritualità) della morte, della separazione, della frattura; anzi è come un’anticipazione della stessa morte fisica che è infatti separazione e perdita della personalità come Spirito-intelletto che non ha più nessun rapporto con il mondo e non ne può avere poiché essa è niente, è Ade, è l’Oscuro, è l’Umido, dove l’anima muore (Eraclito); è non-visione e quindi non conoscenza (Ade deriva dal greco Aide che è composto da alfa privativo + id che è una delle tre radici del verbo greco orao che significa vedere; per cui l’Ade è il luogo della non visione e quindi della non-conoscenza!).
Così è per i Romani, per le stesse ragioni spirituali essi non hanno pensato di edificare necropoli (come hanno fatto gli Etruschi) ma città per i vivi: templi, terme, basiliche, acquedotti, strade, teatri. Nella stessa Romanità, il rito funebre, con l’esposizione delle maschere degli antenati e con la celebrazione degli Officia del defunto resi al servizio della Res Publica, non è, nella sostanza, una ritualità relativa all’evento morte quanto un rendere onore alle Res Gestae della famiglia medesima, che rendono perenne la memoria della stessa.
Nella realtà del mondo, la verità è il Vivente, la Forma Intelligibile nella Luce (la Lichtung di Heidegger) che è la Vita stessa; ellenicamente è essere visto dagli Dei ed è vedere gli Dei cioè conoscere ed essere conosciuto. E quando Platone nel Fedone parla della morte filosofica, del distacco, della separazione, sta enunciando, data la terribile crisi dell’uomo greco e la sua caduta spirituale, la tecnica e la filosofia della cultura orfico-dionisiaca, come “Opera al Nero”, cioè come necessario “distacco” dalla corporeità, dalla vita, per conseguire il più che vita, l’oltre vita; ma questa è la Via Umida, una “tecnica”, non la tecnica; atteso che lo stesso Platone parla e indica, come essenziale al suo insegnamento, la possibilità, per pochi, della Via Secca Apollinea, dell’insegnamento, dell’epistème, della lunga e severa sottilizzazione dell’elemento vita, restando in essa e non negando il mondo e la corporeità per giungere, dopo anni e anni di esercizio della Ascesi filosofica, mediante la potenza catartica della dialettica, alla noesis, alla conoscenza (Lettera VII).
Inoltre Platone, tra le fenomenologie della “mania”, pur non indicando la forma guerriera, fa riferimento a quella erotica, a quella poetica come alla mantica, tutte molto simili alla Via Ultrasecca che è, per l’appunto, la Via del guerriero (vedi il concetto di “ménos” in Omero come “follia” e quello di “furor” nella cultura romana). (3)
Da tutto ciò consegue che il “corpo” inteso come “soma” non esiste poiché non è forma (intelligibile) essendo privo di Vita e se non è forma non è neanche conoscibile, come la “materia”; poiché esso è “materia”, è ύλη = «legname accatastato senza ordine» (Aristotele). L’unica funzione pertanto che svolge il cadavere (il corpo-soma) è quella di essere “strumento” per la pietà religiosa e per la cultura della “bella morte” eroica (vedi Iliade, episodio della morte di Ettore).
I Greci quindi hanno “scoperto” e ci hanno donato il cuore della spiritualità indoeuropea: la Forma che è l’Idea (sempre intelligibile) nello splendore della Luce degli Dei; essa è unità polare e dialettica, è tensione eventuale (nel senso che si eventua nel tempo…), è il Mondo come Forme Viventi, come Dei che non conoscono né il “corpo-soma”, né l’anima-psyché, né la “materia”, poiché non conoscono la morte! Lo psichismo del dualismo conosce l’Anima e il suo Dio solo nella morte ed a causa della morte, quindi la sua “spiritualità” è notturna e oscura come l’Ade; l’indoeuropeo conosce se stesso come Vivente e la Divinità – il complesso degli Dei – nella Luce della Vita ed a causa della Vita perché la sua spiritualità è diurna, luminosa! Gli Dei sovrani indoeuropei sono paterni e luminosi: la radice di Juppiter è la stessa di Dyaus Pitar che in sanscrito vuol dire Padre Luce o Padre Cielo luminoso.
Gli Dei sono gli immortali, gli eternamente beati e l’uomo greco nella Forma della Vita e dell’Essere, nel Vivente, nel Mondo come organismo animato e intelligente, grande Dio, ha venerato ciò che è potentemente esistente poiché è radicalmente ed unitariamente Essenza ed Intelligenza, ha amato solo e soltanto il più-che-vita nella vita, che è la Potenza dell’Atto, dell’Intelletto, è la danza cosmica delle Forme intorno al Nous (Intelletto) che è la loro Fonte Eterna.
(1) PLOTINO, Sulla materia, 4[12], 9.4-5; PLATONE, Timeo, 52b2.
(2) R. DI GIUSEPPE, La teoria della morte nel Fedone platonico, Bologna 1993; H. FRÄNKEL, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Bologna 1997, pp. 129-142. R. ONIANS, Le origini del pensiero europeo, Milano 1998; G. SPATAFORA, I moti dell’animo in Omero, Roma 1999.
(3) Hegel esprime il medesimo concetto a proposito dell’idea realizzata nell’individualità vivente che è l’uomo! Vedi, a tal proposito, A. STELLA, Per una concezione filosofica dello “Psichico”, Roma 1992, p. 168 e ss.
(4) G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003, pp. 79 ss.
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