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vendredi, 10 mai 2019

L’altro ’68 tra Julius Evola e Jan Palach

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L’altro ’68 tra Julius Evola e Jan Palach

da Giovanni Sessa
Ex: http://www.barbadillo.it

Molti dei mali del nostro tempo hanno avuto una lunga incubazione storica. Non può, però, essere messo in dubbio che, un momento di evidente accelerazione dei processi di crisi, si sia mostrato, in modo lapalissiano, nel tanto mitizzato 1968 e nella contestazione studentesca. Due recenti pubblicazioni vengono, opportunamente, a ricordarcelo. Si tratta di Julius Evola, Scritti sul ’68, comparso nel catalogo dell’editore l’Arco e la Corte (per ordini: arcoelacorte@libero.it, pp. 130, euro 15,00), e del volume di Petr Vyoral, Jan Palach, Praga 1969. Una torcia nella notte, di recente nelle librerie per Ferrogallico (per ordini: info@ferrogallico.it, pp. 111, euro 15,00).

9788894398328_0_306_0_75.jpg   Il primo libro, come ricorda nell’informata Premessa Alessandro Barbera, raccoglie gli articoli che Evola pubblicò su il Borghese nel biennio 1968-1969, aventi per tema la contestazione, due suoi scritti apparsi su Il Conciliatore, nonché un’intervista rilasciata, per lo stesso mensile, a Gianfranco de Turris. Infine, un articolo pubblicato sul Roma nel 1971 e il capitolo tratto da L’arco e la clava, intitolato La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Chiude il volume, un’Appendice che riunisce scritti di Mario Tedeschi, Giano Accame ed Adriano Romualdi. Dalla lettura è possibile evincere l’effettiva posizione che il filosofo assunse nei confronti del movimento studentesco. Evola iniziò la propria collaborazione a il Borghese di Tedeschi, per chiamata diretta dello stesso Direttore. Questi non condivideva le posizioni fatte proprie, in tema di movimento studentesco e «cinesi» all’Università, da Giano Accame, intelligenza scomoda formatasi sui testi di Evola, ma aperta, lo ricorda Barbera, alla modernità. Mentre Accame rilevava assonanze teoriche di fondo tra il pensiero di Tradizione ed alcuni assunti teorici espressi dai francofortesi, gli interventi Evola, misero in luce come, nell’antropologia disegnata da Marcuse, emergesse un debito rilevante nei confronti del freudismo.

   L’uomo che i contestatori avevano in vista per il superamento della società ad una dimensione, vedeva il prevalere della spinta meramente pulsionale, legata ad un’idea di libertà quale puro svincolo, libertà-da e non libertà-per. Inoltre, Evola espresse una critica radicale del maoismo, ideologia sostanziata dal marxismo e da un nazionalismo collettivistico, del tutto alieno dall’idea di comunità tradizionale. Ciò lo indusse a prendere, con chiarezza, le distanze dai gruppi nazi-maoisti che sostenevano di ispirarsi alle sue idee, come ribadito anche nell’intervista concessa a de Turris. Sulle medesime posizioni si schierò lo stesso Adriano Romualdi. La vera urgenza, per Evola, non andava individuata nella contestazione al sistema, ma nella Rivolta contro l’intera civiltà moderna. Non esistendo strutture politiche, né partitiche, atte a tanto, sarebbe stato necessario dedicarsi alla formazione personale, spirituale ed esistenziale, per farsi trovare pronti al momento opportuno. Evola fu, dunque, lungimirante.

    Comprese che il ’68 era funzionale al sistema e che i contestatori avrebbero semplicemente scardinato, a favore dei padroni del vapore, il ruolo dei corpi intermedi, della famiglia, avrebbero soprattutto messo in atto l’assassinio del Padre, indispensabile figura della trasmissione della Tradizione, al fine di liberare l’energia sovversiva del capitalismo, fino ai limiti estremi. Coglie nel segno, nella postfazione, Manlio Triggiani nel sostenere che Evola criticò, ad un tempo, i contestatori, e quanti a destra svolsero il ruolo di guardie bianche del sistema, «liberando» le Università dai «cinesi» che le occupavano. Comprese, che, per costruire un Nuovo Inizio europeo, sarebbe stato necessario lasciarsi alle spalle la mera nostalgia, così come gli sterili richiami patriottardi.

   Il secondo volume che presentiamo è dedicato a Jan Palach e richiama l’attenzione sull’Altro Sessantotto, quello combattuto, oltre la cortina di ferro, non dai figli della borghesia americanizzata dell’Occidente, dai narcisi à la page, ma dai figli del popolo che lottavano per affermare, sacrificando la propria vita, la dignità dell’uomo e della Tradizione. Il libro è costituito da testi e da disegni. Presenta in modalità decisamente accattivante, nel fumetto ottimamente realizzato da Vyoral, la storia, personale e politica, di Jan Palach, «torcia n. 1» che il 16 gennaio 1969, in piazza  san Venceslao a Praga, si diede fuoco per protestare, non solo contro l’occupazione del suo paese da parte delle truppe sovietiche ma, ancor di più, per suscitare una reazione forte nei confronti dell’asfissia prodotta dal sistema comunista. La primavera di Praga era stata stroncata nel sangue: non si trattava di «riformare» il comunismo, ma di sconfiggerlo. Il fumetto è accompagnato e completato dai testi di Emanuele Ricucci, autore della Prefazione, e di Umberto Maiorca, a cui si deve la Postfazione. Il primo ricostruisce, con toni lirici e appassionati, le tragiche vicende del giovane studente universitario ceco, ricordando quanto asserito da Marcello Veneziani: «i sessantottini incendiarono il mondo pensando a sé stessi, mentre Palach incendiò se stesso pensando al mondo» (p. 7). Maiorca ripercorre, in modo organico e compiuto, la breve esistenza di Jan, sottolineando, a beneficio del lettore, che nei Paesi dell’Est europeo, molte furono, in quegli anni, le torce che si accesero, perché la verità tornasse a riempire, luminosa, la vita offesa dal comunismo. Il 25 gennaio 1969, si svolsero i funerali del martire: «in una Praga avvolta dal silenzio e da una pioggia sottile […] sotto un cielo grigio seicentomila persone scendono in strada» (p. 96).

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  I suoi resti mortali non trovarono pace. La sua tomba divenne luogo di culto e di pellegrinaggio, che il regime non poteva tollerare. Il corpo venne riesumato, cremato, e le ceneri consegnate alla madre. Solo nel 1974 furono nuovamente sepolte, ma sulla tomba, perché non fosse riconosciuta, comparvero le sole iniziali del nome, «J. P.». Il senso comune contemporaneo tende a relegare gesti come quelli di Palach, nelle forme del patologico, riducendolo alla categoria della «follia». Ciò è naturale, la società post-moderna non riconoscendo più il Padre, il precedente autorevole, può mai comprendere la quint’essenza dell’Eroe? Jan Palach l’ha pienamente incarnata. Resterà per sempre simbolo del nostro Sessantotto.

@barbadilloit

Di Giovanni Sessa