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lundi, 04 mai 2009

Intervista a Marco Fraquelli

Intervista a Marco Fraquelli

Ex: http://www.centrostudipolaris.org/

Marco Fraquelli, tu sei l’autore di “A destra di Porto Alegre” edito nel
2006 da Rubbettino.
Cosa ti ha spinto ad interessarti di quel mondo che, almeno in passato,
doveva sembrarti ostile, considerata la tua militanza a sinistra negli anni
Settanta?

Intanto, credo che, al di là di ogni militanza, sia importante mantenere un po’ di onestà intellettuale (non ho la presunzione di definirmi onesto al cento percento…). Io non ho cambiato idee politiche, anche se, invecchiando, come tutti, tendo più alla socialdemocrazia che non al massimalismo…, ma registrare l’impegno della destra radicale in senso antiglobale, e soprattutto evidenziarne le radici antiche mi sembrava un esercizio intellettuale del tutto oggettivo. Se poi vuoi sapere più nel dettaglio da dove nasce la mia idea di analizzare questa componente del pensiero radicale di destra (e quindi l’idea del libro), ti dico che c’è anche una data ben precisa, e cioè l’agosto del 2001 quando, leggendo sotto l’ombrellone il famoso No Logo della Klein mi venne spontaneo riandare con la mente alle centinaia di pagine che, da quasi un decennio, Orion andava pubblicando sul tema del mondialismo, tema del quale, peraltro, mi ero già occupato per la mia tesi di laurea su Evola. Da lì la voglia di approfondire il tema.

Cosa ritieni di dover porre in evidenza riguardo l’approccio alla globalizzazione tenuto dalla cosiddetta Destra Radicale?

Sicuramente colpisce il fatto che la destra radicale se ne sia occupata molto prima della sinistra (ancorché, come dico nel libro, ciò possa essere abbastanza intuitivo, perché se è vero che la globalizzazione è per definizione un fenomeno di livellamento e di omogeneizzazione, che cosa ci può essere di più distante – e antagonista – del DNA di un uomo di destra?). Mi colpisce anche il fatto che l’antiglobalismo della destra sia in generale più “integralista” rispetto alla versione new-global della sinistra. Ma mi colpisce soprattutto – e mi ha colpito, approfondendo l’argomento – che la destra radicale abbia offerto un’analisi molto articolata e spesso orginale del fenomeno. Per esempio ha affrontato per prima il problema in termini filosofici e storici, rilevando l’”antichità” della globalizzazione. La visione degli economisti e in generale degli storici di parte opposta ha invece posto sempre l’accento sull’estrema novità del fenomeno. Cosa corretta se per globalizzazione intendiamo l’attuale dinamica soprattutto economica. Ma del tutto parziale se consideriamo, come appunto fa la destra radicale, la globalizzazione nel più complesso insieme delle sue valenze che, lo ripeto, sono di natura filosofica e storica prima ancora che sociale ed economica.

Quali sono invece i difetti d’impostazione, se ne ravvisi qualcuno, che possono impedirle un’articolazione davvero completa di una critica esauriente?

Ma io direi che la critica non è per nulla incompleta. Anzi, come dicevo, è sicuramente più articolata e organica rispetto ad altre. Io credo che il problema sia poi quello delle ricette alternative. La mia sensazione è che l’alternativa alla globalizzazione sia pur sempre – semplifico molto - quella della comunità organica, con quei presupposti di gerarchia e di ordine che qualificano per eccellenza il pensiero di destra (starei per dire reazionario, ma solo in senso oggettivo, senza voler dare al termine alcun giudizio di valore o di merito). Qualcuno ha criticato questa mia valutazione, sostenendo che ho dei preconcetti. Può essere. Ma quando parlo di comunità organica e di gerarchia, mica penso a chissà quale orrenda dittatura, o a un ritorno al medioevo, a una società divisa in caste, ecc. Penso semplicemente a un modello del tutto attuale di società, solo basata su valori che non corrispondono esattamente a quelli della democrazia come noi la intendiamo e la viviamo.

A tuo avviso la critica alla democrazia, al cosmopolitismo e all’internazionalismo, che accomuna il pensiero di un po’ tutta la Destra Radicale, scaturisce in un’univoca opposizione alla globalizzazione o vi riscontri, invece, diverse scuole di pensiero?

Sicuramente le scuole di pensiero sono molte e molto variegate. Io prima, per sintetizzare, citavo il concetto di comunità organica: ecco, in questo caso, le formule sono le più svariate. Io credo sinceramente nella differenza tra comunità chiuse e comunità aperte, così come penso che anche nell’ambito della destra radicale ci sia chi ci crede altrettanto fermamente. Credo che l’attenzione per ogni forma cosiddetta di “antagonismo” espressa da Orion, da cui la forte attenzione per il mondo musulmano, non abbia nulla da spartire con Le Pen (almeno il Le Pen classico, quello di oggi pare curiosamente disponibile ad aperture). Così come le posizioni di De Benoist sembrano distanti anni luce da quelle dei tradizionalisti e così via. E’ vero che io dico che comunque alla base di tutto c’è un filo rosso che attiene al pensiero “reazionario”, ma è un inevitabile punto di partenza comune, voglio dire che sono le radici naturali. Ciascuno poi ha compiuto e sta compiendo il suo percorso. E’ un percorso che in qualche caso marginalizza molto quelle radici, in altri le rivitalizza, in altri ancora le rimuove.

Prima di scrivere questo libro ti cimentasti con “Il filosofo proibito. Tradizione e Reazione nell’opera di Julius Evola”, pubblicato nel 1994 con Terziaria. Come mai questa scelta?

Lo scrivevo nell’introduzione del libro: come hai ricordato, io negli anni ’70 ho cominciato a militare nelle organizzazioni dell’estrema sinistra. Ed ero fermamente convinto dell’assioma proposto da Bobbio, ovvero che cultura e destra fossero termini inconciliabili. Poi, invece, la scoperta – fortuita, avvenuta leggendo alcuni articoli di Filippini su Repubblica – che esisteva non solo un universo culturale di destra ben definito, ma anche autori cult, case editrici ecc. Questo, tra l’altro, avveniva mentre iniziavo la mia avventura professionale a Milano, in un’azienda che aveva la sede a pochi metri dalla “famigerata” sede provinciale dell’MSI di via Mancini (nei nostri slogan “un covo di assassini”…), ed era inevitabile che ogni giorno incontrassi nei dintorni i giovani missini (ricordo anche La Russa, Decorato, ecc.). Devo dire che il sentimento prevalente, durante quegli incontri, non era, come ci si potrebbe aspettare, di sordo rancore, o di odio, quanto piuttosto di una vera e propria curiosità antropologica, forse, non lo nascondo, anche un po’ morbosa. Mi chiedevo, soprattutto, vedendo quei ragazzi che poi mi somigliavano moltissimo anche esteticamente, che cosa davvero ci dividesse. Ti prego di credere che non sto dando una versione “buonista” della situazione. Per me era davvero così. E dunque mi interessava ancor di più esplorare il background culturale dei miei antagonisti. Il caso vuole che allora mi stessi laureando con Giorgio Galli che, per primo, da sinistra, aveva rivalutato Evola come pensatore elitista degno dei più blasonati pensatori che normalmente entravano nei manuali di storia del pensiero politico (da Maistre a Bonald, ecc.). Confesso che io non avevo mai letto nulla né di Evola né su di lui, mi ricordavo solo una brevissima citazione, mi pare di Cantimori, in cui veniva descritto più o meno come “oscuro teorico del razzismo” (figurati che pensavo che fosse tedesco…), ma l’occasione mi sembrò troppo ghiotta, e così chiesi una tesi su di lui, tesi che è appunto diventata il libro che ricordavi.

Quanto Evola ritrovi nell’antiglobalizzazione della destra radicale?

Di primo acchito direi molto, se vogliamo enfatizzare l’aspetto antimodernista dell’antiglobalizzazione espresso dalla destra radicale. Per non parlare delle posizioni antimericane del filosofo. Ma sinceramente l’aspetto fortemente elitista e aristocratico del pensiero di Evola mi sembra distanziarsi dalla visione no global della destra radicale. Anche perché non credo si debba perdere di vista un punto fondamentale, e cioè che la visione della destra radicale è sì antimodernista, ma non necessariamente inattuale. Certo, ancora una volta, bisognerebbe distinguere le varie scuole di pensiero: è ovvio che la destra più tradizionalista è naturalmente più ortodossa, rispetto alle altre, con riferimento al pensiero evoliano. Non dobbiamo poi dimenticare che in Evola il tema noglobal spesso coincide con il tema del complottismo, della guerra occulta (con l’inevitabile corollario antisemita). Da questo punto di vista ritengo che almeno dagli anni ’70 la destra radicale abbia decisamente rotto ogni ponte con Evola. Resta naturalmente l’insegnamento complessivo, ma certamente nessuno più pensa oggi alla globalizzazione come a un complotto ordito da una cerchia di “burattinai” chiusi in una stanza segreta…

In poche parole puoi dirci che differenze riscontri fra la critica alla globalizzazione operata dalla sinistra alterglobal e quella della destra radicale?

Intanto, come scrivo nel libro, l’atteggiamento della destra è molto spesso più radicale. Non mi pare di vedere atteggiamenti new-global (intendo dal punto di vista dottrinario, ma spesso anche nei comportamenti). Ma credo che questo sia il portato naturale delle ipotesi – per così dire – di partenza. La sinistra fa pur sempre riferimento alla sfera democratica, e ritiene quindi che esistano, in questa sfera, elementi correttivi, che possano esistere, per così dire, meccanismi di compensazione. In fondo la democrazia dovrebbe essere proprio questo. La visione antidemocratica non può contare su queste possibilità.

Infine una tua opinione: credi che la “globalizzazione” sia un fenomeno compiuto? E se non lo è, pensi che la sua realizzazione sia ineluttabile?

Devo proprio essere sincero? Io credo sia ineluttabile. Mi ha molto colpito, durante la presentazione del mio libro a Casa Pound, la tua riflessione sul fatto che, invece, non la si debba dare per ineludibile, e che, di conseguenza, si possano immaginare aree di antagonismo, diciamo alternative. Anch’io sono convinto che vi siano aree (o micro-aree) nel mondo che ancora resistono. Io mi chiedo, però, fino a quando. E confesso che da questo punto di vista tendo a essere un po’ new-global, a sperare (non dico credere) che prima o poi si trovi una formula di governance che offra anche opportunità positive, cioè di miglioramento della qualità della vita senza snaturare le identità. Forse è utopia, non so… Di una cosa però sono certo: che quando parlo di qualità della vita non penso affatto al tema dell’esportazione di democrazia. Penso, più materialmente (o se vuoi più materialisticamente) alle condizioni di benessere fisico, intellettuale, ecc. Anche perché non credo che la democrazia sia per forza il massimo della vita. Secondo me fino a oggi non si è trovato nulla di meglio, ma non è detto che in futuro sia ancora così.

00:15 Publié dans Entretiens | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : italie, globalisation, actualité | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

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