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mardi, 30 janvier 2007

Ideologia delle tre funzione nei miti del Giappone

Un nostro lettore, Castrese Cacciapuoti, attualmente in Giappone per motivi di studio, venuto a conoscenza della pubblicazione in lingua italiana del libro di J. Haudry 'Gli Indoeuropei', ci ha inviato queste note sulla corrispondenza analogica tra la ideologia tripartita indoeuropea e la struttura tripartita della simbologia shintoista.

 

 

L’ideologia delle tre funzioni nei miti del Giappone

 

 

C. Cacciapuoti,

in 'Margini' n. 35 luglio 2001

 

 

Che i miti nazionali del Giappone rivelino un gran numero di sorprendenti simiglianze con i miti

 

dei Greci, degli Sciti, oltre che con l’epopea degli Osseti era noto già da tempo agli studiosi. Tuttavia è solo dagli anni settanta che, grazie al lavoro di comparazione strutturale compiuto da Ohayashi Taro e Yoshida Atsuhiko, si è riusciti a dimostrare che elementi simbolici appartenenti all’area culturale indoiranica si propagarono da occidente verso l’estremo oriente fino a influenzare anche popoli di diversa stirpe, come è dimostrato dai miti dell’antico regno coreano di Koguryo e dai miti shintoisti. Secondo la teoria avanzata dai due studiosi giapponesi, i nomadi di ceppo altaico che, passando per la penisola coreana, si stanziarono in epoca preistorica nell’arcipelago nipponico, e gettarono le basi della nazione Yamato, erano precedentemente entrati in contatto nelle steppe dell’Asia centrale con i popoli Sciti di stirpe iranica, da cui avrebbero ricevuto una sorta di investitura rappresentata dalla consegna dei tre tesori sacri, che sono tuttora i simboli della podestà suprema del Tennô.

 

Nel confronto tra i miti giapponesi e quelli dei popoli di stirpe indoeuropea non solo riscontriamo chiarissime affinità negli elementi narrativi, ma vediamo precisi accordi anche e soprattutto in termini di Weltanschauung. Per tale ragione Ohayashi e Yoshida ritengono che benché i miti giapponesi siano composti da strati di diversa origine, essi formino un sistema coerente con il sistema mitologico-simbolico indoeuropeo. A titolo di esempio, citiamo la coincidenza simbolica dei tre tesori celesti della famiglia reale degli Sciti con i tre tesori sacri imperiali del Giappone (lo specchio di Amaterasu Yataka no kagami, la spada di Susanowo Ame no Murakumo no Kurugi, e il gioiello ricurvo di Okuninishi Yasakani no Magatama), che, come viene dimostrato dall’interpretazione di Yoshida e Ohayashi, rappresentano rispettivamente le tre funzioni - magico-religiose, guerriere, produttive- del Potere. Nei miti giapponesi la società risulta coerentemente organizzata sulla base dei concetti ideologici simbolizzati dai tre tesori. Infatti il racconto mitico riconosce sin dai primordi una struttura di rapporti che si sviluppano dalla connessione fra i tre strati: i sacerdoti, gli specialisti delle funzioni militari, il popolo comune -composto dai produttori di derrate alimentari, i quali risultano subordinati ai primi due.

 

Nel ciclo di miti riguardanti la discesa dal Cielo dei discendenti della dea Amaterasu, antenata della famiglia imperiale, è presentato l’archetipo mitico della comunità giapponese organizzata sotto l’Augusto Governo Imperiale. Secondo questi miti, nel momento in cui l’Antenato Celeste Ninigi no mikoto scende in veste di sovrano sulla “Terra dalle vigorose spighe di riso” (antonomasia poetica per Giappone), egli è accompagnato da un gruppo di divinità celesti fondatrici dei casati che in epoca storica avranno un importante ruolo nell’esercizio del potere regale. Chiaramente, a questo modello mitico si conforma la struttura sociale data da uno strato dominante aristocratico di ceppo altaico che con a capo il Tennô esercitava il proprio dominio sul territorio dell’arcipelago e sulle popolazioni autoctone di ceppo australe.

 

 

Significato di Dei del Cielo (Tenshin) e Dei della Terra (Chigi)

 

 

Anche il pantheon shintoista riflette l’idea per cui l’assetto sociale viene considerato tripartito in sovrani-sacerdoti, detentori della sovranità, militari e popolo addetto alle mansioni economiche. Sin dalla più remota antichità gli dèi del Giappone erano suddivisi in Divinità del Cielo (in giapp. Ama tsu Kami, in cinese Tenshin) e Divinità della Terra (Kuni tsu Kami in giapp., Chigi in cinese). Appartenenti alla classe degli dèi Celesti menzioniamo Amaterasu, Takamimusubi, Kamimusubi che costituiscono gli dèi sovrani dominanti il mondo dall’alto del Takamagahara. Chiaramente distinte da questi, le altre Divinità del Cielo, detentrici delle armi e in possesso delle arti guerriere, che precedono le divinità sovrane nella loro discesa sulla terra. Pertanto Yoshida conclude che le Divinità Celesti pur formando un unico gruppo, sono distinte da una parte dagli dèi regali e, strettamente legati a questi, da dèi della funzione sacerdotale, oltre che da dèi guerrieri costituenti un diverso ceppo divino. Decisamente contrapposte alle Divinità del Cielo, le divinità note sotto il nome di Dèi della Terra (Kuni tsu Kami), dalla precisa indole comportamentale di “Signori della terra”. Il ruolo principale di queste divinità consiste nel produrre alimenti e ricchezza dalla terra, definita significativamente nei miti Osukuni, cioè “Terra che dà il nutrimento”. Come è noto, i miti nazionali del popolo giapponese sono riportati in massima parte nel Kojiki, testo sacro dello Shintô, e nel Nihongi o Nihonshoki, cronaca storico-mitica scritta in gran parte in cinese. Da una analisi delle strutture narrative di questi testi emerge che sono esplicitamente tre le divinità principali a cui è tributato un carattere divino superiore: Amaterasu, Antenata della stirpe imperiale, sacerdotessa celeste, che possiede la sovranità del Cielo, e che dopo avere sottomesso Okuninushi, riesce ad estendere la sua potestà cosmica fino al mondo degli umani; segue Susanowo, divinità guerriera dal carattere impetuoso e violento; infine Okuninushi, divinità tutelare dei lavori agricoli e della felicità coniugale, che tutt’oggi per queste sue caratteristiche di dio della fecondità, è la divinità che riceve il maggiore favore popolare. Queste tre divinità supreme detengono su scala cosmica rispettivamente la funzione regale-sacerdotale, la forza guerriera e la fecondità. Esse sono l’esatto corrispondente delle divinità sovrane del mondo indoeuropeo descritte nei lavori di Dumézil. Gli oggetti simboleggianti queste funzioni rappresentano tuttora il potere sacro del Tennô. Essi sono, lo ricordiamo ancora una volta: lo specchio di Yata, simbolo della prima funzione, la spada di Amenomurakumo, simbolo della seconda funzione, e il gioiello ricurvo di Yasakani, simbolo della terza funzione. Tutti e tre questi oggetti, secondo le teorie di Yoshida e Ohayashi, derivano direttamente dai simboli del potere dei re Sciti.

 

 

 

Bibliografia indicativa:

 

Ohayashi Taro, Nihon shinwa no kozo (Struttura dei miti giapponesi), Kobundo 1975.

 

Ohayashi Taro, Higashi Ajia no oken shinwa (I miti della sovranità in Asia orientale), Kobundo 1984.

 

Yoshida Atsuhiko, Nihon shinwa to In-o shinwa (I miti del Giappone e i miti indoeuropei), Kobundo 1974.

 

Yoshida Atsuhiko, Nihon shinwa no naritachi (La struttura dei miti del Giappone), Seidosha 1992.

 

Hirafuji Hisako, Kuni-yuzuri ni miru Sankino-taikei (Il sistema delle tre funzioni visto nel mito dell’affidamento del Paese), Rivista dell’Associazione di studi di lingua e lett. nazionali dell’Università Gakushuin 1996.

 

 

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lundi, 29 janvier 2007

Sur la fête de l'aurore

Frédéric VALENTIN:

Sur la fête de l’Aurore

 

 

Il est probable qu'une troisième classe de divinités s’insérait initialement entre celle du ciel diurne et celle du ciel nocturne : les divinités du ciel rouge, auroral et crépusculaire, en particulier les Aurores (1). L'intention d'une fête de l'Aurore a donc une certaine ambiguïté : soit elle vise à encourager l'Aurore contre l'offensive imminente du temps nocturne ; soit à renforcer l'Aurore contre sa propre lassitude.

 

 

Dans la religion cosmique, l'Aurore est l'intermédiaire obligé entre tous les dieux. Aussi, tantôt elle est une actrice énergique qu'il est très difficile de se concilier, surtout lorsque les rencontres qu'elle agence ont un caractère militaire, tantôt elle est l'objet de sévères disputes entre les deux forces qui la convoitent. En fait, l'Aurore est à la fois une déesse fille, mère et épouse des dieux, notamment ceux du ciel diurne.

 

Hiérogamie

 

 

Homère, dans le chant 14 de l'Iliade, narre l'union de Zeus et d'Héra sur le sommet du Gargaros. Schéma mythique : la scène se passe au printemps. Le retour du printemps est symbolisé par l'union amoureuse des deux divinités. Le lieu, la montagne, est essentiel. Il existe par exemple une " montagne de l'année ", le Lycabette dont le nom s'explique par le souvenir d'une liaison entre l'année et la montagne. La « montagne » de l’année est celle où se manifeste le retour du soleil : celle dont sortent les « Aurores de l’année ».

 

 

Le mythe de Vala

 

 

Selon le Veda, un être mythique, Vala, retient prisonnier dans une caverne les éléments de la création. Vala prospère grâce à cette rétention. Il faut qu'il soit assiégé par un Dieu armé de la parole et accompagné d'un chœur (le récit affirme qu'ils sont sept) pour que, fracturé par la parole, il relâche les biens de la création (2).

 

 

La caverne de Vala apparaît comme un enclos qui abrite les forces vitales entre deux cycles. Un tel lieu pourrait être connu par les mythologies de plusieurs peuples indo-européens. En Europe du Nord, les éléments qui permettront une vie nouvelle après la destruction du monde, lors du Ragnarök, sont sauvegardés dans le Gimlé. Puisque Vala symbolise l'hibernation de la Création accompagnée de l'affaiblissement de la nature, Vala fracturé c'est l'assurance du retour de la vie, du printemps. Ce retour est représenté par la délivrance des Aurores, les vaches d'abondance.

 

 

L'Aurore crée une filière

 

 

Selon les linguistes, il devait exister une formule indo-européenne : " Fendre la montagne par la formule pour faire luire la lumière cachée ". A partir de cette formulation, un réseau d'homologies est établi entre : lumière ; éveil ; vitesse vigueur et courage ; victoire. Parallèlement il existe une homologie entre chanter et luire.

 

 

L'Aurore, captive de la nuit silencieuse, est accompagnée de bruissements de la nature lorsqu'elle parait. D'où l'association entre l'apparition de la lumière et le bruissement, la rumeur matinale. Par inversion de l'effet et de la cause, le chant (ou bruissement) a délivré l’Aurore des ténèbres.

 

Selon les hymnes védiques à USAS l'Aurore, celle-ci préside au retour de la lumière solaire. En tant que bonne déesse, l'Aurore prodigue elle même ses dons, tout ce qui permet de subsister et d'être heureux. L'Aurore introduit la lumière en tant qu'éclairante, opposée à l'obscurité. Elle ouvre la succession des rites : elle met en rapport les dieux et leurs fidèles. Mais, simultanément, elle ouvre une longue saison avec un contenu incertain, imprévisible. En éclairant, elle éveille les acteurs de la comédie humaine et elle leur propose leur action. Elle ramène à la vue et à la mémoire les fins et les moyens de l'action de chacun, en sorte qu'elle entretient un rapport avec la déesse romaine Fortuna.

 

 

Rome et Mater Matuta (3)

 

 

Le jour romain commence à minuit et l'année débute après le solstice d'hiver car il existe une "bonne" obscurité, grosse du soleil, transmettant à l'Aurore l'enfant lumineux en train de naître. L'Aurore est considérée comme la mère adoptive du Soleil : elle le recueille. Ici, nuit et aurore ont en commun une œuvre maternelle. Ces “sœurs” sont des mères collaborantes. Soit elles sont les deux mères d'un même enfant, le Soleil (ou le Feu céleste}; soit l'Aurore prend livraison du fils de la nuit et le soigne à son tour (le Soleil étant remplacé, en Inde, par le Feu des offrandes).

 

Le service de la déesse se décompose en deux temps.

 

-          Aux matralia (11 juin), deux actions sont effectuées : Négative, chasser l'obscurité ; positive, recevoir le jeune soleil. Mater Matuta est la protectrice du plus brillant des nouveaux-nés, donc protectrice d'une catégorie de jeunes enfants.

 

-          Deux jours après, les Aurores récalcitrantes ( rôle tenu par des travestis), sont ramenées malgré elles et par ruse, à leur devoir .

 

Ovide signale que le jour des Matralia, les mères offrent des gâteaux en forme de roue, cuits dans un moule, et de couleur jaune. Cela se réfère à la naissance du soleil.

 

 

Conclusion

 

 

L'Aurore est à la fois : la compagne des guerriers (éveil, courage) ; celle des poètes (fendre la montagne par la formule); la porteuse de dons (bienfaits de la lumière opposée aux ténèbres) ; la garante du bon ordre du monde (une fois le souverain nocturne évincé, le jeune Dieu solaire peut naître). Ces multiples aspects sont à intégrer dans la fête de l'Aurore qui demande aussi que l'on choisisse entre la "montagne de l'aurore", ou la "fracture de la caverne" comme rite inaugural.

 

 

Frédéric VALENTIN.

 

 

(1) Jean HAUDRY : La religion cosmique des Indo-Européens. Arché,

 

Les Belles Lettres, 1987.

 

(2) Patrick MOISSON : Les dieux magiciens dans le Rig-Veda. Archè-Edidit. 1993, p.36 et suivantes.

 

(3) Georges DUMEZIL : Mythe et Epopée, III, 2°partie : la saison de l'Aurore. Gallimard, 1990.

 

 

 

 

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Culte et mythe de la déesse-mère

Detlev BAUMANN:

Culte et mythe de la déesse-mère

 

Analyse: Manfred Kurt EHMER, Göttin Erde. Kult und Mythos der Mutter Erde. Ein Beitrag zur Ökosophie der Zukunft, Verlag Clemens Zerling, Berlin, 1994, 119 p. (format: 20 cm x 20 cm), nombreuses illustrations, DM 36, ISBN 3-88468-058-7 (l'ouvrage comprend un glossaire mythologique et une bonne bibliographie).

 

 

L'écologie philosophique constitue une lame de fond en Allemagne depuis longtemps et renoue, c'est bien connu, avec le filon romantique et son culte de la nature, bien capillarisé dans la société allemande. Aujourd'hui, la sagesse qui découle de ce culte de la nature ne se contente plus de déclarations de principe écologistes un peu oiseuses et politiciennes, mais se branche sur la mythologie de la Terre-Mère et entend développer, pour le siècle à venir, une “écosophie”, une sagesse dérivée de l'environnement, de l'écosystème, capable de mettre un terme au progressisme moderne qui clopine de catastrophe en catastrophe: pollutions insupportables, mégapoles infernales, produits agricoles frelatés, névroses dues au stress, etc. M. K. Ehmer nous offre dans ce volume, abondamment illustré, une rétrospective solidement étayée des cultes que l'Europe a voués depuis des temps immémoriaux à la Terre-Mère et à ses multiples avatars. La déesse Gaïa est dans l'optique de tous ces cultes successifs dans l'histoire européenne, à la fois un être vivant, le symbole archétypal de la féminité/fécondité et l'objet des cultes à mystères de l'Europe et de l'Inde. Les sites préhistoriques et protohistoriques de Hal Tarxien à Malte, de Carnac en Bretagne, de Stonehenge et d'Avebury en Angleterre l'attestent. Pour Ehmer, ces lieux de culte doivent être considérés comme les réceptacles géomantiques de forces numineuses et fécondantes que la tradition chinoise appelle les forces chi  et que le Baron von Reichenbach (1788-1869), à la suite de 13.000 expériences empiriques, nomme “forces Od”.  La Terre-Mère, dans ces cultes, est fécondée par l'astre solaire, dont la puissance se manifeste pleinement au jour du solstice d'été: la religion originelle d'Europe n'a donc jamais cessé de célébrer l'hiérogamie du ciel et de la terre, de l'ouranique et du tellurique. L'Atharva-Veda indien est la trace écrite de cet hymne éternel que l'humanité européenne et indienne a chanté en l'honneur de la Terre-Mère, explique Ehmer. Ensuite, il relie l'idéal chevaleresque des kshatriyas indiens et le culte du dieu du Tonnerre Indra à la mystique du calice contenant le nectar Soma, source tellurique de toute vie et breuvage revigorant pour les serviteurs spirituels ou guerriers de la lumière ouranienne. Des kshatriyas indiens aux chevaliers perses et de ceux-ci aux cavaliers goths, cette mystique du Soma est passée, immédiatement après le début des croisades, dans l'idéal chevaleresque européen-germanique, sous la forme du Graal et dans le culte de Saint-Michel (qui ne serait qu'un avatar des dieux indo-européens du Tonnerre, tueurs de dragons, dont Indra en Inde ou Perkunas chez les Baltes et les Slaves). Pour Ehmer, le Graal est un calice contenant un breuvage surnaturel qui donne des forces à l'homme-guerrier initié, tout en échappant, par l'abondante plénitude qu'il confère aux compagnons du Graal, à l'entendement humain trop humain.

 

 

En Grèce, le culte de Gaïa/Demeter/Perséphone a été bien présent et s'est juxtaposé puis mêlé pendant l'Empire romain au culte latin-italique de la Terra Mater, aux mystères d'Attis et de Kybele (originaires d'Asie Mineure) et au culte d'Isis, déesse de la Terre et Reine du Ciel (dont les avatars se mêlent en Germanie, le long du limes  rhénan et danubien, à des figures féminines locales, notamment à cette jeune fille audacieuse descendant les rivières, debout sur un bloc de glace, sur lequel elle a dressé un mât porteur d'une voile, pour s'élancer, disent certaines légendes, vers l'Egypte; cf. Jurgis Baltrusaitis, La Quête d'Isis, Champs-Flammarion, 1997). A cette Isis nordique qui part seule à l'aventure pour l'Egypte, correspondent des Isis sur barque ou sur nef, dont celle de Paris, l'Isis Pharia, honorée à Lutèce pendant la tentative de restauration de Julien (d'où la nef des armoiries de Paris). Ou cette superbe Isis en ivoire alexandrin, sculptée sur la chaire de la cathédrale d'Aix-la-Chapelle. Isis a connu un très grand nombre d'avantars en terre germanique où, souvent, elle n'a même pas été christianisée (voir les nombreux “Isenberge”, ou “Monts-d'Isis”). L'humaniste suédois Olav Rudbeck (1630-1702), exposant d'une origine hyperboréenne des civilisations, déduit dans sa mythographie parue en 1680, qu'Isis-Io est fille de Jonatör, un roi “commérien”, régnant sur un peuple du nord noyé dans les ténèbres d'une lointaine “Hyperborée”. Isis-Io, fille aventureuse, descend vers l'Egypte et le Nil en traversant les plaines scythes en compagnie de Borée (est-il un avatar de ce “jeune homme” couronné de feuilles, debout sur une barque à proue animalière, que l'on retrouve dans les plus anciennes gravures rupestres de Scandinavie et dans le mythe de Lohengrin?). Rudbeck avançait des preuves archéologiques: l'Isis lapone sort des neiges, porte plusieurs paires de mamelles (elle est une “multimammia”); son culte se retrouve à Ephèse et en Egypte. L'élément glace se retrouve même dans la proximité phonique entre “Isis” et “Iis” (“glace” en gothique) ou “Eis” (“glace” en allemand). Baltrusaitis écrit: «La cosmogonie hyperboréenne est aquatique par excellence. La terre, la vie procède de l'eau. Or l'eau provient de la glace, première substance solide de l'univers».

 

 

Les cultes grecs de la Terre-Mère trouvent leur pendant en Europe centrale et septentrionale dans le culte germanique de Nerthus, dans le culte celtique de Brighid, mère du monde et gardienne de la Terre, et dans la figure d'Ilmatar, le mère originelle de l'épopée du Kalevala. Ensuite dans la tradition chinoise du Feng-Shui, qui est celle de la géomantie, du culte du genius loci, pour laquelle il fallait donner forme à l'habitat des vivants pour qu'il coopère et s'harmonise avec les courants traversant son lieu. Car, cite Ehmer, «chaque lieu possède ses spécificités topographiques qui modifient l'influence locale des forces chi».  Ehmer débouche ainsi sur une application bien pratique et concrète du culte de la Terre-Mère, des sites sacrés ou du simple respect du site pour ce qu'il est: un urbanisme qui donne aux bâtiments la hauteur et la forme que dicte le topos, qui oriente les rues et les places selon sa spécificité propre et non d'après l'arbitraire du constructeur moderne et irrévérencieux, qui exploite la Terre sans vergogne. Après la disposition géomantique exemplaire de la Cathédrale de Chartres, la modernité occidentale a oublié et oublie encore ce Feng-Shui, qui n'a même plus de nom dans les langues européennes, malgré les recommandations d'un architecte britannique, Alfred Watkins (1855-1935), qui a redécouvert les lignes de forces telluriques, qu'il appelait les ley lines.

 

 

Pour Ehmer, le judéo-christianisme et la modernité prométhéenne sont responsables du “désenchantement” du monde. Mais son plaidoyer pour un retour à la géomantie et à l'écosophie ne s'accompagne pas d'une condamnation sans appel de tout ce qui a été dit et pensé depuis la Renaissance, comme le veulent certains pseudo-traditionalistes hargneux et parisiens, se proclamant guénoniens ou évoliens ou, plus récemment, “métaphycisiens de café” (mais qui ont mal digéré leur lecture d'Evola ou l'ont ingurgitée sans un minimum de culture classique!). Ehmer rappelle la cosmologie ésotérique de Léonard de Vinci, avec l'idée d'une “âme végétative”, où l'adjectif “végétatif” n'est nullement péjoratif mais indique la vitalité inépuisable du végétal et de la nature, et aussi l'idée d'une Terre comme “être vivant organique”. Ehmer rappelle également l'“harmonie” de Jean Kepler, avec l'idée d'un “soi planétaire de la Terre”, puis, la pensée organique de Goethe.

 

 

C'est donc sur base d'une connaissance profonde des mythologies relatives à la Terre-Mère et sur une revalorisation des filons positifs de la Renaissance à Goethe, sur une approche nouvelle de Bachofen et de Jung, qu'Ehmer propose une “nouvelle conscience gaïenne”. Celle-ci doit mobiliser les ressources de la sophia, pour qui l'esprit n'est pas l'ennemi de la vie, mais au contraire la vie elle-même; un tel “esprit” ne se perd pas dans la sèche abstraction mais reste ancré dans les saveurs, les odeurs et les grouillements de la Terre. C'est l'abandon de cette sophia  qui a fait le malheur de l'Europe. C'est le retour à cette sophia  qui la restaurera dans sa plénitude. (Detlev BAUMANN).

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jeudi, 25 janvier 2007

Mystères pontiques, spiritualité celtique

Université d'été de "SYNERGIES EUROPEENNES", Trente, 1998, et des "OISEAUX MIGRATEURS", Normandie, 1998

Robert STEUCKERS :

Mystères pontiques et panthéisme celtique à la source de la spiritualité européenne

Analyse: Markus OSTERRIEDER, Sonnenkreuz und Lebensbaum. Irland, der Schwarzmeer-Raum und die Christianisierung der europäischer Mitte, Urachhaus, Stuttgart, 1995, 368 p., DM 68, ISBN 3-8251-7031-4.

 

Au IXième siècle, les missions irlando-écossaises, porteuses d’une vision panthéiste, et les missions inspirées par les héritages helléno-persans et byzantins de Cyrille et de Méthode se rencontrent au centre de l’Europe. Peu dogmatiques, ces courants qui n’ont finalement de “chrétien” que le nom, auraient parfaitement pu fusionner et donner à l’Europe une spiritualité plus conforme à ses aspirations profondes. Le moyen-âge post-mérovingien avait en effet été marqué par une imprégnation religieuse d’origine irlandaise, où, sans heurts, le passé druidique et panthéiste avait accepté en surface un christianisme non autoritaire, mêlant sans acrimonie deux traditions aux origines très différentes. Avec une politique systématique d’immixion dans les affaires religieuses des peuples européens, avec la théologie augustinienne et les armées des Carolingiens, la Papauté, autoritaire et césarienne, éradiquera tant les acquis de la chrétienté irlando-écossaise que les paganismes résiduaires de Frise et de Saxe et que les fondations de Cyrille et de Méthode en dehors de la sphère byzantine (en Pannonie et en Moravie).

 

Comment s’est déroulée cette confrontation? Quels en sont les enjeux théologiques?

 

Pour Markus Osterrieder, l’histoire religieuse de l’Europe commence à la protohistoire par une transition entre le système matriarcal et le système patriarcal. Il l’explique par un retour brutal vers le centre de l’Europe de peuples cavaliers, partis à la conquête des steppes. La vie nomade dans les steppes implique une hiérarchisation patriarcale. De l’Ukraine aux Iles Britanniques, l’adstrat patriarcal va dès lors se superposer au passé matriarcal. La tragédie d’Oreste dans la Grèce antique témoigne du passage aux panthéons patriarcaux, avec l’intervention d’Apollon et de Pallas Athena, déesse masculinisée, en faveur d’Oreste, matricide malgré lui, transgresseur de la loi matriarcale.

 

Les Druides, formateurs de la jeunesse

 

Deuxième étape dans l’évolution religieuse de l’Europe d’après Osterrieder: l’impact celtique de la Culture de La Tène. Cet impact n’est pas politique, comme le sera plus tard l’impact romain. Il est spirituel et porté par une caste de prêtres, les Druides. Ceux-ci en­tre­tenaient entre eux des relations étroites et suivies et assuraient une formation orale très poussée, réclamant parfois vingt années d’étu­des. Le Druide avait également fonction de former la jeunesse, ce qu’aucune autre culture européenne préhistorique et proto-historique n’a été en mesure d’assurer aussi systématiquement: ni en Grèce, ni à Rome, ni en Germanie.

 

L’enseignement druidique pour Osterrieder était tourné vers le mon­de extérieur, vers ce que les Indiens appellent le «Grand Cosmos» et non pas vers la méditation intérieure et l’ascèse. Les druides avaient des connaissances astronomiques (héritées sans doute de la civilisation mégalithique) et étudiaient les rythmes et les choses de la nature.

 

Pour cette approche celtique, druidique, puis chrétienne selon la tra­dition irlando-écossaise, toutes les choses de ce monde sont en mou­vement perpétuel, y compris le monde des dieux. Pour les Cel­tes, le mouvement est la force créatrice active qui compénètre tout l’univers, qui transforme et rénove toutes choses. L’essence de l’u­ni­vers est un mouvement cosmogonique. Les dieux sont des fleuves, pro­venant d’une source, mais non pas la source elle-même. Ce dynamisme interdit aux Celtes d’enfermer les dieux dans l’enveloppe d’une statue. Diodore de Sicile nous rappelle le rire de Brennus, le chef celte victorieux, qui entre à Delphes et voit les statues des dieux helléniques. Pour lui, comme pour ses congé­nères, les dieux comme les hommes ne sont jamais achevés, fermés sur eux-mêmes, mais des êtres en devenir permanent, en évolution con­stante. Il était dès lors incongru de les statufier. L’idée de dieux éternellement pareils à eux-mêmes, l’idée d’un cosmos statique, leur étaient étrangères. Cette vision dynamique se répercute sur la morale: celle-ci ne saurait être codée sur un bien et un mal définis une fois pour toutes, mais elle découle toujours de faits de vie particuliers, qui ont leurs lois propres, soumises à un devenir unique et à des mutations, également particulières.

 

Padraig, l’apôtre de l’Irlande

 

En Hibernie (= Irlande), où les aigles de Rome n’ont jamais été plantées, cette vision dynamique de l’univers, calme et sereine, acceptante de tous les faits de monde et de leur logique intérieure, est demeurée intacte. Elle fusionnera avec un christianisme qui y sera importé sans l’intervention de la Papauté romaine. Un chroniqueur gallois, Gildas, affirme même dans une chronique de 1126 que les premiers chrétiens irlandais sont apparus dès la fin du règne de Tibère, c’est-à-dire immédiatement après la mort du Christ. En général, pourtant, la conversion de l’Irlande est attribuée à Patrick (Patraic) (395-459). Mais l’”apôtre des Irlandais” n’aurait pas agi sous l’injonction d’un Pape. Parti d’Irlande à l’âge de 16 ans, enlevé par des pirates, il se serait retrouvé à Auxerre, où il serait entré en contact avec des moines issus du cloître johannite de l’Ile de Lérins (Lerinum), qu’il aurait également visitée. Rien ne prouve une intronisation officielle et canonique de Patrick: au contraire, un texte qu’on lui attribue, rapporte quelques-unes de ses paroles. Il dit: «Moi, Patrick, pécheur, très inculte, je me nomme moi-même évêque. Je suis sûr que ce que je suis, je l’ai reçu de Dieu». Autre indice du caractère personnel de son initiative de convertir l’Irlande: les chroniques ecclésiastiques officielles ne mentionnent pas son nom, comme s’il fallait l’”oublier” (Prospère, Constance, Bède ou Gildas). La tra­dition populaire, pourtant, a gardé son souvenir très vivant, même dans la diaspora irlandaise aux Etats-Unis. Ensuite, disent les sources, Patrick, seul, de sa propre initiative, aurait “nommé” 450 évê­ques irlandais, exactement comme un Druide aurait eu 450 étudiants... 

En Irlande : la christianisation n’est pas une rupture traumatique

Palladius sera le premier évêque envoyé par Rome en 431 en Irlande, avec pour mission d’éradiquer là-bas la doctrine de Pélasge (Pelagius). Les adeptes de Palladius, c’est-à-dire les adeptes des canons romains, restent très minoritaires et n’exercent aucune influence. Pendant ce temps, le passage du druidisme au monachisme chrétien-irlandais s’opère sans violence ni martyrs. Druides, vates et autres prêtres celtiques deviennent moines et frères chrétiens. Ils se spécialisent dans la rédaction et le recopiage intense de textes, recensant avec bienveillance toutes les coutumes de leurs ancêtres et les mêlant à l’adstrat chrétien. Indice de cette transition dans la douceur: on constate que bon nombre de chrétiens irlandais sont issus de clans comptant dans leurs lignées beaucoup de druides. Le passage au christianisme n’est pas vu comme une rupture traumatisante par les Irlandais, mais comme une simple transformation dans le processus ininterrompu de transformations qui œuvre dans le monde.

 

Pelage (384-422), dans son œuvre philosophique et théologique, insistait essentiellement sur la “voie individuelle” que devaient emprunter l’homme et le croyant dans sa quête spirituelle. Pour Pélage, l’institution cléricale a moins d’importance. L’idée d’une voie individuelle s’opposait clairement à la doctrine de la prédestination d’Augustin, Père de l’Eglise, ainsi qu’à l’idée d’une nature foncièrement pécheresse de l’homme. A partir de 416, le pelagisme est condamné comme l’hérésie la plus grave dans l’écoumène chrétien. L’hostilité future de Rome à la version irlando-écossaise de la chrétienté s’explique par la proximité entre le pelagisme et la chrétienté celtique, héritière des mystères et des enseignements druidiques. Cette hostilité ira crescendo. Sur le plan intellectuel, un autre philosophe irlandais Jean Scot Erigène (mort en 880), qui enseignait à Laon dans la cour de Charles le Chauve, reprenait le combat celtique pour la “libre volonté”, revivifiant le filon pélagien, étouffé par l’augustinisme romain. Dans son œuvre De praedestinatione,  il rappelait, très logiquement, que si l’homme avait été créé à l’image de Dieu, comme le proclament les écritures, il ne pouvait en aucune façon être privé de l’attribut divin de la liberté. Dès lors, l’homme avait un rôle central à jouer dans le processus de rédemption au sein de la création, car l’homme est capable, après une ascèse spirituelle, d’arraisonner le monde par sa pensée et par sa volonté. Il est l’officina totius creaturae, “l’atelier de toute la création”.  En 1225, le Pape Honoré III ordonne de brûler tous les textes de Jean Scot Erigène. Le filon partant de Pelage pour aboutir à Scot Erigène conteste la nature pécheresse de l’homme et la prédestination et, partant, la pratique de lui imposer de force des doctrines. Pour le pélagisme, il faut convaincre par la parole et par l’action, par la douceur et par l’exemple, en déployant des forces inscrites dans l’intériorité même de l’homme.

 

La lutte contre le schisme irlandais   

Dans ce double contexte d’une chrétienté druidique et du pélagisme, le maître spirituel irlandais Columcille demande que soient construits des sites permanents pour accueillir les moines et les lettrés. L’église irlandaise s’enracine donc dans le monachisme, dans un réseau d’ermites savants prodiguant leur enseignement en toute liberté. L’Ir­lande, au haut moyen-âge, se couvre ainsi d’un tissu de communautés monacales autonomes, de fraternités de prière (oentu, cotach), de familles monastiques dirigées par un pater ou une mater spiritualis. Ces communautés s’administrent elles-mêmes sans intervention extérieure. Le principal centre spirituel de l’église irlando-écossaise est l’île d’I ou d’Hy (Iona). Cette autonomie et ce principe harmonieux d’autonomie déplaisent à Rome, qui n’hésite pas à armer des “païens” anglo-saxons pour détruire, à partir de 450, la “secte irlandaise” (Scottorum secta). En 556, le Cardinal Baronius dénonce les “schismatiques irlandais”. Pour faire pièce à cette idée d’autonomie et pour établir le principe hiérarchique romain, la Papauté fonde l’archevêché de Canterbury en 596, appelé à contrer la diffusion du “schisme irlandais”, puis à le refouler. Lors du Synode de Whitby en 664, les “Romains” parviennent à avancer dangereusement leurs pions et à consolider fortement leurs positions dans les Iles Britanniques. En 1155, le Pape Hadrien IV parachèvera le travail, en bénissant les armées de Henri II Plantagenet parties à la conquête de l’Irlande. Rome annihilait ainsi un monachisme autonome, qui défiait son autorité à l’Ouest, en instrumentalisant un expansionnisme profane et sans scrupules. Les guerres irlandaises ne sont pas terminées, comme nous le montre l’actualité.

 

Ce souci d’éliminer à l’Ouest le “schismatisme irlandais” allait de pair avec la volonté de contenir la religiosité slave, également de forte facture monastique. Cette religiosité connaissaient pour l’essentiel deux formes de monachisme: les koinobites, soit les communautés monacales structurées, et les skites, soit les ermites indépendants, disséminés sur tout le territoire slave. Les skites ne subiront le courroux de l’église russe-orthodoxe qu’à partir des 15ième et 16ième siècles sous Iossif de Volokolamsk. Ce prince moscovite détruit le skitisme libertaire, mais n’y parvient pas entièrement: le peuple continue à se choisir des prêtres indépendants, les starets. Le monachisme slave vient du Proche-Orient, via Byzance et le Mont Athos, via les cloîtres-cavernes de Crimée et de Kiev. Un autre filon monachiste partait également du Proche-Orient pour aboutir à l’Irlande, via l’Afrique du Nord pré-islamique (Alexandrie, Carthage), l’Espagne (Séville, Braga, Lugo), la Gaule méridionale (Lérins, Marseille, Narbonne, Toulouse). La communauté de l’Ile du Lérins commence à fonctionner dès 375. Martin de Tours (325-397) fonde des communautés de moines dans toute la Gaule occidentale. Dans les Iles Britanniques, la première communauté monacale date de 397: c’est le cloître de Ninian à Whithorn en Ecosse occidentale. De là, le monachisme s’implantera en Irlande, pour connaître une étonnante destinée et un rayonnement extraordinaire. Bon nombre de découvertes archéologiques attestent des liens unissant les communautés monacales britanniques aux communautés du Proche-Orient. Les chroniques mentionnent la visite d’Irlandais en Egypte et d’Egyptiens en Irlande, qui n’était pas, à l’époque, une île isolée sur la frange atlantique de l’Europe. 

 

En Gaule franque toutefois, le monachisme de Martin de Tours et les ermites rencontrent une forte résistance de la part des évêques nommés par Rome, qui sentent que ce mouvement échappe totalement à leur contrôle. En 540, Benoît de Nursie exige la codification contraignante de règles monachiques strictes, prélude à la mise au pas de toutes les initiatives autonomes, qu’elles soient communautaires ou individuelles.

 

La “peregrinatio” des disciples de Colomban

 

En 590, Colomban (543-615), moine irlandais, débarque sur le continent avec douze disciples. C’est le début de la longue peregrinatio des moines irlandais en Europe du Nord-Ouest. Pour Osterrieder, ce retour amorce une reconquête pacifique et spirituelle de l’ancien espace celtique continental. Les zones, où l’impact des disciples et successeurs de Colomban a été le plus profond et le plus durable, sont la Gaule du Nord et de l’Ouest, l’Alsace et la Lorraine, la Flandre, la Rhénanie, l’Alémanie, la Souabe, la partie de la Franconie baignée par le Main, la Bavière et la Lombardie, soit autant de régions ou l’im­prégnation celtique avait été prépondérante avant l’envol de Rome et l’arrivée des Germains.  L’œuvre de Colomban est impressionnante, mais elle n’in­timide pas les hiérarchies ecclésiastiques dans leur volonté de barrer la route à l’irlando-scotisme. Sa règle, énoncée à Luxeuil en Franche-Comté, se répand dans toute la zone organisée par les Irlandais. La régente Brunehilde et les évêques gaulois servent d’instruments pour détruire l’œuvre de Colomban. En 610, il est arrêté, on veut le renvoyer en Irlande, mais il s’échappe et se réfugie chez le roi Theudebert à Metz, qui le protège et l’envoie sur les rives du Lac de Constance, pour qu’il poursuive son œuvre plus à l’Est en direction de la Bavière et de la Slovénie, aux frontières du monde slave. Colomban meurt en 615 en Lombardie dans le cloître de Bobbio, qu’il venait de fonder.

 

La formation dont bénéficiaient les moines irlandais, héritiers des druides, était nécessaire au pouvoir politique et au savoir en général, mais fragilisait et relativisait ipso facto la position de Rome, comme seule détentrice de la “vérité révélée”, ce qui est inacceptable pour la Papauté, non pas en tant qu’instance spirituelle mais en tant que pouvoir temporel. Exemple: le moine irlandais Dicuil est le principal astronome d’Europe et le premier rédacteur d’un traité de géographie en 825; il répand un savoir utile et pratique à l’exercice profane du pouvoir, mais porte ombrage à la rhétorique manipulatrice qui se dissimule derrière la “foi”. L’évêque irlandais de Salzbourg, Virgil (Fergil), sait que la terre est ronde. Ce qui le fera accuser d’hérésie, 800 ans avant Galilée.

 

L’idée de “quête”

 

Le conflit opposant l’Irlande à Rome est le conflit entre la tradition “pétrinienne” (et augustinienne) et la tradition johannite (fusionnée avec le druidisme christianisé, via la communauté de l’Ile du Lérins et l’œuvre de Patrick). Le filon druidique-celtique-irlandais-johannite-monachique repose sur l’idée de “quête”, impliquant un grand courage personnel, une présence d’esprit constante, l’esprit de décision, l’action et la voie personnelles, la responsabilité individuelle. Ce qui est essentiel dans cette vision, c’est le “dépassement héroïque de soi”. Ce qui exclut toute voie strictement intellectuelle, toute spéculation en vase clos, à l’abri des tumultes du monde. L’action, la “quête” se déroule dans le monde. Valeur essentielle en Europe... que Tertullien (155-222) avait dénoncée dans sa théologie. Tertullien interprète à sa façon la parole du Christ (“Cherchez et vous trouverez; frappez à la porte et on vous ouvrira”). Pour Tertullien, l’homme doit chercher et trouver l’Eglise, la vraie foi et puis arrêter sa quête. Pour le reste, Tertullien lance une malédiction contre “l’homme qui cherche où il ne doit pas chercher, qui cherche où il n’y a rien à trouver” et contre “l’homme qui ne cesse de frapper à la porte et auquel nous n’ouvrirons jamais”. C’est la condamnation théologienne la plus nette de toute quête intellectuelle personnelle et autonome. L’église irlandaise, elle, avait interprété la parole du Christ dans un sens ouvert, éducatif, prospectif.

 

Boniface contre l’œuvre de Colomban  

 

Par la conquête progressive de la Germanie par les communautés monacales de référence irlandaise, la tradition césarienne de la Rome décadente, post-républicaine (qui est un autre modèle fondateur de la culture européenne) se trouve fortement ébranlée. Rome doit répondre pour survivre. L’instrument de sa riposte sera le prêtre anglais  Boniface (Wynfreth, Winfrid), formé à Canterbury, bastion de Rome dans les Iles Britanniques, sous la houlette d’Aldhelmus, Abbé de Malmesbury et évêque de Sherbourne, mort en 709. En 718, Boniface quitte l’Angleterre, se rend à Rome où il rencontre le Pape Grégoire II qui lui donne ses ordres de mission: reconquérir la Germanie avec l’aide des princes francs. Boniface devait instaurer en Germanie une église fortement charpentée et structurée, ne laissant rien au libre arbitre des croyants, et éradiquer le travail des missions irlando-écossaises, en même temps que les résidus de paganisme. Ensuite, il devait imposer des prêtres ordonnés selon le rite romain et évincer, si possible, tous les autres. Boniface assumera sa mission en Thuringe et en Bavière. En 742, lors du Concilium Germaniae, Boniface, désormais chef de l’église d’Austrasie avec l’appui du roi franc Carloman, annonce qu’il va rétablir la loi de Dieu et de l’église et protéger le peuple chrétien de l’influence des “faux prêtres”. Ses pérégrinations le mèneront à fonder les principaux évêchés allemands. Il deviendra lui-même archevêque de Mayence, avant d’être tué en 754 par des Frisons, qui entendaient fermement rester fidèles aux traditions de leurs ancêtres.

 

Après la mort de Boniface, la Bavière devient le centre de l’oppo­sition anti-carolingienne, sous l’impulsion du Duc Odilon (736 ou 737-748). Toutes les marches de l’Empire donnent asile aux contestataires (Aquitaine, Saxe, Alémanie, Bavière et peuples slaves). Le successeur d’Odilon, le Duc Tassilo III (748-788/794), poursuit la politique de son père. Le centre spirituel de cette opposition est Salz­bourg, d’où partent des missions irlandaises vers les pays slaves. L’é­vêque de Salzbourg est un Irlandais, Virgil ou Fergil (710-784), formé à Iona. Très tôt, la Papauté et le pouvoir carolingien tonnent contre l’”hérésie salzbourgeoise, parce que Virgil, bon astronome et géographe, défend la “doctrine des antipodes”, impliquant la sphéricité de la Terre, dont le Pape apprend l’existence avec une horreur qu’il communique dans une lettre à Boniface, la qualifiant de doctrina perversa. Après la mort de Virgil, son successeur, désigné par Rome, fait construire un mur sur sa tombe, pour qu’on l’”oublie”, pour qu’aucune ferveur populaire ne puisse perpétuer son souvenir, en organisant des pélérinages sur sa sépulture. Dès 798, les ouvrages de Virgil sont retirés de la bibliothèque de Salzbourg.

 

La hargne à l’encontre de l’”hérésie salzbourgeoise” s’explique pour des raisons géopolitiques. Envoyant sans cesse des missions en pays slave, Virgil était tout simplement en train de souder les deux parties de l’Europe, vivifiées par un monachisme spirituel et fécond, et d’isoler Rome. La réaction carolingienne ne tardera pas: la Karantanie (Carinthie et Slovénie) et la Pannonie (Hongrie) ne seront pas évangélisées par la douceur mais par l’épée et la coercition, après que les princes karantaniens et panonniens aient appelé l’empereur franc, protecteur de la Papauté, à l’aide contre les Avars. Les Francs et la Papauté installent un barrage non seulement contre les incursions des peuples de la steppe mais aussi contre les missions de Cyrille et de Méthode, contre l’influence grecque-byzantine, puis, nous le verrons, contre le complexe spirituel pontique, influencé par l’Iran.

 

Les missions slaves de Bregenz

 

Si les moines celtiques et les missionnaires byzantins véhiculaient un monachisme autonome, échappant à toute tutelle de type romain-pétrinien, la steppe véhiculait, elle aussi, une religiosité incompatible avec le césaro-papisme. C’est dans l’espace régi par cette religiosité rétive aux dogmes limitants issus de Tertullien et d’Augustin, que vont se déployer les missions en pays slave, à partir de Salzbourg. En 612 déjà, Colomban décide de lancer des missions chez les Slaves, au départ de Bregenz (Brigantia). Le problème pratique ma­jeur de ces missions, c’était que les Slaves, qui n’avaient jamais connu la domination romaine, ignoraient le latin et le grec. La langue vernaculaire s’imposait. La Karantanie (Carinthie + Slovénie actuelles) était sous la menace des nomades de la steppe, et, pour s’a­ligner sur l’Europe christianisée, seule capable de la défendre, elle de­vait adopter rapidement le christianisme, ce qui n’était possible que par des missions en langue slave.

 

En Moravie, plaque tournante géopolitique en Europe centrale, les princes optent également pour le christianisme, que leur apportent les missionnaires de Passau, d’obédience franque et romaine. Si les voies fluviales de la Bohème mènent, via l’Elbe, à la Mer du Nord, les voies fluviales de la Moravie mènent au Danube et à la Mer Noire. La Moravie a donc été le point de rencontre entre la religion légalitaire romaine-franque, la spiritualité irlando-celtique et les courants divers venus de la zone pontique, en remontant le Danube, voie fluviale du centre de l’Europe.

Konstantin-Kyrillos

 

A cette triple influence, s’ajoutera, deux siècles après Colomban, celle de Konstantin-Kyrillos, né en 826 à Salonique, d’une mère macédonienne ou bulgare, qui s’exprimait en langue slave. Par le lait de sa mère, Konstantin-Kyrillos apprend à parler slave et constate, adulte, qu’il y a peu de différences, à l’époque, entre les divers idiomes de ce groupe linguistique. Kyrillos forge une langue et un alphabet “glagolitiques” (que l’on utilise parfois encore en Croatie) qui correspond parfaitement à la phonétique particulière des langues slaves. Précisons qu’il ne s’agit pas de l’actuel alphabet “cyrillique”, utilisé par les Ukrainiens, les Biélorusses, les Russes, les Serbes et les Bulgares: cet alphabet est grosso modo un alphabet grec, auquel on a ajouté quelques lettres, exprimant des consonnes ou des voyelles spécifiquement slaves.

 

Le christianisme de Kyrillos s’étoffe d’un triple apport philosophique et théologique, écrit Osterrieder. Il repose:

 

a) Sur un culte de la “sophia”, une sagesse personifiée sous les traits d’une belle jeune femme dans le culte orthodoxe de Sainte-Sophie (Haghia Sophia).

 

b) Sur une “gnose”.

 

c) Sur une interprétation du mystère de la Pentecôte, où, après réception de la grâce, le croyant voit son individualité renforcée et acquiert force et liberté.

 

Le séjour de Kyrillos en Crimée

 

Cette synthèse originale, Kyrillos l’a forgée au cours de ses multiples pérégrinations. Diplomate au service de Byzance, il est envoyé en ambassadeur chez les Khazars pour négocier leur alliance contre l’Islam qui risque de contourner le territoire byzantin par le Nord en empruntant, en sens contraire, le chemin des Scythes. Kyrillos séjourne en Crimée: il y visite les communautés grecques et les monastères troglodytes, où sont conservés quantité de manuscrits. A cette époque, la Crimée reçoit une double influence: celle du Nord varègue-scandinave et celle de l’Iran, via la Géorgie et les peuples de cavaliers de la steppe. La Crimée fait ainsi la synthèse entre les influences varègues venues par les grands fleuves russes, byzantines venues par la Mer Noire et irano-scythes venues par l’intermédiaire des peuples cavaliers. La sphère pontique, pour Osterrieder, est le site d’une formidable synthèse d’éléments divers et est le produit d’une alchimie ethnogénétique particulière, où l’Iran apporte son mazdéisme et son zoroastrisme, le continent euro-sibérien le chamanisme des peuples finnois et centre-asiatiques et la religiosité autochtone, un culte de la Terre-Mère.

 

Osterrieder nous signale que le culte de la Magna Mater, représenté par une mère allaitant son enfant nouveau-né, était très présent dans ce territoire de l’Ukraine et de la Crimée. Ce culte est passé dans les cultes mariaux du christianisme et a fusionné en terre russe avec le culte nordique-païen de la déesse Nerthus. Dans la tradition orthodoxe russe, Saint-Dimitri (= “Celui qui est né de Déméter”) est le saint patron des Slaves.

 

Mystères pontiques et traditions militaires

 

Pour Osterrieder, les résidus du culte de Mithra se retrouvent dans celui, christianisé, de Saint-Georges. Dans les pays slaves, Georges a hérité des attributions de Mithra. Il est en effet le protecteur de la Communauté (mir)  et le garant de la paix (également “mir”).  Toute communauté doit vivre en paix sous la protection de Saint-Georges, avatar de Mithra ou héritier de bon nombre de ses attributions. Saint-Georges est le protecteur de la pravda, de la juste voie qui assure la paix et l’harmonie. Il est particulièrement vénéré par les communautés paysannes.

 

Les “mystères pontiques” sont les dépositaires de traditions militaires et chevaleresques, dont les éléments orientaux sont:

 

a) la formation que reçoivent les kschatriyas indiens, rassemblés dans un ordre guerrier à dimensions initiatiques.

 

b) Les traditions des cavaliers persans, dont les techniques innovan­tes ont été particulièrement appréciées des Romains, notamment celle qui consistait à carapaçonner les hommes et les chevaux. Les Romains recrutaient pour leur propre cavalerie des “cataphractaires” sarmates, cavaliers en armure.

 

c) Ces traditions issues des Scythes ont transitées par l’Arménie et la Géorgie où elles ont été empruntées par les Celtes et les Goths.

 

Ces traditions de chevalerie scythes et persanes ont eu un impact direct sur la chevalerie médiévale européenne. Celle-ci dérive évidemment d’autres sources occidentales:

Première source: les rites et l’esprit de l’accession du jeune Germain au statut de guerrier. Le jeune homme reçoit solennellement un bouclier, une framée et, plus tard, sous l’influence de Rome, une épée. L’épée a d’abord été plus symbolique qu’utile; à elle s’est attachée une dimension sacrée.

 

“Equites” romains et “hippeis” grecs

 

Deuxième source: les equites  romains ne représentaient au départ qu’une fonction sociale, impliquant des droits d’ordre censitaire et indiquant la fortune. Cette fonction sociale et militaire s’est renforcée par l’acquisition d’un certain nombre de techniques et par l’influence des Celtes et des Goths, qui apportent dans les légions les armures, les selles et les étriers. Par l’influence perse et scythe sur les Goths, l’initiation et le sens du service s’installent dans l’empire romain.

Troisième source: Les hippeis  grecs bénéficient également de l’influence scythe. Rappelons-nous que les cavaliers et les archers grecs étaient souvent d’origine scythe-pontique. Dans cet espace pontique, la nécessité de la maîtrise de la steppe a conduit les peuples cavaliers à élaborer des selles (d’abord en feutre, ensuite en cuir) facilitant la monture sur longues distances, ensuite des étriers, puis, par influence celtique, les éperons.

 

A l’apogée de la Perse, les chevaliers développent une éthique guerrière du service reposant sur la trilogie des “pensées pures”, “paroles pures” et “actions pures” (humata, hukhata, huvarshta).  Mais cette pureté ne dérive pas d’un refus du réel. Pour cette chevalerie persane, le “pensée pure” se manifeste dans le concret, par exemple, dans la concentration mentale dans le tir à l’arc et l’équitation. La “pensée pure” exclut l’erreur, postule la rigueur dans le geste. La “parole pure” implique le refus du mensonge et l’expression claire. L’“action pure” se retrouve dans la maîtrise complète du cheval, dans la fusion homme-cheval, qui culmine dans le mythe des centaures. Cette trilogie de pureté conduit le chevalier à méditer le contrôle opéré par l’âme sur le corps et les passions. La formation des jeunes chevaliers se déroulait de 5 à 24 ans. Ils acquéraient des disciplines comme le tir à l’arc, le lancement du javelot, l’équitation et l’expression de la vérité (“dire la vérité”). Les sources de cette formation tout à la fois militaire et spirituelle dérivent du zoroastrisme, dualisme issu des cosmogonies avestiques indo-européennes. La formation des kshatriyas indiens y est apparentée. La chevalerie persane développe ainsi un code d’honneur, que mentionnent les chroniques évoquant ses victoires successives sur les Romains à partir de 53 av. J. C.

 

Les origines perses de la chevalerie médiévale

 

Si les troupes grecques-macédoniennes d’Alexandre se sont “persifiées” au Moyen-Orient, les légions romaines s’y sont “mithraïcisées” et les chevaliers francs (la militia  carolingienne) s’y sont “orientalisés”, c’est-à-dire “persifiés”. Face à eux, les guerriers musulmans s’iranisèrent/se persifièrent également à la même époque, créant cette cavalerie au service de la foi et des hommes, la fotowwat. D’où les traces dans la littérature épique médiévale d’amitiés réciproques entre chevaliers allemands et musulmans-iraniens (Parzifal et Feirefiz). D’où les guerres chevaleresques, notamment entre Frédéric II de Hohenstaufen et Saladin.

 

Contrairement à ce que l’on croit généralement, la “religion légalitaire“ s’est montrée hostile à la chevalerie. Elle a voulu en faire un instrument à son service. Elle a contesté son indépendance commensale et militaire. Cette hostilité s’est tournée essentiellement contre les Chevaliers du Temple, mais aussi contre les Hospitaliers (non persécutés parce qu’ils étaient trop présents en Méditerranée et avaient été vainqueurs à Rhodes). Dans la lutte de l’Eglise contre les Cathares, les Hospitaliers avaient défendu ces derniers.

Chevalerie et “religion légalitaire”

 

A l’Est, Léon et Mélier d’Arménie règnent sur un pays chrétien zoroastrisé, iranisé. Les Arméniens possèdent une chevalerie, placée sous le patronage de Saint-Michel, avatar chrétien d’un archange persan. Le modèle de la chevalerie arménienne exercera une influence indubitable sur les croisés francs, suscitant la méfiance de la papauté. L’Eglise est ensuite hostile aux fêtes (solsticiales) du “feu sacré” de la Saint-Jean, remise à l’honneur par les chevaliers. La chevalerie, d’après Du Breuil, dérive son christianisme de l’héritage des Esséniens et de l’Evangile de Jean, s’opposant à la “religion légalitaire“ du pharisaïsme dans le cadre juif et du pétrinisme dans le cadre chrétien. Les grands ordres de chevalerie ne rendent pas de culte au Christ en Croix, mais vénèrent plutôt un “Pantotor” à l’instar des Orthodoxes. Les tribunaux ecclésiastiques reprocheront aux Templiers d’adorer le “Baphomet”, représentation médiévale de l’androgyne primitif.

 

Charles-Quint, contraint par des impératifs géopolitiques, reconnaît qu’à Malte l’O.S.J. est indépendant du Pape. L’O.S.J. est également présent en Russie en dépit du clivage catholicisme/orthodoxie, au-delà de la césure entre Rome et Byzance. L’O.S.J. semblait vouloir défendre un principe “pan-chrétien”, avant sa destruction en 1917. En Russie, l’O.S.J. disposait d’une école militaire, qu’on peut sans doute décrire comme le dernier avatar de la tradition scythe-persane. Du Breuil rêve de redonner son indépendance à la chevalerie européenne, et critique les ordres résiduaires qui sont encore en place mais ne représentent finalement plus grand chose de la tradition. Il veut les dégager de la “religion légalitaire”.

 

En conclusion, Osterrieder pense que si l’on avait pu fusionner et souder géographiquement panthéisme celtique et mystères pontiques, puis les fondre avec l’œuvre de Cyrille, avec sa définition de la sophia, de la gnosis  et avec son mythe très particulier de la Pentecôte, le développement de la pensée européenne aurait été plus harmonieux. Elle aurait pu résister à la folie du pouvoir pour le pouvoir, à la volonté maniaque de tout contrôler, au vœu de juguler la pensée parce qu’elle est toujours trop impertinente pour les légalitaires. Effectivement, elle dissout les certitudes.

 Robert  STEUCKERS.

 

Bibliographie complémentaire:

 

- Sylvia & Paul F. BOTHEROYD, Lexikon der Keltischen Mythologie, Eugen Diederichs Verlag, München,1992.

 

- Ian BRADLEY, Der Keltische Weg, Knecht, Frankfurt am Main, 1993.

 

- Peter CHERICI, Celtic Sexuality. Power, Paradigms and Passion, Duckworth, London, 1994.

 

- Paul DU BREUIL, La chevalerie et l’Orient, Guy Trédaniel Editeur, Paris, 1990.

 

- Dr. F. C. J. LOS, De Oud-Ierse Kerk. Ondergang en opstanding van het Keltendom, Uitgeverij Vrij Geestesleven, Zeist, 1975.

 

-Prínséas NI CHATHAIN & Michael RICHTER (Hrsg.), Irland und die Christenheit/Ireland and Christendom, Bibelstudien und Mission/The Bible and the Missions, Klett-Cotta, Stuttgart, 1987. Dans ce volume collectif, se référer à: Heinz DOPSCH, «Die Salzburger Slawenmission im 8./9. Jahrhundert und der Anteil der Iren»; J. N. HILLGARTH, «Modes of evangelization of Western Europe in the seventh century»; Herwig WOLFRAM, «Virgil of St. Peter’s at Salzburg»; Ian WOOD, «Pagans and Holy Men, 600-800».

 

 

 

 

 

 

 

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Souveraineté sacrée, spiritualité mystique

Prof. Jean Paul ALLARD:

De la souveraineté sacrée

 

à la spiritualité mystique dans l’Europe médiévale

 

Aux alentours de l'an 1000 se produit en Europe un changement important dans les relations de l'ordre existant et de la religion officielle. Cette mutation correspond à celle qui sépare le Moyen Age en deux moitiés à peu près égales que les historiens ont coutume d'appeler le premier et le second Moyen Age .

Le christianisme est désormais maître de l'Europe entière. Sa diffusion s'est étendue aux pays du Nord pendant le VIIIème et IXème siècle . il a atteint les plus lointains Scandinaves au Xème et, en l'an 1000 précisément, le Allthing d'Islande, I'assemblée détentrice de la souveraineté suprême, vient de l'accepter comme religion officielle. L'Eglise considère donc que son prosélytisme ne doit désormais plus viser à une expansion géographique, mais davantage à une intériorisation de la foi dans l'âme des fidèles. Qui plus est, les rapports qu'elle entretenait jusqu'alors avec les pouvoirs politiques, notamment la royauté, vont changer. Les souverains, sous la tutelle desquels elle s'était habilement placée afin d'utiliser leur influence pour favoriser la conversion de leurs peuples au christianisme, doivent être dépouillés de leur charisme sacré et replacés, dans la vision théologique des hiérarchies du monde chrétien, au rang de subordonnés de l'autorité pontificale et de représentants exclusifs du "bras séculier ".

 

Ainsi le XIème siècle voit-il émerger une nouvelle conception de la Papauté, de la souveraineté pontificale, au sein même de l'Eglise où se diffuse d'ailleurs l'influence du mouvement réformiste inspiré par l'abbaye de Cluny (1).

 

Les deux phénomènes sont, en dépit des apparences, parallèles et intimement liés. Si l'esprit de Cluny semble avant tout préoccupé d'une réforme monacale et conventuelle, d'une mise à jour, d'un “aggiornamento", de la règle de saint Benoît, d'un retour à la pauvreté évangélique du christianisme primitif, il s'agit d'abord de libérer l'Eglise de la tutelle des pouvoirs dits laïques, mais que la mentalité et la culture traditionnelles d'alors tiennent pour sacrés, parce que directement inspirés et instaurés par Dieu pour être les garants de l'ordre du monde. La royauté sacrée avait des origines païennes germaniques (2) qui avaient permis, lors de l'implantation des Germains dans l'ensemble de l'Europe occidentale, à la charnière du Vème et du VIème siècle, une nouvelle émergence de cette institution commune à tous les peuples indo-européens (3) et dont on retrouve les manifestations les plus diverses dans les civilisations de l'Antiquité. Les modèles bibliques de la royauté n'avaient servi qu'à sa justification formelle à partir du Vlème siècle. Clovis et ses descendants mérovingiens, les rois anglo-saxons, wisigothiques, alémans et longobards, princes dont la légitimité avait été primitivement assurée et garantie par le mythe de l'origine divine de leur dynastie (souvent rattachée à Wotan (4)), étaient devenus aux yeux de l'Eglise de nouveaux Melchisédec, David ou Salomon, personnages qui fournissaient un archétype chrétien de la fonction royale sans pour autant la sacraliser de façon irréfutable. Ces figures tirées de l'Ancien Testament avaient fourni le prétexte à un rapprochement de l'institution royale sacrée, telle qu'elle existait dans la réalité politique et religieuse du monde germanique, et du christianisme qui ne l'avait découverte que fort tardivement, après avoir toutefois appris à re­con­naî­tre et à respecter l'autorité des empereurs romains. Mais une am­bi­guïté subsistait depuis l'époque de la christianisation. Qui était le chef de l'Eglise: le roi ou un membre du clergé? L'empereur ou l'é­vê­que de Rome qui s'était peu à peu élevé au-dessus de tous les au­tres pour finir par prendre le titre de pape, au grand dam de son con­current le patriarche de Constantinople, toujours prééminent dans l'Em­pire romain d'Orient, mais toujours soumis et déférent envers son souverain, le basileus de Byzance?

 

Les origines de l’opposition Papauté/Empire

L'ambiguïté relative à la légitimité et à la nature de l'autorité sacrée s'était intensifiée depuis le règne de Charlemagne. L'empereur se voulait indépendant de la Papauté, sans pour autant refuser d'être son défenseur contre d'éventuels adversaires temporels. On sait quel geste il eut lors de son couronnement, à Noël de l'an 800. Geste de défiance! Il ne voulait pas apparaître comme redevable de sa couronne à la Papauté. Il couronna lui-même son fils Louis quelques années plus tard, imitant le rite du couronnement impérial byzantin. Mais son successeur eut la naïveté - ou se trouva dans la nécessité - de se laisser de nouveau couronner par le pape. L'usage se fixa ainsi en Occident et l'Eglise se crut autorisée, à maintes reprises, à revendiquer pour elle-même la source de la légitimité sacrée, cherchant à faire de l'Empire et de toute royauté une institution subordonnée à la Papauté, du moins lorsque la situation politique le lui permettait, ce qui devint le cas dans l'Empire au XIème siècle. C'est au sein de l'ordre de Cluny que s'élabora d'abord l'argumentation réformiste qui contesta la sacralité de l'institution royale et impériale. Celle-ci était alors, sous les Ottons, parvenue à un nouvel apogée. Face à une papauté très faible au Xème siècle, les empereurs avaient non seulement refondé l'Empire mais assuré leur prééminence de fait sur les pontifes romains dont ils contrôlaient sans peine l'élection. Il n'est donc pas étonnant que l'empereur Henri III se soit défini, au XIème siècle, comme imago Dei, tournure par laquelle il affirmait être le vicaire et représentant de Dieu dans l'ordre temporel, le chef suprême de la Chrétienté, investi d'une souveraineté qu'il prétendait tenir de Dieu immédiatement, sans qu'aucun intermédiaire n'ait à la lui transmettre.

 

L'Eglise romaine avait perçu, dès le Xème siècle, quel danger représentait pour elle une telle conception. Ses militants les plus convaincus voyaient là un asservissement aux hiérarchies et à l'esprit du Siècle. C'est pourquoi ils ressentirent le besoin d'une réforme préparée hors du Siècle, par des membres du clergé régulier, des moines. Le mouvement clunisien repose donc au départ sur le projet de revenir à une Eglise des origines évangéliques, à un idéal de pauvreté ascétique, quitte à s'en prendre avec véhémence à l'épiscopat, souvent peu soucieux d'obéir à Rome et toujours dévoué envers l'empereur ou te roi avec lesquels, en France ou dans les pays d'Empire, les évêques ou abbés entretenaient d'excellents rapports vassaliques. Ce projet était en outre conforté par l'atmosphère de fin du monde qui se développa au Xème siècle, à l'approche de l'an 1000: l'angoisse du salut incitait tout naturellement à une réforme de la Chrétienté qui remettait en question l'équilibre auquel cette dernière était parvenue à la fin du premier Moyen Age.

 

L’ordre de Cluny conteste la sacralité royale

Ce sera donc au sein de l'ordre de Cluny que s'élaborera l'argumentaire réformiste qui conteste la sacralité de l'institution royale et impériale brillamment restaurée par les Ottons ou solidement instaurée par les Capétiens, quoique encore modeste en France au début de second Moyen Age. S'il ne la conteste pas ouvertement, il entend du moins ne la tolérer que dans la soumission au pouvoir spirituel de l'Eglise. Humbert de Moyenmoûtier, représentant typique de l’idéal réformiste qui aboutira à la Querelle des Investitures et à la politique pontificale de Grégoire VII, écrit dans son ouvrage Adversus simoniacos, qui est en lui-même tout un programme ecclésiologique: le roi n'est qu'un laïc. Cette phrase résume en quelques mots lapidaires le désir de porter atteinte au caractère sacré de la royauté et de toute souveraineté politique. En retour, il s'agit d'imposer à toute la Chrétienté l'autorité absolue de la Papauté, jusqu'alors soumise par la force des choses à la tutelle de l'Empire, sur lequel elle a cherché a s'appuyer et dont elle avait même suscité la renovatio (5), mais qu'elle souhaite désormais abaisser et réduire au rang d'institution exécutive.

 

Royaume capétien et empire ottonien

En parallèle de cette évolution, l'an 1000 est aussi la charnière chronologique après laquelle la scission de l'Empire carolingien en Royaume capétien et Empire ottonien, puis salien, est irrévocable. Théaphano, régente au nom de son jeune fils Otton III, a reconnu définitivement les Capétiens comme souverains légitimes de la Francia occidentale (= la France), pour faire pièce aux revendications des derniers Carolingiens sur la Francia orientale et la Lotharingie septentrionale (= l'Allemagne). Mais dans le futur Royaume de France comme dans le futur Saint-Empire se développera la même conception de la royauté sacrée qui, au cours du temps, aboutira à des réalisations différentes selon les circonstances, s'affirmera ici et sera paralysée ailleurs. Cette institution, venue du plus lointain passé et ancrée dans la civilisation traditionnelle de l'Europe, va subir, du XIème au XIVème siècle, les assauts les plus variés de l'Eglise et de la Papauté.

 

C'est l'Empire qui devra livrer les combats les plus rudes pour s'assurer une survie qui ne sera plus, en définitive, que valétudinaire dès la seconde moitié du XIIIème siècle. Le Royaume lui succèdera alors dans le rôle d'adversaire privilégié de la Curie romaine. A la mort de l'Empereur Frédéric II de Hohenstaufen, la Papauté peut caresser pendant quelques décennies l’illusion d'être désormais maîtresse de l'Occident. Mais cette illusion ne dure qu'autant que la Curie romaine n'entreprend pas ouvertement de s'opposer à la maison de France. On voit resurgir alors dans les lettres de Boniface VIII les prétentions dirigées deux siècles plus tôt par Grégoire VII contre l'empereur Henri IV, et les arguments de ce dernier en faveur de la monarchie sacrée reparaissent, identiques, dans les lettres d'autojustification de Philippe IV le Bel: le roi tient son pouvoir directement de Dieu. Le roi est immédiat à Dieu. Comparativement, la lutte sera alors très brève. Instruit par l’histoire du Saint-Empire, qu'il ne pouvait ignorer, le petit-fils de saint Louis frappe vite et fort. Le conflit n'excèdera pas en longueur la durée de son règne et se terminera par l'abaissement de la papauté qui devra accepter d'être placée en résidence surveillée en Avignon et ne regagnera Rome qu'à la faveur de la guerre de Cent Ans, échappant alors à une royauté française paralysée et affaiblie, mais non pas au Grand Schisme. L'Eglise romaine devra attendre la fin du Concile de Bâle (1415) pour se réunifier, sans jamais pouvoir d'ailleurs renouer avec ses ambitions du XIIIème siècle qui visaient l'hégémonie politique sur l'Occident européen. Pour l'Empire comme pour le Royaume, il s'était agi du même combat, celui de la souveraineté sacrée, immédiate au divin, pour légitimer le pouvoir suprême et pour établir le lien fondateur entre le divin et la communauté des hommes soumis à l'autorité du souverain. La seule différence résidait dans le caractère “universel”, c'est-à-dire supranational, de l'idée d'Empire, le Royaume n'y prétendant pas, sans être pour autant déjà un “Etat national”.

 

Diabolisation de la vie séculière et de la femme

Dans sa lutte contre la royauté sacrée, la Papauté s'appuie sur les grands ordres monastiques dont le premier, chronologiquement, est celui de Cluny. Le mouvement clunisien n'apparaît jamais comme une entreprise politique, mais comme le promoteur d'une nouvelle culture authentiquement chrétienne, fondée sur le monachisme et l'ascèse, le refus du monde et de la chair, la diabolisation de la vie séculière, de la femme, du mariage, de toutes les hiérarchies sociales et notamment de la condition de noblesse: vers la fin du XIème siècle, en Allemagne, un poème en langue vernaculaire auquel on a donné un titre latin: Memento Mori, résume ce programme égalitaire dans le reproche adressé aux seigneurs et aux nobles, qu'ils soient laïcs ou d'Eglise: par les droits féodaux qu'ils exigent, ceux-ci “volent la justice” aux chrétiens, les dépouillent de leur droit de créatures divines. Aussi les membres de la noblesse sont-ils voués à l'Enfer, sauf si, pour faire leur salut, ils renoncent à leurs privilèges. L'auteur de ce poème, Noker de Zwiefalten, est un moine formé à l'abbaye de Hirsau, filiale souabe de Cluny. Cet égalitarisme, qui préfigure ce que l'on connaîtra bien plus tard dans ce domaine sous forme sécularisée, s'accompagne d'une hostilité de principe à la royauté telle qu'elle s'exprime dans les écrits de l'écolâtre Manegold de Lautenbach, fanatique défenseur de la politique pontificale et fervent admirateur de Grégoire VII. Manegold étouffe d'indignation lorsque ses adversaires, partisans de Henri IV, lui objectent que leur vrai chef religieux est ici-bas l'empereur: Non habemus pontificem nisi imperatorem. Formule bien frappée qui répond par avance à celle que forgera plus tard Innocent III: Papa ipse verus imperator .

 

Le plus haut idéal humain est, selon Cluny, incarné par le moine et, pour le sexe féminin, la moniale. Le point de perfection de l'humanité sera atteint lorsque toute l'humanité renoncera à la vie charnelle et séculière pour se regrouper en communautés conventuelles à l'approche de la Parousie. Otton de Freising croit  —non sans quelque inquiétude—  à l'avènement prochain de cette nouvelle société, vers 1140. Joachim de Flore en fait un sujet d'exaltation mystique vers 1190. Avec des variantes dans les préoccupations quotidiennes et en reconnaissant la valeur du travail et de la production en parallèle de celle de la prière, l'ordre de Cîteaux prendra le relais de cet idéal clunisien . L'ordre de Cluny a inspiré et soutenu la réforme grégorienne qui entreprend de saper la fonction sacrée de l'Empire et, par voie de conséquence, la notion de l'ordre sacré, voulu par Dieu, dans le Monde tel qu'il est sous la tutelle du souverain. Grégoire VII, vitupérant contre Henri IV, n'a pas hésité à écrire dans une de ses lettres adressées aux évêques:

 

« Qui ne sait que les premiers rois ... ont été des hommes ignorants Dieu qui ... stimulés par le démon prince de ce monde, se sont efforcés ... de dominer leurs égaux, c'est-à-dire les autres hommes ? » (6).

 

L’Eglise romaine a voulu la ruine de la souveraineté politique sacrée

 

On voit bien là que la Querelle des Investitures n'était qu'un prétexte et que la véritable querelle qui s'ouvrait alors était celle du Sacerdoce et de l'Empire (ou du Royaume). L'Eglise romaine a voulu la ruine de la souveraineté politique sacrée.

 

Quelle est la réponse de la civilisation aristocratique européenne de l'époque au mouvement clunisien et grégorien ? Elle est d'ordre culturel: c'est l'émergence et l'épanouissement de la civilisation courtoise qui, comme son nom l'indique par l'étymologie, est une culture de la cour, royale, princière, ducale, et s'oppose à la culture monacale des abbayes de l'ordre de Cluny ou de Cîteaux et, plus tard, d'autres ordres comme les Dominicains ou les Franciscains.

 

L'idéal humain, l'idéal de vie et de sensibilité de l'Europe occidentale change et se renouvelle totalement vers le milieu du XIIème siècle. Le mouvement va ensuite s'affirmant jusque vers 1230, puis se stabilise pour plusieurs siècles, même s'il est alors concurrencé par l'essor de la bourgeoisie et des villes. Le nouvel idéal est celui de la chevalerie et de ses rites aussi bien militaires que courtois: l'exaltation de la valeur guerrière, de l'ardeur héroïque, du courage et de l'honneur, le tournoi qui permet de révéler toutes ces vertus au Monde et de faire reconnaître et comprendre leur sens. Mais c'est aussi et surtout l'amour courtois (et ses diverses formes d'expression) qui donne naissance à une littérature nouvelle, vecteur culturel des valeurs de la chevalerie. La poésie lyrique et le roman arthurien célèbrent le culte de la dame dont l'émergence se produit d'abord parmi les troubadours. Guillaume IX d'Aquitaine, l'un des plus hauts barons de France, est le premier d'entre eux. Ses chansons datent du premier quart du XIIème siècle. Elles se distinguent par leurs gaillardises provocantes qui, on s'en doute, ne sont pas fortuites. Mais on rencontre aussi dans son œuvre des strophes dont le sens et la portée constituent une réplique aux idées de Cluny et du mouvement grégorien:

 

Qu'y gagnerez-vous, dame jolie, si vous m'éloignez de votr

amour ? Il semble que vous vouliez vous faire nonne ...

 

Qu'y gagnerez-vous si je me cloître, si vous ne me retenez parmi

 

vos fidèles ? Toute la joie du monde est notre si vous et moi nous nous aimons (7).

 

 « Joie du monde » et idéal courtois

 

La “joie du monde” est un mot-clé de l’idéal courtois. C'est celle du grand seigneur qui proclame sa fierté d'être et son plaisir à la vie du Siècle, son bonheur de vivre dans le Monde. Quant au culte de la dame, laquelle n'est jamais une simple femme, mais l'équivalent féminin d'un seigneur", il réhabilite à la fois la condition nobiliaire, ou même princière, et l'image de la femme honnie et haïe des gens de Cluny. Mais cette image se garde le plus souvent de revêtir des aspects trop sensuels, justement pour éviter le reproche d'impureté diabolique: la dame est lointaine et pure, inaccessible et inflexible envers son amant qui lui reste malgré tout fidèle —du moins dans ce qu'il est convenu d'appeler la haute époque de l'amour courtois. Ou bien il faut même que ce dernier, tout en gardant une pureté platonique, soit adultère pour être authentiquement courtois. Pour se rendre compte de l'originalité de ce sentiment et de la variété de ses aspects, il suffit de lire Chrétien de Troyes et ses adaptateurs ou imitateurs qui ont transposé ses romans dans les diverses langues de l'Europe. Chacun des héros du roman arthurien, Lancelot, Yvain, Erec, représente une réalisation possible de l'amour ou une solution apportée aux problèmes qu'il pose. On constate alors que ce que cet amour a de totalement étranger à l'amour chrétien est toujours approuvé et même sauvegardé par Celui que les auteurs appellent “le Dieu courtois”, “qui protège les fins amants”, et couvre de son autorité jusqu'à la passion incoercible et adultère de Tristan et Iseut.

 

L’héroïsme guerrier

A la joie, déjà évoquée, sont intimement liés le sens et le goût de la fête, dont les descriptions sont, dans la littérature courtoise, aussi fréquentes qu'intarissable tant elles ont la faveur du public des cours. Quant à l'héroïsme guerrier, il va être désormais célébré dans des œuvres narratives qui, tout en exprimant un esprit plus rude et moins policé que celui de la cour, persistent dans le fonds de la culture courtoise, bien que leur apparition soit en fait quelque peu antérieure à l'épanouissement de celle-ci. La Chanson de Roland, par exemple, date de 1100. L'esprit qui l'anime n'est chrétien qu'en surface: il est surtout guerrier et finira d'ailleurs par s'imposer à l'Eglise qui, après avoir proclamé son hostilité au métier des armes, I'intégrera à ses ordres militaires et à l'idéologie de croisade, suivant en cela l'incitation de Bernard de Clairvaux, auteur du traité De laude novae militiae ad milites Templi (1128). En Allemagne, l'esprit courtois adoucit certes celui qui dominait l'ancienne légende traditionnelle des Nibelungen. En témoigne l'image qui nous est donnée, vers 1200, dans la Chanson des Nibelungen, de l'amour qui pousse l'un vers l'autre Siegfried et Kriemhilde, apport incontestable du XIIème. Cependant, I'ancien esprit païen subsiste, sans crainte de l'archaïsme, dans la version courtoise qui nous a été transmise de la légende. Qui plus est, ce texte est le témoin de la redécouverte du sens du tragique qui survient alors: tragique des sentiments et des passions, tragique de situations fatales, tragique politique enfin, excluant l'idée d'un salut ménagé par une Providence transcendante.

 

Mais la valeur suprême de la culture courtoise, celle qui est le plus fréquemment invoquée et attestée, demeure l'honneur du lignage, et l'importance capitale que revêt ce dernier. Le culte du sang royal ou noble, de la lignée ancestrale conçue comme source et dispensatrice des plus hautes vertus, est omniprésent et répond, en les contrant, aux aspirations de l'égalitarisme clunisien.

 

Société et culture courtoises exaltent notamment en Allemagne le hôher muot, qui n'est qu'une transcription du latin magnanimitas, concept transmis par l'Antiquité païenne et bien accueilli chez les descendants des Germains. Avant de devenir, bien plus tard, à l'époque de la Contre-Réforme, sous l'effet de la morale chrétienne, Hochmut, c'est-à-dire l'orgueil, ce terme désigne la conscience que le chevalier a de sa propre valeur et de l'honneur de sa lignée, le sentiment de satisfaction justifiée qu'il en éprouve. L'emploi de cette locution est toujours positif et laudateur à l'époque courtoise, et le sentiment qu'il exprime est une sorte de fierté que l'on a de ses ancêtres et de l'honneur qu'ils vous ont légué. L'Eglise combat un tel sentiment et l'évolution sémantique du vocable est tout à fait révélatrice du glissement de civilisation qui s'est opéré à l'époque moderne.

 

Les « Carmina Burana »

L'épanouissement de cette culture séculière de la joie de vivre ne laisse pas le monde des clercs indifférent. Ce que certains historiens ont appelé la "Renaissance du XIIème siècle" suscite une littérature latine d'un nouveau genre; les poésies et chansons des vagants ou goliards que l'on a conservées sous le nom de Carmina Burana et dont l'inspiration peut être qualifiée de païenne tant elle est étrangère aux préoccupations spirituelles qui caractérisent d'ordinaire les auteurs médiévaux usagers du latin. A l'esprit de ces textes on mesure l'étendue de la révolution mentale qui s'est produite au XIIème siècle contre l'autorité de l'Eglise. Les auteurs des Carmina Burana sont pour la plupart partisans de l'Empire.

 

Cependant, entre 1250 et 1268, l'Eglise réformiste grégorienne remporte un succès politique en parvenant à abattre, dans l'Empire et en Sicile, la maison de Hohenstaufen. Mais ce succès est superficiel et ne change pas les mentalités qui conserveront longtemps encore l'héritage de la société courtoise. Le véhicule métapolitique culturel qu'a été l'idéal courtois dans la lutte de la royauté sacrée pour sa propre défense survit à l'écroulement du rêve impérial de Frédéric II. La souveraineté sacrée connaît même, en France, son premier apogée. Qui plus est, dans le dernier tiers du XIIIème siècle, la Papauté subit un échec au sein même de l'Eglise et doit intensifier les efforts de l'Inquisition fondée, au début du siècle, par saint Dominique.

 

C'est à cette époque, en effet, que se font jour les tendances mystiques de la spiritualité de l'ordre dominicain. Vers 1260 était né Eckhardt de Hochheim, représentant prototypique, mais non pas unique, de ce qu'on a appelé la mystique rhénane (ou allemande). Certes, il y avait eu, avant lui, d'autres formes de spiritualité mystique: Hildegarde de Bingen, Bernard de Clairvaux, Hugues de Saint-Victor en sont les témoins. Mais ces modes de vie contemplative demeuraient dans l'obédience vis à vis de la théologie officielle de l'Eglise et les auteurs qui les pratiquaient, écrivant en latin exclusivement, n'étaient lus que des clercs. Dans la première moitié du XIIème siècle, Bernard avait même défendu l'autorité de l'Eglise et de la théologie traditionnelle en instruisant le procès d'Abélard, accusé d'erreur pour avoir tenté d'appliquer à la spéculation théologique la méthode aristotélicienne, c'est-à-dire la dialectique rationnelle héritée de la philosophie antique. Mais les efforts de Bernard pour endiguer la rationalisation scolastique de la théologie avaient été vains. L'aristotélisme avait fini par devenir, au XIIIème siècle, partie intégrante de la pensée de Thomas d'Aquin.

 

Thierry le Teutonique

Lorsque celle-ci s'impose, vers 1280, une réaction d'inspiration mystique se produit au contact et souvent au sein même de l'Université de Paris, bien qu'elle soit principalement l'œuvre de clercs allemands qui ont d'abord fréquenté le Studium Generale des Dominicains de Cologne avant d'aller prendre leurs grades de théologie à Paris. Eckhardt est le plus célèbre d'entre eux et celui qui est allé le plus loin dans la voie mystique mais il n'est pas le seul à percevoir l'incompatibilité qui régnait entre l'aristotélisme et la théologie. Avant lui, Albert de Lauingen, dit le Grand, (1206-1280) s'était rallié à l'aristotélisme dans les sciences profanes tout en continuant la tradition platonicienne en théologie, acceptant la coupure entre les deux domaines et leur autonomie l'un par rapport à l'autre. Albert avait été à Cologne le professeur de Thomas d'Aquin, qui n'avait pas eu la même réserve que lui par la suite. Mais Albert avait aussi pour disciple Thierry (Dietrich) de Freiberg, qu'on avait appelé à Paris Thierry le Teutonique. Thierry est le précurseur immédiat d'Eckhardt. Il connaît bien la pensée néo-platonicienne dont la mystique non chrétienne est résumée dans les écrits de Denys l'Aréopagite.

 

Thierry aura des disciples qui seront à leur tour les maîtres des théologiens mystiques de la génération qui suit immédiatement Eckhardt, notamment de Suso et de Tauler. N'osant plus se référer à l'exemple d'Eckhardt lorsque celui-ci aura été condamné par la cour pontificale d'Avignon, cette génération de spirituels invoquera l'autorité d'Albert le Grand pour se libérer de la systématisation dogmatique de Thomas. Tous s'opposeront au thomisme, devenu doctrine quasi officielle de l'Eglise, en lui reprochant in petto de s'appuyer trop sur la raison et trop peu sur la foi. Tous feront appel à “la profondeur de notre mémoire“, à ce qu'Eckhardt appelle "le fond de l'âme" (sêlengrund), qu'ils identifient à l'intellectus agens, selon Albert traduction latine du grec nous poïeticos, au tréfonds secret de l'esprit qui devient, selon Thierry, la substance déiforme de l'âme, la part de divin qui est en l'homme. Ce dernier aurait donc en lui-même, dans la vie présente, le principe de la béatitude éternelle, alors que celle-ci ne peut, selon Thomas, advenir que par l'acquisition d'une aptitude nouvelle à la vision du surnaturel, par un effort qui dépasse la nature de l' intellectus agens et ne peut s'accomplir que sous la direction et le magistère de l'Eglise, de la Papauté, du Clergé et du Sacerdoce.

 

De l’ « étincelle de l’âme »

La mystique minimise donc le rôle de ces institutions qui ne manqueront pas de se défier d'elle en retour et tenteront d'intimider les mystiques en s'acharnant sur le plus brillant et le plus populaire d'entre eux. Car Eckhardt, outre une œuvre latine importante, prêche en allemand et atteint un vaste public de laïcs, auprès desquels il est très vite en odeur de sainteté, notamment à Strasbourg et dans les villes rhénanes. Voilà qui ulcère une Eglise qui, après avoir suscité, par l'intermédiaire de Thomas d'Aquin, une restructuration autoritaire du dogme aboutissant à une exigence encore inouïe d'obéissance de la part des fidèles, se heurte à la revendication d'une quête personnelle, d'une expérience vécue de Dieu, d'une façon de Le sentir et de L'éprouver par des voies qui ne sont ni celles de la dialectique ni celles du dogme. Car la mystique est une théologie négative, apophatique, qui se refuse à “dire” la nature de Dieu (du grec muo, se taire, dérive le mot “mystique”), une théologie pour laquelle Dieu est inconnaissable. Elle ne s'exprime pas à l'aide de concepts, mais d'images et de paradoxes destinés à éveiller la sensibilité. Ainsi l'image de l’“étincelle de l'âme” (8) (sêlenfunkelîn), partie noble de l'âme, qui participe de la lumière divine et qu'Eckhardt appelle gemuet (9), mot appelé à une longue et extraordinaire fortune dans la pensée allemande jusqu'au romantisme ! L'âme étant créature dans son essence, l'étincelle de l'âme dépasse l'ordre du créé et touche à l'éternité. Elle illustre non pas tant l'union de l'âme à Dieu que l'unité radicale, originelle, de l'âme et de Dieu: « il y a quelque chose dans l'âme qui est du lignage de Dieu de telle sorte qu'il est un avec Lui et non pas réuni à Lui » (10). S'étonnera-t-on de voir alors Eckhardt recourir à l'image du lignage (sippe ) pour traduire la notion d'identité et d'unité de l'âme à Dieu ? Il ne fait que reprendre ici une notion-clé de la culture courtoise aux yeux de laquelle le lignage est la garantie absolue d'une "aristeia", d'une supériorité et d'une souveraineté de l'être liées à l'ordre du monde. Tout comme Suso, mystique de la seconde génération, reprendra aux poètes de l'amour courtois (minne) leurs démarches de pensée et leurs images, elles aussi contestables dans la confrontation qui les oppose à une théologie dogmatique, mais irréprochablement extatiques et mystiques par la pureté de sentiment à laquelle elles aspirent (11).

 

 « Gelassenheit » et négligence des œuvres

 

Quant aux paradoxes, ils sont de la même nature lyrique que les images. Ils veulent faire sentir ce qu'il y a en Dieu d'inaccessible par la pensée et d'inconnaissable. Mais ils seront pris au pied de la lettre par les esprits “clairs” et rassis de Jean XXII, du cardinal Jacques Fournier et des autres juges d'Avignon. En disant: "Dieu est l'éternel néant, le néant qui est... Il te faut aimer Dieu tel qu'il est: un non-dieu, un non-esprit, une non-personne" etc... Eckhardt joue de tous les néologismes permis par la jeune langue allemande pour suggérer ce qu'il veut s'abstenir d'énoncer, pour poser des négations qui entendent demeurer des affirmations. Il force son langage afin d'inculquer à ses auditeurs - auditrices le plus souvent, moniales issues de la noblesse - que l~ieu est l'éternel inconnaissable que seule l'intériorité de l'âme peut deviner par l'étincelle qui est en elle. Il n'est désormais guère plus besoin de la grâce que du magistère de l'Eglise. On comprend que le procès, inauguré par l'archevêché de Cologne, suspendu par l'action influente des Dominicains allemands, ait été finalement repris et diligenté par la Papauté d'Avignon qui suspectait là un dévoiement en direction du panthéisme. L'Eglise était d'autant plus inquiète que le renoncement (abgescheidenheit) et l'abandon (gelâzenheit) prônés par Eckhardt incitaient à négliger les œuvres, les actes caritatifs et humanitaires que, sous l'influence des Franciscains, la chrétienté des XIVème et XVème siècles allait tenir pour la voie principale du salut, au détriment de la spiritualité et de la foi, et au risque de susciter une indignation qui devait être, deux siècles plus tard, celle de Luther, s'écriant: c'est la foi qui sauve !

 

La tentative de domination intégrale de l'Occident qui traduisit au XIIIème siècle les aspirations de l'Eglise romaine et de la Papauté grégorienne parvenues à l'apogée de leur puissance est à l'origine de la réaction mystique que représente, à la façon d'un emblème, Maître Eckhardt. Stérilisée par un dogme devenu totalitaire, la spiritualité s'efforça de revenir à des sources spontanées. L'attitude mystique fut sans doute, en Allemagne, un signe de l'opposition sourde qui couvait contre la Papauté après la phase la plus intense de la lutte du Sacerdoce et de l'Empire. Cette attitude prolongeait dans les rangs des Frères Prêcheurs Dominicains celle de Mechthilde de Magdebourg ou d'Elisabeth de Thuringe, et renouait aussi avec la tradition mystique qui remontait à la patristique grecque. Par-delà l'histoire des origines chrétiennes se pose le problème de ses rapports avec les mystiques de l'Inde (12) dont on a remarqué que les caractères structuraux sont bien proches de ceux des mystiques d'Occident, à tel point que l'on a émis l'hypothèse d'une commune origine indo-européenne, hypothèse que viendrait encore corroborer la manifestation des mystiques néoplatoniciennes de la civilisation hellénistique.

 

Mystiques, bégards et béguines

Dans le cadre plus restreint de l'Europe médiévale, la spiritualité mystique rhénane ou flamande pose le problème de sa parenté avec le mouvement des bégards et béguines, et notamment avec le cas de Marguerite Porrète, béguine originaire du Hainaut, des environs de Valenciennes où le livre dont elle était l'auteur, le Miroir des simples âmes anéanties fut brûlé sur ordre de l'archevêque de Cambrai, avant que Marguerite elle-rnême, refusant toute rétractation, ne montât sur le bûcher à Paris en 1310. La continuité de la tradition mystique allemande qui dura au moins jusqu'au XVIIème siècle, et même sous forme philosophique (Schopenhauer) jusqu'au XIXème, a donné lieu à la théorie selon laquelle Eckhardt et ses disciples et héritiers auraient été les témoins d'une originalité absolue et essentielle de l'esprit allemand, d'une spiritualité proprement allemande, irréductible à toute autre. Cette théorie est exprimée - ou plus exactement résumée, synthétisée, dans un passage du Mythe du XXème siècle d'Alfred Rosenberg, avec l'exaltation due au style de l'époque. La recherche actuelle a une vue plus large du phé­no­mè­ne (13). Elle se fonde notamment sur l'évidence de l'influence exercée sur Eckhardt, pendant son séjour à Paris, par les idées de Marguerite Porrète. En 1311, Eckhardt s'installa à Paris dans la même maison que le Grand Inquisiteur de France, Guillaume de Nan­gis, et il y logea pendant deux ans. Il a eu ainsi connaissance des thèses de Marguerite, auxquelles ­—les érudits en sont aujourd'hui convaincus— il a voulu donner un approfondissement théologique et spéculatif destiné à les rendre défendables, à les justifier face à l'Inquisition. On sait que sa tentative fut vaine et que la condamnation pontificale frappa sa mémoire en 1329, un an après sa mort. Mais la mystique du XIV~me siècle apparaît du même coup comme un phénomène européen dont la manifestation allemande fut seulement plus vigoureuse et plus brillante qu'ailleurs. Elle traduit en fait, que ce soit en France, sous le pouvoir royal triomphant de Philippe le Bel, ou dans les désordres du Saint-Empire affaibli, le désir d'une revanche à prendre sur une Papauté qui avait voulu ruiner  —ou capter à son profit—  la souveraineté sacrée, et sur une hiérarchie ecclésiastique à laquelle la société européenne entendait désormais opposer l'idéal d'une vie spirituelle libre comme elle avait opposé à l'ascétisme clunisien celui de la vie courtoise.

 

Jean-Paul ALLARD.

 

Notes :

 

(1) Gerd TELLENBACH: Libertas, Kirche und Weltordnung im Zeitalter des Investiturstreites. 1936.

 

(2) Otto HOFLER: Der Sakralcharakter des germanischen Königtums, in: Das Königtum. Seine geistigen und rechtlichen Grundlagen. Sigmaringen 1956, pp.75-104.

 

(3) La royauté sacrée est naturellement connue également de peuples non indo-européens. Mais elle revêt chez les peuples d'origine indo-européenne des traits caractéristiques propres qui autorisent l'hypothèse d'une origine traditionnelle commune aux descendants des Indo-Européens.

 

(4) J. P. ALLARD: La royauté wotanique des Germains; in: Etudes Indo-Européennes 1 (65-83) et 2 (31-57) (1982).

 

(5) La renovatio imperii est un thème récurrent de la pensée politique médiévale. Qu'elle soit carolingienne, ottonienne ou gibeline, elle reprend sans cesse l'idée que l'Empire romain, institution entrée dans le plan de la Providence divine pour favoriser la diffusion de la foi chrétienne, ainsi que l'enseignait saint Jérôme, est destiné à durer jusqu'à la fin du monde. Il n'a donc pu subir après 476 qu'une éclipse, à laquelle Charlemagne a mis fin. Puis il a connu de nouvelles épreuves entre le VIIIème et le Xème siècle, avant que les Ottons et, après eux, tous les rois d'Allemagne ne le relèvent et le restaurent.

 

(6) Gregorii VII Registri, VIII, 21: "Quis nesciat reges ... ab his habuisse principium, qui Deum ignorantes ... mundi principe videlicet diabolo agitante, super pares, scilicet homines dominari ... affectaverunt."

 

(7) Traduction des vers en langue d'oc empruntée à l'édition d'Alfred Jeanroy, Paris 1964, Les chansons de Guillaume IX, duc d'Aquitaine (1071-1127) , pp. 20-21. Le texte original est:

 

Qual pro y auretz, dompna conja,

 

Sivostr'amors mi deslonja ?

 

Par queus vulhatz metre monja ...

 

 

 

Qual pro y auretz, s'ieu m'enclostre

 

E no'm retenetz per vostre ?

 

Totz lo joys del mon es nostre,

 

Dompna, s'amduy nos amam ...

 

(8) "scintilla animae" est en fait une image reprise à Thomas d'Aquin, mais totalement métamorphosée dans sa portée et sa signification. Pour Thomas, qui transformait d'ailleurs déjà ce que les Pères de l'Eglise avaient appelé scintilla conscientiae en scintilla animae, l'étincelle de l'âme est le principe du jugement moral. Pour Eckhardt, le sêlenfunkern est aussi et surtout un moyen essentiel de parvenir à la lumière et de percevoir Dieu.

 

(9) Eckhardt dénomme également le gemuet "vitalité de l'âme", lebelicheit der sêle . Il le définit comme une lueur secrète, l'image de la nature divine imprimée dans l'âme humaine : ein lieht, oben în gedrucket, und ist ein bilde gotelîcher natûre.

 

(10) etwaz ist in der sêlen, daz got also sippe ist, daz es ein ist und niht vereinet

 

(11) J.A. Bizet: Suso et le Minnesang, Paris 1947.

 

(12) Bernard BARZEL: Mystique de l'ineffable dans l'hindouisme et le christianisme: Shankara et Eckhardt. Paris 1982.

 

(13) Kurt RUH: Meister Eckhardt. Theologe. Prediger. Mystiker. Munich 1989, pp. 95-114.

 

 

 

 

 

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mardi, 23 janvier 2007

Dr. K. Elst : Universalisme en Heidendom

Dr. Koen ELST:

Universalisme en Heidendom

http://www.traditie.be/Congres/35.html

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lundi, 22 janvier 2007

Tantrisme indien

Marc FERSSENS

Le monde du tantrisme indien

Analyse de l'oeuvre du grand indologue allemand Helmut Uhlig

http://be.altermedia.info/culture/le-monde-du-tantrisme-i...

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