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dimanche, 14 décembre 2008

L'itinerario di Knut Hamsun

 

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L’itinerario di Knut Hamsun

di Robert Steuckers

Knut Hamsun: una vita che attraversa circa un secolo intero, che si estende dal 1859 al 1952, una vita che ha camminato tra le prime manifestazioni dei ritmi industriali in Norvegia e l’apertura macabra dell’era atomica, la nostra, che comincia a Hiroshima nel 1945. Hamsun è dunque il testimone di straordinari cambiamenti e, soprattutto un uomo che insorge contro l’inesorabile scomparsa del fondo europeo, del Grund in cui si sono poggiati tutti i geni dei nostri popoli: il mondo contadino, l’umanità che è cullata dalle pulsazioni intatte della Vita naturale.

una fibra nervosa che mi unisce all’universo

Questo secolo di attività letteraria, di ribellione costante, ha permesso allo scrittore norvegese di brillare in ogni maniera: di volta in volta, egli è stato poeta idilliaco, creatore di epopee potenti o di un lirismo di situazione, critico audace delle disfunzioni sociali dello “stupido XIX secolo”. Nella sua opera multi-sfaccettata, si percepiscono pertanto al primo sguardo alcune costanti principali: un’adesione alla Natura, una nostalgia dell’uomo originario, dell’uomo di fronte all’elementare, una volontà di liberarsi dalla civilizzazione moderna essenzialmente meccanicista. In una lettera che egli scrive all’età di ventinove anni, scopriamo questa frase così significativa: “Il mio sangue intuisce che ho in me una fibra nervosa che mi unisce all’universo, agli elementi”.

Hamsun nasce a Lom-Gudbrandsdalen, nel sud della Norvegia, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Hammarøy nella provincia del Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico, una patria da lui mai rinnegata e che sarà lo sfondo di tutta la sua immaginazione romanzesca. È una vita rurale, in un paesaggio formidabile, impressionante, unico, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali; sarà anche l’influenza negativa di uno zio pietista che condurrà assai presto il giovane Knut a condurre una vita di simpatico vagabondo,di itinerante che esperimenta la vita in tutte le sue forme.

Il destino di un “vagabondo”

Knut Pedersen (vero nome di Knut Hamsun) è figlio di un contadino, Per Pedersen che, a quarant’anni, decide di abbandonare la fattoria che appartiene alla sua famiglia da più generazioni, per andare a stabilirsi a Hammarøy e diventare sarto. Questo cambiamento, questa uscita fuori dalla tradizione familiare, fuori da un contesto pluricentenario, provoca l’indigenza e la precarietà in questa famiglia scossa e il giovane Knut, a nove anni, si vede affidato a questo zio severo, di cui abbiamo appena parlato, uno zio duro, puritano, che detesta i giochi, anche quelli dei figli e picchia duro per farsi obbedire. È dunque a Vestfjord, presso questo zio puritano, predicatore, cultore della teologia moralizzante, che Knut Hamsun incontrerà il suo destino di vagabondo.

Per sfuggire alla rudezza ed alla brutalità di questo predicatore evangelico che picchia per il bene di Dio, che interrompe le risate che, senza dubbio, sono ai suoi occhi l’anticamera del peccato, il giovane Knut si chiude in se stesso e si rivolge alla foresta del Grande Nord, così spoglia, ma circondata da paesaggi talmente fiabeschi… La dialettica hamsuniana dell’io e della natura prende corpo nei rari momenti in cui lo zio non fa sgobbare il ragazzo per recuperare la spesa di qualche uovo e di un pezzo di pane nero.

La prima opera: Misteri

Questa vita, tra la Bibbia e i ceffoni, Knut la vivrà cinque anni; a quattordici anni in effetti egli fa le valige e ritorna a Lom, nel natale sud, dove diviene impiegato di commercio. Comincia la vita itinerante: Hamsun acquisisce la sua “caratteristica”, quella di essere un “vagabondo”. Dai quindici ai diciassette anni, egli errerà nel Nord e venderà agli autoctoni ogni tipo di mercanzie, come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo I Vagabondi. A diciassette anni, egli impara il mestiere di calzolaio e scrive la sua prima opera: Misteri. Diventa una celebrità locale e passa al grado di impiegato, poi di istitutore. Un ricco commerciante lo prende sotto la sua protezione e gli procura una somma di denaro perché possa continuare a scrivere. Così nasce nel 1879, una seconda opera, Frida, che gli editori rifiutano. La speranza di diventare scrittore svanisce, malgrando un tentativo di entrare in contatto con Björnson…

Comincia allora un nuovo periodo di vagabondaggio: Hamsun è sterratore, cantastorie, capomastro in una cava, etc…, e le sue sole gioie sono i balli del sabato sera. Nel 1882, a 23 anni, parte per l’America dove la vita sarà assai più difficile che in Norvegia e dove Hamsun sarà di volta in volta guardiano di porci, impiegato di commercio, aiuto muratore e commerciante di legname. A Minneapolis, egli vivrà giorni migliori in una comunità di predicatori “unitariani”, di Norvegesi, immigrati come lui in America. Questa posizione gli permette di tenere regolarmente conferenze su diversi temi letterari: là il suo stile si afferma e questo giovane, di bell’aspetto, energico e forte, trasforma le sue delusioni e i suoi rancori in sarcasmo ed in uno humour feroce, colorito, in cui emerge quel genio che non sarà riconosciuto che alcuni anni dopo.

La fame in una mansarda di Copenaghen

Dopo un breve ritorno in Norvegia, egli ritorna in America e vive a Chicago dove fa il bigliettaio di tram. Questo secondo soggiorno americano non dura che qualche anno e, definitivamente deluso, rientra in Scandinavia. Si installa a Copenaghen, in una squallida mansarda, con la fame che gli attanaglia le viscere. Questa fame, questa miseria che gli attacca alla pelle, lo renderà celebre in un batter d’occhio. Dimagrito, mezzo barbone, egli presenta una bozza di romanzo, scritto nella sua mansarda danese, a Edvard Brandes, fratello di Georg Brandes, amico danese ed ebreo di Nietzsche, grande critico del cristianesimo pauliniano, presentato come antenato del comunismo livellatore. Georg Brandes fa uscire questo abbozzo anonimamente nella rivista Ny Jord (”Terra Nuova”) ed il pubblico si entusiasma, i giornali reclamano testi di questo autore sconosciuto e così affascinante. L’era delle vacche magre è definitivamente terminata per Hamsun, a 29 anni. Fame descrive le esperienze dell’autore confrontate con la fame, i fantasmi che essa fa nascere, i nervosismi che essa suscita… Questo scritto d’introspezione colpisce le tecniche letterarie in voga. Esso coniuga romanticismo e realismo. E Hamsun scrive: “Quello che mi interessa è l’infinita varietà di movimenti della mia piccola anima, l’estraneità originale della mia vita mentale, il mistero dei nervi in un corpo affamato!…”. Quando Fame esce in forma di libro nel 1890, il pubblico scopre una nuova giovinezza dello scrivere, uno stile completamente nuovo, impulsivo, capriccioso, di un’infinita finezza psicologica, trasmesso da una scrittura viva, abbellita dalle forme sorprendenti in cui si esprime lo humour sarcastico, vitale, costruito di audaci paradossi, che Hamsun aveva già palesato nelle sue prime conferenze americane. Fame rivela anche un individualismo nuovo, giovanile e fresco. Hamsun scrive che i libri ci devono insegnare “i mondi segreti che si fanno, fuori dalla vista, nelle pieghe nascoste dell’anima, … quei meandri del pensiero e del sentimento; quegli andirivieni estranei e fugaci del cervello e del cuore, gli effetti singolari dei nervi, i morsi del sangue, le preghiere delle nostre midolla, tutta la vita inconscia dell’anima”. La fine del secolo deve lasciare posto all’individualità e alle sue originalità, alle complessità che non corrispondono ai sentimenti e all’anima dell’uomo moderno. Complessità che non sono stereotipate in abitudini gravose, nelle routine borghesi ma vagabondano e vedono, grazie al loro completo distacco, le cose nella loro nudità. Questo rapporto diretto con le cose, questo aggiramento delle convenzioni e delle istituzioni, permette l’audacia e la libertà di aggrapparsi all’essenziale, alle grandi forze telluriche e vieta il ricorso ai piccoli piaceri stereotipati, al turismo convenzionale. L’individuo che vagabonda tra se stesso e la Terra onnipresente non è l’individuo-numero, perduto in una massa amorfa, privo di ogni legame carnale con gli elementi.

In Fame, l’affamato si distacca dunque totalmente dalla comunità degli uomini; la sua interiorità ripiega su se stessa come quella del bambino Hamsun che vagabondava nella foresta, errava nel cimitero o si piazzava in cima ad una collina per assorbire le bellezze del paesaggio. L’affamato non sviluppa alcun rancore né rivendicazione contro la comunità degli uomini; egli non l’accusa. Si limita a constatare che il dialogo tra sé e questa comunità è divenuto impossibile e che solo l’introspezione è arricchimento.

Da queste impressioni di affamati, dall’impossibilità del dialogo individuo/comunità, decolla tutta l’antropologia che ci suggerisce Hamsun. Perché è senza dubbio inutile passare in rassegna la sua biografia, enumerare tutti i libri da lui scritti, se si passa a lato di questa implicita antropologia, onnipresente in tutta la sua opera. Se si trascura di darne una traccia, sia pure fugace, non si comprende nulla del suo messaggio metapolitico né del suo successivo impegno militante accanto a Quisling.

La società urbana, industriale, meccanizzata, pensa e afferma Hamsun, ha distrutto l’uomo totale, l’uomo intero, l’odalsbonde della tradizione scandinava. Essa ha distrutto i legami che uniscono ogni uomo totale agli elementi. Risultato: il contadino, strappato alla sua gleba e scagliato nelle città perde la sua dimensione cosmica, acquisisce sterili manie, i suoi nervi non sono più in comunione con l’immanenza cosmica e si agitano sterilmente. Se si parla in linguaggio heideggeriano, si può dire che il senso di abbandono urbano, modernista, precipita l’uomo nell’”inautenticità”. Sul piano sociale, la rottura dei legami diretti e immediati, che l’uomo rimasto integro mantiene con la natura, conduce ad ogni sorta di comportamento aberrante o all’errare, al vagabondaggio febbrile dell’affamato.

Gli eroi hamsuniani, Nagel di Misteri, soprannominato lo “straniero dell’esistenza”, e Glahn di Pan, sono delle comete, delle stelle strappate alle loro orbite. Glahn vive in comunione con la natura, ma dei capricci urbani, incarnati dall’immagine di Edvarda, donna fatale, gli fanno perdere questa armonia e lo portano al suicidio, dopo un viaggio nelle Indie, cerca assai febbrile quanto inutile. Entrambi vivono il destino di questi vagabondi che non hanno la forza di ritornare definitivamente alla terra o che, per stupidità, lasciano la foresta che li aveva accolti, come aveva fatto Hamsun all’epoca del suo breve sogno americano.

Il vero modello antropologico di Hamsun è Isak, l’eroe centrale de Il Risveglio della Gleba: Isak vive nei suoi campi, spinge il suo aratro, sviluppa la sua attività, persegue il suo compito, nonostante le elucubrazioni della sua sposa, le sciocchezze di suo figlio Eleseus che vegeta in città, si rovina e sparisce in America, nonostante l’impianto temporaneo di una miniera vicino al suo podere. Il mondo delle illusioni moderne turbina attorno ad Isak che resiste imperturbabile e vince. La sua impermeabilità naturale, tellurica, nei confronti delle manie moderne, gli permette di lasciare a suo figlio Sivert, il solo figlio che gli rassomigli, una fattoria ben organizzata e con un avvenire sicuro. Né Isak né Sivert sono “morali” nel senso puritano e religioso del termine. La natura che dà loro forza e consistenza non è una natura ideale, costruita, alla moda di Rousseau, ma una compagna dura; essa non è un modello etico, ma la sorgente primaria verso la quale ritorna il vagabondo che il modernismo ha distaccato dalla sua comunità e condannato alla fame nei deserti urbani.

E’ dunque nel vagabondaggio, nelle innumerevoli esperienze esistenziali che il vagabondo Hamsun ha vissuto tra i 14 e i 29 anni, nella coscienza che questo vagabondaggio è stato causato da queste illusioni moderniste che perseguitano i cervelli umani dell’età moderna e li spingono scioccamente a costruire dei sistemi sociali che escludono totalmente gli uomini originali; è in tutto questo che si è forgiata l’antropologia di Hamsun.

Prima di far uscire Fame, Hamsun aveva pubblicato una requisitoria contro l’America, paese dell’errare infruttuoso, paese che non racchiude alcuna terra in cui ritornare quando pesa l’erranza. Questo antiamericanismo, esteso ad un’ostilità generale verso il mondo anglosassone, rimarrà una costante nei sentimenti para-politici di Hamsun. La sua successiva critica del turismo di massa, principalmente anglo-americano, è un’eco di questo sentimento, abbinato all’umiliazione del fiero norvegese che vede il suo popolo trasformato in una popolazione di cameriere e di baristi.

Se questo pamphlet antiamericano, Fame, Pan, Victoria, Sotto la stella d’autunno, Benoni, ecc., sono le opere del primo Hamsun, del vagabondo ribelle e impetuoso, dello sradicato anche se conosce la propria intima ferita, il romanzo Un vagabondo suona in sordina (1909), che esce quando Hamsun raggiunge i cinquant’anni, segna una transizione. Il vagabondo di mezzo secolo guarda al suo passato con tenerezza e rassegnazione; egli ormai sa che è passata l’epoca dei sentimenti ardenti e adotta uno stile meno folgorante e meno lirico, più posato, più contemplativo. In compenso, il soffio epico e la dimensione sociale acquisiscono un’importanza maggiore. L’ambiente sofferto di Fame, il lirismo di Pan cedono il posto ad una critica sociale acuta, priva di ogni concessione.

E pure a 50 anni, nel 1909, che Hamsun si sposa per la seconda volta (un primo matrimonio era fallito) con Marie Andersen, di 24 anni più giovane, che gli darà numerosi figli e rimarrà al suo fianco fino alla fine. Il vagabondo diviene sedentario, ritorna contadino (Hamsun acquista diverse fattorie, prima di stabilirsi definitivamente a Nörholm), ritrova il suo angolo di terra e vi si attacca. L’avvenimento biografico si ripercuote nell’opera e l’innocente anarchico si spoglia dei suoi eccessi e si colloca nel suo “ideale”, quello incarnato da Isak. La trama de Il Risveglio della Gleba, è la coniugazione del passato vagabondo e del reintrecciarsi in un territorio, la dialettica tra l’individualità errante e l’individualità che fonda una comunità, tra l’individualità che si lascia sedurre dalle chimere urbane e moderne, dagli artifici ideologici e disincarnati, e l’individualità che porta a compimento il suo impegno, imperturbabilmente, senza lasciare la Terra degli occhi. La potenza di questi paradossi, di queste opposizioni, vale ad Hamsun il Premio Nobel della Letteratura. Il Risveglio della Gleba, con il suo personaggio centrale, il contadino Isak, costituisce l’apoteosi della prosa hamsuniana.

Vi si ritrova quella volontà di ritorno all’elementare che sostenevano specialmente Friedrich-Georg Jünger e Jean Giono.

Il modello antropologico hamsuniano corrisponde anche all’ideale contadino del “movimento nordico” che muove la Germania e i paesi scandinavi dalla fine del XIX secolo e che, in seguito, i nazionalsocialisti Darré e von Leers incarnano nella sfera politica. Negli anni 20 si affermano dunque in Hamsun tre opinioni politicizzabili:

1) il suo antiamericanismo e la sua anglofobia,

2) il suo astio nei confronti dei giornalisti, propagatori delle illusioni moderniste (Cf. Il redattore Lynge) e

3) la sua implicita antropologia, rappresentata da Isak.

A questa si aggiunge una frase, tratta dai Vagabondi: “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”. Qui è facile tracciare il parallelo con Ezra Pound ed il suo maestro, l’economista anarchizzante Silvio Gesell, per quel che concerne l’ostilità nei confronti delle banche. L’odio verso il meccanicismo industriale lo ritroviamo in Friedrich-Georg Jünger. E Hamsun non anticipa Baudrillard nello stigmatizzare i “simulacri”, che costituiscono la caratteristica delle nostre società dei consumi?

Davanti a questa offensiva del modernismo, bisogna, scrive Hamsun a 77 anni, in Il cerchio si chiude (1936), stare ai margini, essere un enigma costante per coloro che aderiscono alle seduzioni del mondo mercantile.

I quattro temi ricorrenti del discorso hamsuniano e la presenza ben ancorata nel pensiero norvegese dei miti romantici e nazionalisti del contadino e del vikingo, conducono Hamsun ad aderire al Nasjonal Sammlung di Vidkun Quisling, il leader populista norvegese. Questi opta nel 1940 per un’alleanza con il Reich che occupa fulmineamente il paese con la campagna d’aprile, in quanto la Francia e l’Inghilterra sono sul punto di sbarcare a Narvik e di violare simultaneamente la neutralità norvegese al fine di tagliare la strada del ferro svedese. Durante tutta la guerra, Quisling vuole formare un governo norvegese indipendente, incluso in una confederazione grande-germanica, alleata con una Russia sbarazzata dal sovietismo, in seno ad un’Europa in cui l’Inghilterra e gli Stati Uniti non avranno più alcun diritto d’intervento.

La “collaborazione” di Hamsun consiste nel difendere con la penna quella politica, quella versione del nazionalismo norvegese, e nello spiegare il suo impegno durante un congresso di scrittori nel 1943 a Vienna. Hamsun viene arrestato nel 1945, internato in un istituto per alienati, poi in un ospizio per anziani e infine portato davanti alla giustizia. Nel corso di questo penoso periodo, il nonagenario Hamsun redige la sua ultima opera, Sui sentieri dove ricresce l’erba (1946). Una lettera di Hamsun al Procuratore Generale del Regno merita ancora la nostra attenzione perché il tono che egli vi adotta è altero, beffardo, condiscendente: prova che lo spirito, le letteratura, il genio letterario, trascendono, anche nella peggiore avversità, il lavoro spregevole e mediocre dell’inquisitore. Hamsun il Ribelle, vecchio e prigioniero, rifiuta ancora di inchinarsi davanti a un Borghese, sia pure il supremo magistrato del regno. Un esempio…

Robert Steuckers

Fonte:http://www.centrostudilaruna.it/knuthamsunitinerario.html

 

vendredi, 05 décembre 2008

De l'illusion à la fidélité


« Ce fut une soirée remarquable, un tournant. Inger s'était écartée longtemps du droit chemin, et il avait suffi de la soulever un instant pour l'y faire rentrer. Ils ne parlèrent pas de ce qui s'était passé. Isak s'était senti honteux d'avoir agi de la sorte à cause d'un thaler, qu'il finirait par donner parce qu'il serait lui-même content de l'envoyer à Eleseus. Et puis, cet argent, n'était-il pas à Inger aussi bien qu'à lui ? Au tour d'Isak de se sentir humble !

Inger avait encore changé. Elle renonçait à ses manières raffinées et redevenait sérieuse : une femme de paysan, sérieuse et réfléchie, comme elle était auparavant. Penser que la rude poigne d'un homme pouvait accomplir de telles métamorphoses ! Il devait en être ainsi ! Une femme robuste et saine, mais gâtée par un long séjour dans une atmosphère artificielle, s'était heurtée à un homme qui se tenait solidement sur ses pieds. Il ne s'était pas laissé écarter un instant de sa place naturelle sur la terre, de son lopin. »

Knut Hamsun, « L'éveil de la glèbe »

jeudi, 20 novembre 2008

Paganisme et philosophie de la Vie chez Knut Hamsun et D. H. Lawrence

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Paganisme et philosophie de la vie chez Knut Hamsun et David Herbert Lawrence

 

Robert STEUCKERS

Conférence prononcée lors de la quatrième université d'été de la F.A.C.E., Lombardie, juillet 1996

 

Analyse: Akos DOMA, Die andere Moderne. Knut Hamsun, D.H. Lawrence und die lebensphilosophische Strömung des literarischen Modernismus, Bouvier, Bonn, 1995,

284 p., DM 82, ISBN 3-416-02585-7.

 

Le philologue hongrois Akos Doma, formé en Allemagne et aux Etats-Unis, vient de sortir un ouvrage d'exégèse littéraire, mettant en parallèle les œuvres de Hamsun et de Lawrence. Leur point commun est une “critique de la civilisation”, concept qu'il convient de remettre dans son contexte. En effet, la civilisation est un processus positif aux yeux des “progressistes” qui voient l'histoire comme une vectorialité, pour les tenants de la philosophie de l'Aufklärung et les adeptes inconditionnels d'une certaine modernité visant la simplification, la géométrisation et la cérébralisation. Mais la civilisation apparaît comme un pro­cessus négatif pour tous ceux qui entendent préserver la fécondité incommensurable des matrices culturelles, pour tous ceux qui constatent, sans s'en scandaliser, que le temps est plurimorphe, c'est-à-dire que le temps de telle culture n'est pas celui de telle autre (alors que les tenants de l'Aufklärung affirment un temps monomorphe, à appliquer à tous les peuples et toutes les cultures de la Terre). A chaque peuple donc son propre temps. Si la modernité refuse de voir cette pluralité de formes de temps, elle est illusion.

 

Dans une certaine mesure, explique Akos Doma, Hamsun et Lawrence sont héritiers de Rousseau. Mais de quel Rousseau? Celui qui est stigmatisé par la tradition maurrassienne (Maurras, Lasserre, Muret) ou celui qui critique radicalement l'Aufklärung sans se faire pour autant le défenseur de l'Ancien Régime? Pour ce Rousseau critique de l'Aufklärung, cette idéologie moderne est précisément l'inverse réel du slogan idéal  qu'elle entend généraliser par son activisme politique: elle est inégalitaire et hostile à la liberté, même si elle revendique l'égalité et la liberté. Avant la modernité du XVIIIième siècle, pour Rousseau et ses adeptes du pré-romantisme, il y avait une “bonne communauté”, la convivialité règnait parmi les hommes, les gens étaient “bons”, parce que la nature était “bonne”. Plus tard, chez les romantiques, qui, sur le plan politique, sont des conservateurs, cette notion de “bonté” est bien présente, alors qu'aujourd'hui on ne l'attribue qu'aux seuls activistes ou penseurs révolutionnaires. L'idée de “bonté” a donc été présente à “droite” comme à “gauche” de l'échiquier politique.

 

Mais pour le poète romantique anglais Wordsworth, la nature est “le théâtre de toute véritable expérience”, car l'homme y est confronté réellement et immédiatement avec les éléments, ce qui nous conduit implicitement au-delà du bien et du mal. Wordsworth est certes “perfectibiliste”, l'homme de sa vision poétique atteindra plus tard une excellence, une perfection, mais cet homme, contrairement à ce que pensaient et imposaient les tenants de l'idéologie des Lumières, ne se perfectionnera pas seulement en développant les facultés de son intellect. La perfection de l'homme passe surtout par l'épreuve de l'élémentaire naturel. Pour Novalis, la nature est “l'espace de l'expérience mystique, qui nous permet de voir au-delà des contingences de la vie urbaine et artificielle”. Pour Eichendorff, la nature, c'est la liberté et, en ce sens, elle est une transcendance, car elle nous permet d'échapper à l'étroitesse des conventions, des institutions.

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Avec Wordsworth, Novalis et Eichendorff, les thématiques de l'immédiateté, de l'expérience vitale, du refus des contingences nées de l'artifice des conventions, sont en place. A partir des romantiques se déploie en Europe, surtout en Europe du Nord, une hostilité bien pensée à toutes les formes modernes de la vie sociale et de l'économie. Un Carlyle, par exemple, chantera l'héroïsme et dénigrera la “cash flow society”. C'est là une première critique du règne de l'argent. John Ruskin, en lançant des projets d'architecture plus organiques, assortis de plans de cités-jardins, vise à embellir les villes et à réparer les dégâts so­ciaux et urbanistiques d'un rationalisme qui a lamentablement débouché sur le manchestérisme. Tolstoï propage un natura­lisme optimiste que ne partagera pas Dostoïevski, brillant analyste et metteur en scène des pires noirceurs de l'âme humaine. Gauguin transplantera son idéal de la bonté de l'homme dans les îles de la Polynésie, à Tahiti, au milieu des fleurs et des va­hinés.

 

Hamsun et Lawrence, contrairement à Tolstoï ou à Gauguin, développeront une vision de la nature sans téléologie, sans “bonne fin”, sans espace paradisiaque marginal: ils ont assimilé la double leçon de pessimisme de Dostoïevski et de Nietzsche. La nature, pour eux, ce n'est plus un espace idyllique pour excursions, comme chez les poètes anglais du Lake District. Elle n'est pas non plus un espace nécessairement aventureux ou violent, ou posé a priori comme tel. La nature, chez Hamsun et Lawrence, est avant tout l'intériorité de l'homme, elle est ses ressorts intérieurs, ses dispositions, son mental (tripes et cerveau inextricablement liés et confondus). Donc, a priori, chez Hamsun et Lawrence, cette nature de l'homme n'est ni intellectualité ni pure démonie. C'est bien plutôt le réel, le réel en tant que Terre, en tant que Gaïa, le réel comme source de vie.

 

Face à cette source, l'aliénation moderne nous laisse deux attitudes humaines opposées: 1) avoir un terroir, source de vitalité; 2) sombrer dans l'aliénation, source de maladies et de sclérose. C'est entre les deux termes de cette polarité que vont s'inscrire les deux grandes œuvres de Hamsun et de Lawrence: L'éveil de la glèbe pour le Norvégien, L'arc-en-ciel  pour l'Anglais.

 

Dans L'éveil de la glèbe de Hamsun, l'espace naturel est l'espace du travail existentiel où l'Homme œuvre en toute indépen­dance, pour se nourrir, se perpétuer. La nature n'est pas idyllique, comme celle de certains pastoralistes utopistes, le travail n'est pas aboli. Il est une condition incontournable, un destin, un élément constitutif de l'humanité, dont la perte signifierait dés-humanisation. Le héros principal, le paysan Isak est laid de visage et de corps, il est grossier, simple, rustre, mais inébran­lable, il est tout l'homme, avec sa finitude mais aussi sa détermination. L'espace naturel, la Wildnis, est cet espace qui tôt ou tard recevra la griffe de l'homme; il n'est pas l'espace où règne le temps de l'Homme ou plus exactement celui des horloges, mais celui du rythme des saisons, avec ses retours périodiques. Dans cet espace-là, dans ce temps-là, on ne se pose pas de questions, on agit pour survivre, pour participer à un rythme qui nous dépasse. Ce destin est dur. Parfois très dur. Mais il nous donne l'indépendance, l'autonomie, il permet un rapport direct avec notre travail. D'où il donne sens. Donc il y a du sens. Dans L'arc-en-ciel (The Rainbow)  de Lawrence, une famille vit sur un sol en toute indépendance des fruits de ses seules récoltes.

 

Hamsun et Lawrence, dans ces deux romans, nous lèguent la vision d'un homme imbriqué dans un terroir (ein beheimateter Mensch), d'un homme à l'ancrage territorial limité. Le beheimateter Mensch se passe de savoir livresque, n'a nul besoin des prêches des médias, son savoir pratique lui suffit; grâce à lui, il donne du sens à ses actes, tout en autorisant la fantaisie et le sentiment. Ce savoir immédiat lui procure l'unité d'avec les autres êtres participant au vivant.

 

Dans une telle optique, l'aliénation, thème majeur du XIXième siècle, prend une autre dimension. Généralement, on aborde la problématique de l'aliénation au départ de trois corpus doctrinaux:

1. Le corpus marxiste et historiciste: l'aliénation est alors localisée dans la seule sphère sociale, alors que pour Hamsun ou Lawrence, elle se situe dans la nature intérieure de l'homme, indépendemment de sa position sociale ou de sa richesse maté­rielle.

2. L'aliénation est abordée au départ de la théologie ou de l'anthropologie.

3. L'aliénation est perçue comme une anomie sociale.

Chez Hegel, puis chez Marx, l'aliénation des peuples ou des masses est une étape nécessaire dans le processus d'adéquation graduelle entre la réalité et l'absolu. Chez Hamsun et Lawrence, l'aliénation est plus fondamentale; ses causes ne résident pas dans les structures socio-économiques ou politiques, mais dans l'éloignement par rapport aux ra­cines de la nature (qui n'est pas pour autant une “bonne” nature). On ne biffera pas l'aliénation en instaurant un nouvel ordre socio-économique. Chez Hamsun et Lawrence, constate Doma, c'est le problème de la coupure, de la césure, qui est es­sentiel. La vie sociale est devenue uniforme, on tend vers l'uniformité, l'automatisation, la fonctionalisation à outrance, alors que nature et travail dans le cycle de la vie ne sont pas uniformes et mobilisent constamment les énergies vitales. Il y a im­médiateté, alors que tout dans la vie urbaine, industrielle et moderne est médiatisé, filtré. Hamsun et Lawrence s'insurgent contre ce filtre.

 

Dans la “nature”, surtout selon Hamsun et, dans une moindre mesure selon Lawrence, les forces de l'intériorité comptent. Avec l'avènement de la modernité, les hommes sont déterminés par des facteurs extérieurs à eux, tels les conventions, l'agitation politicienne, l'opinion publique qui leur donnent l'illusion de la liberté, alors qu'elles sont en fait l'espace de toutes les manipulations. Dans un tel contexte, les communautés se disloquent: chaque individu se contente de sa sphère d'activité auto­nome en concurrence avec les autres. Nous débouchons alors sur l'anomie, l'isolation, l'hostilité de tous contre tous.

 

Les symptômes de cette anomie sont les engouements pour les choses superficielles, pour les vêtements raffinés (Hamsun), signes d'une fascination détestable pour ce qui est extérieur, pour une forme de dépendance, elle-même signe d'un vide in­térieur. L'homme est déchiré par les effets des sollicitations extérieures. Ce sont là autant d'indices de la perte de vitalité chez l'homme aliéné.

 

Dans le déchirement et la vie urbaine, l'homme ne trouve pas de stabilité, car la vie en ville, dans les métropoles, est rétive à toute forme de stabilité. Cet homme ainsi aliéné ne peut plus non plus retourner à sa communauté, à sa famille d'origine. Pour Lawrence, dont les phrases sont plus légères mais plus percutantes: “He was the eternal audience, the chorus, the spectator at the drama; in his own life he would have no drama” (Il était l'audience éternelle, le chorus, le spectateur du drame; mais dans sa propre vie, il n'y avait pas de drame). “He scarcely existed except through other people” (Il existait à peine, sauf au travers d'autres gens). “He had come to a stability of nullification” (Il en était arrivé à une stabilité qui le nullifiait).

 

Chez Hamsun et Lawrence, l'Ent-wurzelung et l'Unbehaustheit, le déracinement et l'absence de foyer, de maison, cette façon d'être sans feu ni lieu, est la grande tragédie de l'humanité à la fin du XIXième et au début du XXième. Pour Hamsun, le lieu est vital pour l'homme. L'homme doit avoir son lieu. Le lieu de son existence. On ne peut le retrancher de son lieu sans le mutiler en profondeur. La mutilation est surtout psychique, c'est l'hystérie, la névrose, le déséquilibre. Hamsun est fin psychologue. Il nous dit: la conscience de soi est d'emblée un symptôme d'aliénation. Déjà Schiller, dans son essai Über naive und sentimen­talische Dichtung (= De la poésie naïve et sentimentale), notait que la concordance entre le sentir et le penser était tangible, réelle et intérieure chez l'homme naturel mais qu'elle n'est plus qu'idéale et extérieure chez l'homme cultivé («La concor­dance entre ses sensations et sa pensée existait à l'origine, mais n'existe plus aujourd'hui qu'au seul niveau de l'idéal. Cette concordance n'est plus en l'homme, mais plane quelque part à l'extérieur de lui; elle n'est plus qu'une idée, qui doit encore être réalisée, ce n'est plus un fait de sa vie»).

 

Schiller espère une Überwindung (= un dépassement) de cette césure, par une mobilisation totale de l'individu afin de combler cette césure. Le romantisme, à sa suite, visera, la réconciliation de l'Etre (Sein) et de la conscience (Bewußtsein),  combattra la réduction de la conscience au seul entendement rationnel. Le romantisme valorisera et même survalorisera l'“autre” par rapport à la raison (das Andere der Vernunft): perception sensuelle, instinct, intuition, expérience mystique, enfance, rêve, vie pastorale. Wordsworth, romantique anglais, exposant “rose” de cette volonté de réconciliation entre l'Etre et la conscience, plaidera pour l'avènement d'“un cœur qui regarde et reçoit” (A Heart that watches and receives). Dostoïevski abandonnera cette vision “rose”, développera en réaction une vision très “noire”, où l'intellect est toujours source du mal qui conduit le “possédé” à tuer ou à se suicider. Sur le plan philosophique, dans le même filon, tant Klages que Lessing reprendront à leur compte cette vision “noire” de l'intellect, tout en affinant considérablement le romantisme naturaliste: pour Klages, l'esprit est l'ennemi de l'âme; pour Lessing, l'esprit est la contre-partie de la vie, née de la nécessité («Geist ist das notgeborene Gegenspiel des Lebens»).

 

Lawrence, fidèle en un certain sens à la tradition romantique anglaise de Wordsworth, croit à une nouvelle adéquation de l'Etre et de la conscience. Hamsun, plus pessimiste, plus dostoïevskien (d'où son succès en Russie et son impact sur les écrivains ruralistes comme Belov et Raspoutine), n'a cessé de croire que dès qu'il y a conscience, il y a aliénation. Dès que l'homme commence à réfléchir sur soi-même, il se détache par rapport au continuum naturel, dans lequel il devrait normalement rester imbriqué. Dans les écrits théoriques de Hamsun, on trouve une réflexion sur le modernisme littéraire. La vie moderne, écrit-il, influence, transforme, affine l'homme pour l'arracher à son destin, à son lieu destinal, à ses instincts, par-delà le bien et le mal. L'évolution littéraire du XIXième siècle trahit une fébrilité, un déséquilibre, une nervosité, une complication extrême de la psychologie humaine. «La nervosité générale (ambiante) s'est emparée de notre être fondamental et a déteint sur notre vie sentimentale». D'où l'écrivain se définit désormais comme Zola qui se pose comme un “médecin social” qui doit décrire des maux sociaux pour éliminer le mal. L'écrivain, l'intellectuel, développe ainsi un esprit missionnaire visant une “correction po­litique”.

 

Face à cette vision intellectuelle de l'écrivain, Hamsun rétorque qu'il est impossible de définir objectivement la réalité de l'homme, car un “homme objectif” serait une monstruosité (ein Unding), construite à la manière du meccano. On ne peut ré­duire l'homme à un catalogue de caractéristiques car l'homme est changeant, ambigu. Même attitude chez Lawrence: «Now I absolutely flatly deny that I am a soul, or a body, or a mind, or an intelligence, or a brain, or a nervous system, or a bunch of glands, or any of the rest of these bits of me. The whole is greater than the part»  (Voilà, je dénie absolument et franchement le fait que je sois une âme, ou un corps, ou un esprit, ou une intelligence, ou un cerveau, ou un système nerveux, ou une série de glandes, ou tout autre morceau de moi-même. Le tout est plus grand que la partie). Hamsun et Lawrence illustrent dans leurs œuvres qu'il est impossible de théoriser ou d'absoluiser une vision claire et nette de l'homme. L'homme, ensuite, n'est pas le véhicule d'idées préconçues. Hamsun et Lawrence constatent que les progrès dans la conscience de soi ne sont donc pas des processus d'émancipation spirituelle, mais une perte, une déperdition de vitalité, de tonus vital. Dans leurs romans, ce sont toujours des figures intactes, parce qu'inconscientes (c'est-à-dire imbriquées dans leur sol ou leur site) qui se maintiennent, qui triomphent des coups du sort, des circonstances malheureuses.

 

Il ne s'agit nullement là, répétons-le, de pastoralisme ou d'idyllisme. Les figures des romans de Hamsun et de Lawrence sont là: elles sont traversées ou sollicitées par la modernité, d'où leur irréductible complexité: elles peuvent y succomber, elles en souffrent, elles subissent un processus d'aliénation mais peuvent aussi en triompher. C'est ici qu'interviennent l'ironie de Hamsun et la notion de “Phénix” chez Lawrence. L'ironie de Hamsun sert à brocarder les idéaux abstraits des idéologies mo­dernes. Chez Lawrence, la notion récurrente de “Phénix” témoigne d'une certaine dose d'espoir: il y aura ressurection. Comme le Phénix qui renaît de ses cendres.

 

Le paganisme de Hamsun et de Lawrence

 

Si cette volonté de retour à une ontologie naturelle est portée par un rejet de l'intellectualisme rationaliste, elle implique aussi une contestation en profondeur du message chrétien.

 

Chez Hamsun, nous trouvons le rejet du puritanisme familial (celui de son oncle Hans Olsen), le rejet du culte protestant du livre et du texte, c'est-à-dire un rejet explicite d'un système de pensée religieuse reposant sur le primat du pur écrit contre l'expérience existentielle (notamment celle du paysan autarcique, dont le modèle est celui de l'Odalsbond  des campagnes norvégiennes). L'anti-christianisme de Hamsun est plutôt a-chrétien: il n'amorce pas un questionnement religieux à la mode de Kierkegaard. Pour lui, le moralisme du protestantisme de l'ère victorienne (en Scandinavie, on disait: de l'ère oscarienne) exprime tout simplement une dévitalisation. Hamsun ne préconise aucune expérience mystique.

 

Lawrence, lui, perçoit surtout la césure par rapport au mystère cosmique. Le christianisme renforce cette césure, empêche qu'elle ne se colmate, empêche la cicatrisation. Pourtant, la religiosité européenne conserve un résidu de ce culte du mystère cosmique: c'est l'année liturgique, le cycle liturgique (Pâques, Pentecôte, Feux de la Saint-Jean, Toussaint et Jour des Morts, Noël, Fête des Rois). Mais celui-ci a été frappé de plein fouet par les processus de désenchantement et de désacralisation, entamé dès l'avènement de l'église chrétienne primitive, renforcé par les puritanismes et les jansénismes d'après la Réforme. Les premiers chrétiens ont clairement voulu arracher l'homme à ces cycles cosmiques. L'église médiévale a cher­ché au contraire l'adéquation, puis, les églises protestantes et l'église conciliaire ont nettement exprimé une volonté de retour­ner à l'anti-cosmisme du christianisme primitif. Lawrence: «But now, after almost three thousand years, now that we are al­most abstracted entirely from the rhythmic life of the seasons, birth and death and fruition, now we realize that such abstraction is neither bliss nor liberation, but nullity. It brings null inertia» (Mais aujourd'hui, après près de trois mille ans, maintenant que nous nous sommes presque complètement abstraits de la vie rythmique des saisons, de la naissance, de la mort et de la fé­condité, nous comprenons enfin qu'une telle abstraction n'est ni une bénédiction ni une libération, mais pure nullité. Elle ne nous apporte rien, si ce n'est l'inertie). Cette césure est le propre du christianisme des civilisations urbaines, où il n'y a plus d'ouverture sur le cosmos. Le Christ n'est dès lors plus un Christ cosmique, mais un Christ déchu au rôle d'un assistant so­cial. Mircea Eliade parlait, lui, d'un «Homme cosmique», ouvert sur l'immensité du cosmos, pilier de toutes les grandes reli­gions. Dans la perspective d'Eliade, le sacré est le réel, la puissance, la source de la vie et la fertilité. Eliade: «Le désir de l'homme religieux de vivre une vie dans le sacré est le désir de vivre dans la réalité objective».

 

La leçon idéologique et politique de Hamsun et Lawrence

 

Sur le plan idéologique et politique, sur le plan de la Weltanschauung,  les œuvres de Hamsun et de Lawrence ont eu un im­pact assez considérable. Hamsun a été lu par tous, au-delà de la polarité communisme/fascisme. Lawrence a été étiquetté “fasciste” à titre posthume, notamment par Bertrand Russell qui parlait de sa “madness” («Lawrence was a suitable exponent of the Nazi cult of insanity»;  Lawrence était un exposant typique du culte nazi de la folie). Cette phrase est pour le moins simpliste et lapidaire. Les œuvres de Hamsun et de Lawrence s'inscrivent dans un quadruple contexte, estime Akos Doma: celui de la philosophie de la vie, celui des avatars de l'individualisme, celui de la tradition philosophique vitaliste, celui de l'anti-utopisme et de l'irrationalisme.

 

1. La philosophie de la vie (Lebensphilosophie)  est un concept de combat, opposant la “vivacité de la vie réelle” à la rigidité des conventions, jeu d'artifices inventés par la civilisation urbaine pour tenter de s'orienter dans un monde complètement dé­senchanté. La philosophie de la vie se manifeste sous des visages multiples dans la pensée européenne et prend corps à partir des réflexions de Nietzsche sur la Leiblichkeit  (la corporéité).

2. L'individualisme. L'anthropologie de Hamsun postule l'absolue unicité de chaque individu, de chaque personne, mais re­fuse d'isoler cet individu ou cette personne hors de tout contexte communautaire, charnel ou familial: il place toujours l'individu ou la personne en interaction, sur un site précis. L'absence d'introspection spéculative, de conscience, d'intellectualisme abs­trait font que l'individualisme hamsunien n'est pas celui de l'anthropologie des Lumières. Mais, pour Hamsun, on ne combat pas l'individualisme des Lumières en prônant un collectivisme de facture idéologique. La renaissance de l'homme authentique passe par une réactivation des ressorts les plus profonds de son âme et de son corps. L'enrégimentement mécanique est une insuffisance calamiteuse. Par conséquent, le reproche de “fascisme” ne tient pas, ni pour Lawrence ni pour Hamsun.

 

3. Le vitalisme tient compte de tous les faits de vie et exclut toute hiérarchisation sur base de la race, de la classe, etc. Les oppositions propres à la démarche du vitalisme sont: affirmation de la vie/négation de la vie; sain/malsain; orga­nique/mécanique. De ce fait, on ne peut les ramener à des catégories sociales, à des partis, etc. La vie est une catégorie fondamentalement a-politique, car tous les hommes sans distinction y sont soumis.

4. L'“irrationalisme” reproché à Hamsun et à Lawrence, de même que leur anti-utopisme, procèdent d'une révolte contre la “faisabilité” (feasability: Machbarkeit),  contre l'idée de perfectibilité infinie (que l'on retrouve sous une forme “organique” chez les Romantiques de la première génération en Angleterre). L'idée de faisabilité se heurte à l'essence biologique de la nature. De ce fait, l'idée de faisabilité est l'essence du nihilisme, comme nous l'enseigne le philosophe italien contemporain Emanuele Severino. Pour Severino, la faisabilité dérive d'une volonté de compléter le monde posé comme étant en devenir (mais non un devenir organique incontrôlable). Une fois ce processus de complétion achevé, le devenir arrête forcément sa course. Une stabilité générale s'impose à la Terre et cette stabilité figée est décrite comme un “Bien absolu”. Sur le mode lit­téraire, Hamsun et Lawrence ont préfiguré les philosophes contemporains tels Emanuele Severino, Robert Spaemann (avec sa critique du fonctionalisme), Ernst Behler (avec sa critique de la “perfectibilité infinie”) ou Peter Koslowski (cf. NdSE n°20), etc. Ces philosophes, en dehors d'Allemagne ou d'Italie, sont forcément très peu connus du grand public, d'autant plus qu'ils criti­quent à fond les assises des idéologies dominantes, ce qui est plutôt mal vu, depuis le déploiement d'une inquisition sournoise, exerçant ses ravages sur la place de Paris. Les cellules du “complot logocentriste” sont en place chez les éditeurs, pour refu­ser les traductions, maintenir la France en état de “minorité” philosophique et empêcher toute contestation efficace de l'idéologie du pouvoir.

 

Nietzsche, Hamsun et Lawrence, les philosophes vitalistes ou “anti-faisabilistes”, en insistant sur le caractère ontologique de la biologie humaine, s'opposent radicalement à l'idée occidentale et nihiliste de la faisabilité absolue de toute chose, donc de l'inexistence ontologique de toutes les choses, de toutes les réalités. Bon nombre d'entre eux  —et certainement Hamsun et Lawrence—  nous ramènent au présent éternel de nos corps, de notre corporéité (Leiblichkeit).  Or nous ne pouvons pas fabri­quer un corps, en dépit des vœux qui transparaissent dans une certaine science-fiction (ou dans certains projets délirants des premières années du soviétisme; cf. les textes qu'ont consacrés à ce sujet Giorgio Galli et Alexandre Douguine; cf. NdSE n°19).

 

La faisabilité est donc l'hybris poussée à son comble. Elle conduit à la fébrilité, la vacuité, la légèreté, au solipsisme et à l'isolement. De Heidegger à Severino, la philosophie européenne s'est penchée sur la catastrophe qu'a été la désacralisation de l'Etre et le désenchantement du monde. Si les ressorts profonds et mystérieux de la Terre ou de l'homme sont considérés comme des imperfections indignes de l'intérêt du théologien ou du philosophe, si tout ce qui est pensé abstraitement ou fabri­qué au-delà de ces ressorts (ontologiques) se retrouve survalorisé, alors, effectivement, le monde perd toute sacralité, toute valeur. Hamsun et Lawrence sont les écrivains qui nous font vivre avec davantage d'intensité ce constat, parfois sec, des phi­losophes qui déplorent la fausse route empruntée depuis des siècles par la pensée occidentale. Heidegger et Severino en phi­losophie, Hamsun et Lawrence au niveau de la création littéraire visent à restituer de la sacralité dans le monde naturel et à revaloriser les forces tapies à l'intérieur de l'homme: en ce sens, ils sont des penseurs écologiques dans l'acception la plus profonde du terme. L'oikos et celui qui travaille l'oikos recèlent en eux le sacré, des forces mystérieuses et incontrôlables, qu'il s'agit d'accepter comme telles, sans fatalisme et sans fausse humilité. Hamsun et Lawrence ont dès lors annoncé la di­mension géophilosophique de la pensée, qui nous a préoccupés tout au long de cette université d'été. Une approche succincte de leurs œuvres avait donc toute sa place dans le curriculum de 1996.

 

Robert STEUCKERS.

dimanche, 09 novembre 2008

Knut Hamsun de volta

Knut Hamsun de volta

ex: http://penaeespada.blogspot.com/

Knut Hamsun de volta

Knut Hamsun, galardoado com o Prémio Nobel da Literatura em 1920, volta ao panorama editorial português pela mão da Cavalo de Ferro, com a publicação de “Fome”, traduzido do norueguês por Liliete Martins, com prefácio de Paul Auster e com a coragem de afirmar no breve texto de apresentação sobre o escritor: “figura social controversa, acusado de ser simpatizante nazi aquando da ocupação do seu país, tal como L.-F. Céline será, também ele, perseguido pela justiça depois da II Guerra Mundial e os seus livros queimados na praça pública”. Sim, porque nem só os regimes considerados “malditos” hoje queimaram livros, como alguns nos querem impingir. E, já agora — porque nunca é demais dizê-lo —, para mim, queimar livros é um crime hediondo.

No prefácio à edição portuguesa de “Pan”, publicada em 1955 pela Guimarães, o tradutor da obra, César de Frias, escreve: “Não poucas críticas hão proclamado esta obra de Knut Hamsun como a culminante no seu avultado e precioso legado literário. Se hesitamos em assentir nisso é porque nos merece também, embora por diferentes atributos, franca admiração o romance Fome — que, diga-se por tangência, sofre do equívoco de muitos lhe atribuírem, antes de o lerem e tocados apenas pelo tom angustioso do título, o carácter de obra de intuitos panfletários, grito de revolta contra as desigualdades e injustiças sociais, quando é somente, mas em elevado grau de originalidade, um singular documento humano e como tal considerado único nos anais do género. Não há burguês, por mais egoísta e cioso de sua riqueza, que, ao lê-lo, perca o apetite e o sono, por se lhe afigurar que de aquelas páginas vão surdir acerbas invectivas e punhos cerrados contra o que mais estima no Mundo. A ordem pública não corre ali o risco de uma beliscadura sequer, nem erra por lá o acusador fantasma da miséria do povo, convocado por tantos outros romancistas. A tal respeito não se poderia exigir coisa mais inócua e mansarrona. Assim o juramos à fé de quem somos.
Agora o que Pan tem mais a seu favor, o que lhe requinta a sedução, é o facto de ser um livro trasbordante de claridade e de poéticas intuições. Tutela-o, inspira-o de lés a lés — e isso conduziu o autor a denominá-lo de tal jeito — essa divindade grotesca mas amável, simplória e prazenteira como nenhuma outra, da arraia miúda das velhas teogonias mas tão imortal como os deuses da alta, que, em se pondo a tanger a sua frauta, faz andar tudo num rodopio. Baila ele, bailam à sua volta as ninfas, não há nada que não baile. E assim também cada um de nós se sente irresistivelmente levado na alegre ronda, pois do seu teor se desprende uma sugestão optimista e festiva. E a despeito de lhe sombrear o desfecho a morte do herói, a cujo convívio nos habituára-mos e se entranhara na nossa afeição — morte que é nota esporádica da novelística do autor, um dos que menos “assassinaram” as suas personagens, preferindo deixá-las de pé e empenhadas em prosseguir sempre na grande aventura da Vida —, termina-se a leitura com o espírito deliciosamente impregnado de um súbtil, inefável sabor a Primavera.
Referências blogosféricas para saber mais sobre Hamsun:

In Pena e Espada, 01 de Novembro de 2008

vendredi, 02 mai 2008

Connaître et aimer Knut Hamsun

Avec Michel d’Urance, une invitation à connaître et aimer Knut Hamsun

Pierre Le Vigan

Avec Michel d’Urance, une invitation à connaître et aimer Knut Hamsun
Dans la collection Qui suis-je ? de Pardès (initiative sympathique si ce n’est son dispensable thème astral qui clôt chaque volume), le jeune essayiste Michel d’Urance, rédacteur en chef d’Eléments, aborde un homme du grand Nord, et aussi un grand homme du Nord, l’écrivain norvégien Knut Hamsun. Le petit et gracieux ouvrage constitue une introduction à l’œuvre et à l’homme très rigoureuse, très complète sans être exhaustive bien entendu, et une excellente invitation à la lecture ou à la relecture, que l’on pourra aisément compléter par le numéro de Nouvelle Ecole sur le même thème (56, 2006).

Né en 1859, mort en 1952, Hamsun – ce « personnage original et puissant » comme disait Octave Mirbeau – est déjà de notre temps, de la première modernité en tout cas, sans l’être tout à fait : il n’a connu que la première phase de son déchaînement, il est vrai significative puisqu’elle comporte Hiroshima, Dresde février 45, les camps nazis, les camps staliniens, et aussi la TSF, l’avion, le téléphone. Hamsun a connu cela, et il a connu aussi le temps d’avant, celui que chacun d’entre nous n’a pas connu, le temps des chevaux, des charrettes, des dialogues sur la place du bourg, des amours cachés dans les foins et non sur le web.

Dans une œuvre longue, ponctuée par le prix Nobel en 1920, pour Les fruits de la terre (traduit sous le nom de L’éveil de la glèbe), le héros hamsunien, note d’Urance, « figure son époque par delà l’infinité ou la différence des personnages. » « Fixer l’ambiance d’époque, devenir un mémorialiste de son temps » c’est à cela, écrit encore justement d’Urance, que l’on reconnaît un grand écrivain. Ce héros hamsunien dit, comme celui de Balzac, l’époque et l’époque qui change – et l’homme qui change avec son époque. « Nous changeons même si c’est infime, dit l’un des personnages d’Hamsun. Aucune volonté, aussi stricte soit-elle, ne peut avoir d’influence sur cette progression naturelle (…). Du point de vue historique, le changement est un signe de liberté et d’ouverture » (Crépuscule, 1898).

Knut Pedersen-Hamsun a voyagé, notamment aux Etats-Unis, et a exercé plusieurs métiers. Il a vu les nuances du monde et c’est pourquoi il convient de porter sur lui un jugement plein de nuances. En Amérique, il est frappé par la solidité des bases morales données par la religion ainsi que par le patriotisme exagéré des Américains (August le marin, 1930). Il note l’excès de morale et la faiblesse de l’analyse, la faiblesse de ce que les Français appellent « l’esprit » qui caractérise ce peuple. Il est encore frappé par quelque chose d’une extrême dureté que l’on trouve selon lui dans la mentalité des Américains. En Caucasie, au contraire, ce qui lui parait décisif c’est que plus on va vers l’est, plus on va vers le silence, plus le sort de l’homme devient non plus de parler, mais d’écouter la nature, celle-ci devenant de plus en plus massive, de plus en plus tellurique. « J’en aurais toujours la nostalgie » écrit Hamsun.

Patriote norvégien – il est pour l’indépendance de son pays en 1905, au moment de la séparation avec la Suède -, moderniste en littérature, dénué de xénophobie et d’antisémitisme, qu’est-ce qui a poussé Knut Hamsun à se « rallier », avec des nuances bien entendu, au régime pro-allemand de Quisling de 1940 à 1945 et d’une manière plus générale à la cause de l’Allemagne national-socialiste et de l’Axe (un de ses fils sera combattant dans une unité de Waffen SS comme nombre de nordiques et de Baltes).

Ce choix aventureux - dans lequel Hamsun avait beaucoup à perdre et rien à gagner - n’est de fait pas venu par hasard, et Michel d’Urance éclaire de manière fine cet épisode qui donne un caractère de souffre à l’approche d’Hamsun dont les amitiés littéraires (il fut préfacé par André Gide notamment) n’avaient strictement rien de « fasciste ». Pour autant, il est exact que Hamsun était critique quant à la modernité, il est exact qu’il souhaitait un équilibre entre celle-ci et des valeurs traditionnelles comme la proximité avec la nature, l’expérience personnelle, toutes choses qui amenaient à critiquer les sociétés de masse, à refuser le communisme, à ne pas se satisfaire non plus du libéralisme et son culte du commerce. D’où un intérêt pour tout système paraissant ouvrir une nouvelle voie.

Il est de fait aussi que, trente ans avant l’arrivée de Hitler au pouvoir, Hamsun avait manifesté sa sympathie pour l’Allemagne. Il est de fait que l’Allemagne devenue nazie, sa sympathie n’a pas faibli. Comme beaucoup, Hamsun n’a pas voulu voir la réalité de l’antisémitisme nazi et a sous-estimé son extrême violence (dont les manifestations et l’aboutissement criminel n’étaient pas forcément décelable vu de Norvège, les nazis ayant mis en place une politique du secret et du camouflage qui trompa bien des observateurs). Bien entendu, des facteurs plus personnels sont à prendre en compte : Hamsun a 81 ans en 1940, et il est sourd. Sans aller jusqu’à dire que sa surdité explique sa cécité ( !) sur le nazisme, il est certain que ce handicap l’éloigne du monde. Hamsun est toutefois parfaitement lucide durant ces années. En 1940, il souhaite publiquement l’arrêt des combats et la collaboration de la Norvège avec le Reich. Sa principale motivation est la détestation des anglo-saxons et de leur civilisation. Nulle hystérie antisémite chez lui. Très vite, Hamsun est déçu de la forme que prend la politique de collaboration. Il reste toutefois fidèle à ses prises de position initiale. Le 7 mai 1945, il rend hommage dans la presse à Hitler en des termes lyriques et quasi-christiques (on pense à Alphonse de Chateaubriand), le présentant comme un homme qui « proclamait son évangile de la justice pour toutes les nations » et « une de ces figures éminentes qui bouleversent le monde » (la seule chose que l’on ne contestera pas, c’est le fait qu’Hitler ait bouleversé le monde en parachevant la catastrophe inaugurée en 1914 et qui a vu l’Europe presque au bord de la sortie de l’histoire. Cf. Dominique Venner, Le siècle de 1914, Pygmalion, 2006). En vérité, un entretien d’Hamsun avec Hitler en 1943 avait montré l’ampleur des malentendus, comme le montre bien Michel d’Urance. Hamsun était un idéaliste et rêvait d’une Europe nordique fédérée, faisant vivre une civilisation débarrassée des excès de l’économisme et Hitler était avant tout un pangermaniste darwinien, scientiste et ultra-moderniste qui souhaitait que la Norvège lui cause le moins de souci possible.

En 1945, Hamsun est mis en résidence surveillée puis jugé. Il est libéré au bout de 5 ans, il a alors 90 ans et est complètement ruiné. Il meurt 2 ans plus tard. On ne connaît pas de personnes qui ait été arrêtées suite à des dénonciations venant de lui, par contre, plusieurs personnes lui doivent la vie ou leur libération suite à des interventions qu’il a faite durant la guerre auprès des Allemands. Il avait écrit : « Il est bon que certains gens sachent comment un homme de fer se comporte devant une morsure de serpent ».

notes

Michel d’Urance, Hamsun, Qui suis-je, Pardès, 2007, 128 p., 12 €.