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dimanche, 14 septembre 2014

La Nato contro l’Europa?

La Nato contro l’Europa?

di Daniela Coli
Fonte: istitutodipolitica


untitledIl summit della Nato reduce dagli insuccessi in Afghanistan, Iraq e Libia poteva essere l’occasione di una riforma o addirittura di una scomparsa della Nato, come auspica Sergio Romano, per il quale l’Unione europea è prigioniera della Nato e non può sviluppare una propria politica estera autonoma dagli Stati Uniti. E’ difficile però immaginare un’Unione europea di ventotto paesi diversi per storia, interessi e geopolitica con una politica unica per Russia, Medio Oriente ed Africa. Ventotto paesi diversi che, in definitiva, affidano la direzione della propria difesa agli Stati Uniti possono anche essere giocati l’uno contro l’altro, o gli uni contro gli altri, se conviene al più forte. Basta pensare alla Libia, con francesi e inglesi alleati con Obama sotto le insegne della Nato a bombardare la Libia per mandare via gli italiani da un paese con cui l’Italia aveva appena firmato un trattato di collaborazione, come la Francia con l’Algeria. La Libia è la porta dell’Africa e destabilizzare la Libia significa destabilizzare l’Africa: non c’è da stupirsi se adesso l’Africa è insidiata dal terrorismo islamico e vari stati rischiano di trasformarsi in una nuova Somalia e in una nuova Libia. Il pericolo è ritrovarci con le bandiere nere di ISIS in casa, mentre gli Stati Uniti sono lontani, protetti da due oceani. L’Unione europea è troppo debole per avere una politica estera autonoma, da nord a sud è un’immensa base per ogni impresa americana: è diventata il cortile di casa americano, mentre l’America Latina si è emancipata, ha buoni rapporti con SCO (la Shanghai Cooperation Organization il cui summit si tiene il prossimo 11-12 settembre) capeggiata da Russia e Cina, e può addirittura vantare una piccola “reconquista” negli stati meridionali dell’America del Nord, dove lo spagnolo è ormai la seconda lingua.

Il summit Nato di Newton si è concluso con le dichiarazioni di Obama di una coalizione per distruggere ISIS e di cinque basi di intervento nei Paesi baltici per difendere l’Unione europea dall’imperialismo di Putin, anche se il presidente US ha dichiarato che non saranno inviati soldati americani nelle aeree di conflitto, ma solo aerei e droni. Il ministro della difesa britannico Philip Hammond ha precisato subito che per ora non vi è alcun impegno UK per attacchi aerei su ISIS. È lo stesso Hammond che nel giugno 2013, in visita in Afghanistan, disse che l’Iraq era il Vietnam britannico e l’UK non voleva altre guerre. Dopo il G8 in Irlanda, dove solo il nuovo Hitler Putin si oppose alla proposta di Obama di bombardare la Siria, il 29 agosto 2013 il parlamento britannico votò contro l’intervento in Siria: non accadeva dal 1872 che un governo britannico fosse battuto sulla guerra in parlamento. Poi è venuto il ciclone Farage alle europee a minacciare i partiti atlantici tory e laburista e un importante leader tory ha recentemente defezionato per il UKIP. Se teniamo conto degli interventi di Patrick Cockburn, corrispondente dal Medio Oriente dal 1979 per il Financial Times e ora per l’Independent, autorevole voce londinese, qualcosa sta muovendosi in Gran Bretagna. Per Cockburn l’invasione dell’Iraq del 2003 ha cambiato l’equilibrio globale del potere e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Nei giorni inebrianti della caduta di Saddam, gli americani dichiararono che dopo l’Iraq sarebbero caduti l’Iran e la Siria, provocando la mobilitazione iraniana e siriana a sostegno di tutti i nemici dell’America nell’area. Come se non bastasse, sciolsero l’esercito iracheno, che non aveva deciso di morire per Saddam e non aveva combattuto, innescando il conflitto tra sunniti, sciti e curdi. La Siria, in guerra civile da tre anni, è un pantano molto più profondo e pericoloso di quello iracheno, perché la guerra civile siriana ha devastato tutta la regione e non si comprende quale sarà il nuovo assetto del Medio Oriente dopo la fine dell’ordine Sykes-Picot: per ora sembrano trarne vantaggio solo i curdi sparsi tra Iraq, Siria, Turchia e Iran. In Siria hanno vissuto tranquillamente per secoli sciti, sunniti, cristiani e perfino ebrei. L’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) è il risultato della guerra in Iraq e dei tentativi americani e dei loro alleati di far cadere Assad, armando ribelli che adesso decapitano giornalisti americani. Nonostante gli attacchi aerei, sarà difficile fermare ISIS per il corrispondente britannico e anche un’azione della Nato insieme ad Assad è difficile riesca. Per Cockburn non è una guerra di religione, ma di YouTube. Sono i video postati su YouTube da attivisti politici e rilanciati dai media occidentali a caccia di immagini e notizie sensazionali che alimentano l’esercito di ISIS, il cui obiettivo è affermarsi anche in Europa e in Cina. I tanti giovani britannici di origine araba che vanno a combattere per ISIS non sono il risultato del Corano e di iman malefici. Sono il risultato di processi psicologici simili a quelli descritti nel Fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid: il giovane pakistano Changez, PhD a Princeton, superpagato analista finanziario di Wall Street, riscopre l’identità pakistana e musulmana nella New York post-9/11 terrorizzata da ogni faccia araba, che lo umilia trattandolo come un terrorista. Changez si sente diverso, è diverso, recupera la sua identità e vola in Pakistan. Nell’isteria della guerra globale al terrorismo possiamo immaginare quali effetti possano avere avuto sui giovani cittadini britannici, francesi, italiani, tedeschi o americani di origini araba i video della prigione di Abu Graib, dei piloti americani che da un elicottero Apache sparano su civili iracheni nelle strade di Baghdad o dei soldati americani che urinano su talebani morti in Afghanistan, senza contare le campagne di droni che uccidono civili come se fossero animali. Come sostiene Giovanni Sartori, la Gran Bretagna non è diventata multietnica e multiculturale per buonismo, ma per rifare l’impero. Un’idea antica: l’impero ottomano aveva i giannizzeri: rapiva bambini cristiani nei Balcani, soprattutto in Albania, li cresceva ed educava come ottomani e poi li mandava a uccidere nelle terre d’origine. I giovani britannici ed europei di origine araba che vanno a combattere per ISIS, come nel 2003 partivano per combattere in Iraq, non vogliono essere i giannizzeri dell’impero americano. ISIS non è una solo una sfida militare, ma, come sostiene Ernesto Galli della Loggia (Il Corriere della Sera, 7 settembre 2014), anche una sfida al multiculturalismo e ai valori americani, considerati astrattamente universali e da imporre in ogni caso a tutto il globo. È la sfida all’impero globale americano, ai suoi valori e miti, che noi europei accettiamo passivamente, trasformandoli subito in leggi sacre. Il video del giornalista americano Foley, sgozzato da un britannico di origine araba e i numerosi cittadini europei di origine araba (non solo britannici, ma anche francesi, italiani, tedeschi e americani) combattenti nelle file ISIS mostra il volto del multiculturalismo in Europa. I tanti video di giovani cittadini europei che invitano alla jihad fratelli e amici in Europa, rivelano il fallimento del multiculturalismo.

Inutile dare la colpa a Obama, accusandolo di non avere strategia: Obama si è comportato come ogni presidente americano, si è trovato ad affrontare il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e i problemi delle amministrazioni precedenti. Ha usato droni invece di aerei, ha bombardato dovunque in Afghanistan, Medio Oriente e Africa, ha ideato le arab springs o le twitter revolutions per scardinare l’assetto Sykes-Picot in Medio Oriente, ha attaccato la Siria armando ribelli islamici, ha distrutto la Libia e ora scarica droni in Somalia e Nigeria su terroristi islamici: ha prodotto il caos. Adesso c’è anche la Russia nel mirino americano. Pepe Escobar, l’autore di Globalistan: how the globalized world is dissolving into liquid war (2007), scrive spesso che gli Stati Uniti sono l’impero del caos. Nel caos, però, può esserci una strategia, una strategia pericolosa per l’Europa, perché gli Stati Uniti possono sempre ritirarsi protetti da due oceani, mentre l’Europa non può certo cambiare posizione geografica. L’Europa deve smettere di fare la bella addormentata in attesa del principe azzurro: può solo salvarsi, come ha fatto tante volte nella sua storia secolare, ritornando al realismo politico, perché la storia – sbagliava Fukuyama – non è finita.


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Henry Corbin: Eurasia como concepto espiritual

Henry Corbin: Eurasia como concepto espiritual

Ex: http://culturatransversal.wordpress.com 

Por Claudio Mutti*

Desde Irlanda a Japón

corbin.jpg“Subrayar y enfatizar las conexiones, las líneas de fuerza en las que se sustenta la trama del concepto espiritual de Eurasia, desde Irlanda a Japón” (1): a esta preocupación de P. Masson Oursel, que se inspira en un programa esbozado en 1923 en la Philosophie comparée y proseguido en 1948 en La Philosophie en Orient (2), Henry Corbin (1903-1978) le atribuye un “valor especial” (3). Trascendiendo el nivel de las determinaciones geográficas e históricas, el concepto de Eurasia viene a constituir “la metáfora de la unidad espiritual y cultural que recompondrá al final de la era cristiana en vista de la superación de los resultados de ésta” (4). Estas son, al menos, las conclusiones de un estudioso que en la obra corbiniana ha descubierto las indicaciones idóneas para fundar: “aquella gran operación de hermenéutica espiritual comparada, que es la búsqueda de una filosofía – o mejor dicho: de una sabiduría – eurasiática” (5). En otras palabras, la misma categoría geofísica de “Eurasia” no es más que la proyección de una realidad geosófica vinculada a la  Unidad originaria, puesto que “Eurasia” es, en la percepción interior, en el paisaje del alma o Xvarnah (“Luz de Gloria”, en el léxico mazdeo), la Cognitio Angelorum, la operación  autológica del Anthropos Téleios, o incluso, por último, la unidad entre el Lumen Naturae y la Lumen Gloriae.   De aquí la posibilidad de acercar a Eurasia con el conocimiento imaginal de la Tierra como un Ángel” (6).

Es el mismo Henry Corbin quien evoca la experiencia visionaria del filósofo alemán Gustav Theodor Fechner, que identificó con la figura de un Ángel el rostro de la tierra envuelta de luz gloriosa, y para citar el pasaje concordante de un ritual avéstico: “Celebramos esta liturgia en honor de la Tierra, que es un ángel ” (7). De hecho, según la doctrina mazdeísta, a la Tierra se la percibe en la “persona” de su Ángel, cuando el alma, proyectando la imagen de sí misma, crea una Imago Terrae que la refleja. La angelología mazdeísta traduce el misterio de esta proyección de la siguiente manera: Spenta Armaiti, Arcángel femenino de la existencia terrenal, es la madre de Daena, el Ángel femenino que sustancia a la Alma caelestis,  el Cuerpo de Resurrección.  De esta manera, “la formulación misma de la categoría geofísica de “Eurasia” pertenece al proceso de palingenesia, que es la Resurrección a la luz de la Transfiguración ” (8).

La geosofía mazdeísta, íntimamente vinculada con la esencial característica sofiánica de Spenta Armaiti , se refiere principalmente a una Tierra celeste; aplicada al espacio terrestre, se nos presenta un kyklos, un orbis, similar a lo que Homero ha simbolizado en el escudo de Aquiles y Virgilio en el de Eneas (9), es decir, para permanecer en el ámbito iránico, con ese atributo del Hombre Universal (insân-e kâmil) que es la Copa de Jamshid.  En esta representación, la Tierra está rodeada del océano cósmico y dividida en siete zonas (Keshvar) (10); en el centro de la zona central, llamada Xvaniratha (“rueda luminosa”), “se encuentra Airyanem Vaejah (pahlavi Erân-Vêj), la cuna o germen de los Arios (= Iránicos).  Es allí donde se crearon los Kayanidi, los héroes legendarios; es ahí donde fue fundada la religión mazdeísta, desde donde se difunden a los otros Keshvar; es allí donde nacerá el último de los Saoshyant quién reducirá a Ahriman a la impotencia y llevará a cabo la resurrección y la existencia venidera”(11).  Situado al centro de la superficie de la tierra, Irán se nos presenta por lo tanto, como “bisagra, no sólo geográfica, sino también y sobre todo espiritual” (12), de la ecúmene eurasiática.

La representación mazdeísta, posteriormente reelaborada, pasó a formar parte del legado cultural que Irán le trasmitió al Islam.  En el Kitab al-Tafhîm de Abû Rayhân Mohammad ibn Ahmad Bîrûnî (362 / 973 – 421 / 1030) (13) se encuentra un esquema en el cual el círculo central, Irán, está rodeado de otros seis círculos, tangentes entre sí, que corresponden a otras tantas regiones: India, Arabia y Abisinia, Siria y Egipto, la zona bizantino-eslava, el Turquestán, China y el Tíbet.

Oriente y Occidente

 

Según la perspectiva islámica, el centro del mundo terrestre se encuentra en la Kaaba, el más antiguo de los templos de Dios, inicialmente construido en la época de Adán, después edificado por Abraham en su forma actual. En la planta y la estructura de este santuario primordial y central meditó Qâzî Sa‘îd Qommî (1042/1633 – 1103/1691- 92) en el primer capítulo de la Kitâb asrâr al-Hajj (“El sentido esotérico de la Peregrinación”), que constituye el objeto de un minucioso estudio de Henry Corbin (14). “Siempre entra en juego – dice éste último – el mismo principio: las formas de luz (sowar nûrîya), las figuras superiores se imprimen en las realidades de abajo que son sus espejos (subrayemos que, geométricamente las consideraciones elaboradas aquí seguirían siendo válidas sí se tomara como objeto de meditación la forma del templo griego)” (15). Ahora, en el plano superior de las Realidades-arquetipos […] encontramos cuatro “límites metafísicos” (16), dos de las cuales (la Inteligencia Universal y el Alma Universal) se encuentran al este de la realidad ideal, mientras que las otras dos (la Naturaleza Universal y la Materia Universal) se encuentran hacia el oeste. La ley rigurosa de las correspondencias exige que en el plano de la Ka’ba terrestre, los ángulos estén igualmente dispuestos según el mismo orden de relación: “Dos de estos ángulos están hacia el oriente: el ángulo en el que está encajada la Piedra Negra (el ángulo iraquí) y el ángulo yemenita; los otros dos están al occidente: el ángulo occidental y el ángulo sirio “(17).  Son estos dos orientes (mashriqayni) y los dos occidentes (maghribayni) los que alude el versículo 17 de la sura del Misericordioso, puntualmente citado por Corbin.

El versículo coránico llama a otro, el que comienza con las palabras: “A Dios pertenece el Oriente y el Occidente” (sura de la Vaca, 115).  “Gottes ist der Orient! – Gottes ist der Okzident!”: es la forma en que la reconstruye Wolfgang Goethe, a quien Corbin nos muestra más de una vez la convergencia con la sabiduría islámica.  Pero la pareja “Oriente-Occidente ” retorna en el versículo de la Luz, en parte reportado en el epígrafe al primer capítulo de su estudio sobre El hombre de luz en el sufismo iranio: ”… una lámpara que arde con un aceite de olivo que no es ni de Oriente ni Occidente, inflamándose sin necesidad siquiera de que el fuego la toque… Y es luz sobre luz.

“Entre Oriente y Occidente, como entre Norte y Sur, recorren líneas ideales de las cuales dependen no sólo la orientación geográfica, sino también la categoría antropológica. En la perspectiva del simbolismo espiritual, estas direcciones horizontales asumen un sentido en base al modo en que el ser humano experimenta la dimensión vertical de su presencia en el espacio y en el tiempo; y es una orientación de este género lo que constituirá uno de los principales temas del sufismo iranio: “es la búsqueda de Oriente, pero se nos advierte, por si acaso no lo comprendamos desde el primer momento, que se trata de un Oriente que no se encuentra en nuestros mapas geográficos ni puede ser situado en ellos. Este Oriente no está incluido en ninguno de los siete climas (los keshvar); es, de hecho, el octavo clima. Y la dirección en que este “octavo clima” debe ser buscado no está en la horizontal sino en la vertical. Este Oriente místico suprasensible, lugar del Origen y el Retorno, objeto de la búsqueda eterna, está en el polo celeste; es el Polo, un extremo norte, tan extremo como el umbral de la dimensión del más allá” (18).  La geografía sagrada de Irán hace corresponder a este Polo celeste a la montaña cósmica de Qâf, donde comienza aquel mundo de Hûrqalyâ que es iluminado por el sol de medianoche. Es la tierra de los Hiperbóreos (19), los cuales “simbolizan al hombre cuya alma ha alcanzado tal perfección y armonía que está libre de negatividad y de sombra; no es ni de Oriente ni de Occidente” (20).

Ishraq, nombre verbal, que en árabe significa el irradiar del sol desde el punto del cual surge, es un término peculiar de la sabiduría islámica de Irán.  Ishrâqîyûn o Mashriqîyûn (“Orientales”) son los sabios de la antigua Persia, llamados así “ciertamente no sólo por su ubicación geográfica, sino porque su conocimiento era oriental, en el sentido que se fundamentaba sobre la revelación interior (kashf) y la visión mística (moshâhadat) “(21).  Sin embargo, el significado del Oriente como un Oriente iluminativo, dirección que conduce al Polo espiritual, no es un concepto que caracteriza exclusivamente al pensamiento tradicional iranio. “Esta orientación se daba ya a los mistagogos del orfismo. Se la encuentra en el poema de Parménides donde, guiado por las hijas del sol, el poeta emprende un viaje hacia Oriente. El sentido de las dos direcciones, derecha e izquierda, Oriente y Occidente del cosmos, es fundamental en la gnosis valentiniana. (…) Ibn ‘Arabi (1240) eleva a símbolo su propia partida a Oriente; del viaje que de Andalucía le lleva hacia La Meca y Jerusalén hace su Isra’, homologándolo a un ékstasis que repite la ascensión del Profeta de cielo en cielo hasta el “Loto del límite”. Aquí el Oriente geográfico, “literal”, se convierte en símbolo del Oriente “real”, el polo celeste” (22).

Umbilicus Terrae

En la geografía sagrada resultante de las exploraciones espirituales de Henry Corbin, el extremo occidental de Eurasia está representado por las Islas Británicas. Aquí los fieles de la iglesia celta primitiva fueron designados en irlandés como céle Dé: denominación que equivale a Amici Dei, “se encuentra en la gnosis islámica (Awliyâ’ Allâh) y en la mística renana (Gottesfreunde)” (23).  Estos Coli Dei, “establecidos en York (Inglaterra), en Iona (Escocia), en el país de Gales y en  Irlanda, su símbolo fundamental era la paloma, como símbolo femenino del Espíritu Santo.  Desde esta perspectiva, no resulta extraño encontrar el druidismo mezclado a su tradición y los poemas de Taliesin integrados a sus corpus.  Igualmente, la epopeya de la Mesa Redonda y la Demanda del Santo Graal han sido también interpretadas en relación con los ritos de los Coli Dei” (24). A esta misma hermandad espiritual es reconducida la existencia del santuario de Kilwinning, sobre la montaña de Heredom, desde donde se irradió aquel Orden Real por el cual el rey Robert I Bruce se habría afiliado a los Templarios, realizando la convergencia entre el celtismo y el templarismo.

En la otra extremidad de Eurasia se extiende la China “el límite del mundo humano, del mundo que puede ser explorado por el hombre en las condiciones de la conciencia común” (25).  Por otra parte, influencias taoístas se habrían ejercido sobre la hierocosmologia del sufismo centroasiático y sobre algunas técnicas de recitación del dhikr adoptadas por la escuela de Najm Kobra (26). Entre los templos que se levantan en los confines de China hay uno, descrito en el siglo X por el historiador árabe Mas‘ûdî (27), que en su estructura obedece al paradigma arquitectónico de los templos sabeos; el mismo Mas‘ûdî había visto aquel de Harrán (la antigua Carrhae), y pudo todavía leer en el umbral la inscripción de tenor platónico: “Aquél que se conoce a sí mismo es deificado” (Man ‘arafa nafsahu ta’allaha). “Inscripción de tenor platónico” (28), cierto, en el que “el término técnico árabe es el equivalente de la theosis de los místicos bizantinos” (29), pero también la explicación del precepto délfico, que finalmente será validado en el hadîth qudsî: “Quién se conoce a sí mismo conoce a su Señor ” (Man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu). Mientras tanto, los hermetistas sabeos de Harrán aportarán en dote al Islam su herencia, derivada de una antigua sabiduría siríaca o siriobabiloniense reinterpretada a la luz del neoplatonismo.

Equidistante de Escocia y China está Al-Quds, “la ciudad santa” por antonomasia. En el lugar donde inició la Asunción el Mensajero de Dios – según Corbin un verdadero Umbilicus Terrae – “asume ahí una función homóloga a la de la Piedra Negra en el templo de la Ka’ba” (30), la Cúpula de la Roca (Qubbat al-Sakhrat). Este edificio, comúnmente llamado la Mezquita de Omar, “tiene la forma de un octógono regular culminado por una cúpula; fue el prototipo de las iglesias templarias construidas en Europa, y la cúpula fue el símbolo de la Orden y figuraba en el sello del Gran Maestre” (31). Este entrelazamiento de líneas espirituales diferentes hace de Jerusalén el simbólico edificio microcósmico, en el que se refleja la multiplicidad tradicional del macrocosmos eurasiático, aquella multiplicidad de formas que Henry Corbin nos presenta en su unidad esencial.

La oposición radical entre Jerusalén y Atenas, identificadas como polos emblemáticos respectivamente del monoteísmo y el politeísmo, es el punto donde convergen entre ellos los zelotas de las supuestas “raíces judeo-cristianas” de Europa y algunos defensores de un malentendido “paganismo” griego.  Sostener una posición de este tipo, queriendo reducirle a un esquema ideológico a una relación más bien profunda, compleja y articulada de cuanto no se imaginan los “judeo-cristianos” y “neopaganos”, significa ignorar cómo la más rigurosa doctrina metafísica de la Unidad (el Tawhid integral de la metafísica islámica) no excluye de hecho la multiplicidad relacionada a la jerarquía de los Nombres Divinos. Entre los que han entendido perfectamente lo anterior, está justamente Henry Corbin, quien, mediante el establecimiento de una ideal “comparación, por una parte entre Ibn ‘Arabî  (…) y Proclo, por otra” (32) y recordando el comentario del jefe de escuela de Atenas al Parménides platónico, evoca el encuentro de los físicos de la escuela jónica con los metafísicos de la Escuela Itálica, unos y otros se encuentran en la ciudad-símbolo de Atenas para participar en las Panateneas. “Celebrar esta fiesta – él escribe- es encontrar en la escuela ática de Sócrates y Platón la mediación que eleva los dos extremos a un nivel superior” (33).

 

1. Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, Guida, Napoli 1992, p. 62.

2. P. Masson-Oursel, La Philosophie en Orient, in Histoire de la philosophie, a cura di É. Bréhier, Paris 1948, 1° fasc. suppl.

3. Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, cit., ibidem.

4. Glauco Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis 2004, p. 14

5. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 221

6. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16.

7. Sîrôza, vigésimo octavo día, op. cit.: Henry Corbin, Cuerpo espiritual y Tierra Celeste. Del Irán mazdeísta al Irán chiíta, Ediciones Siruela, Madrid, 1996, p. 37.

8. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16, n. 25.

9. Ilíada, XVIII, 478-608; Eneida, VIII, 626-728.

10. La división septenaria del espacio terrestre que se repite en otras culturas tradicionales: cf. Claudio Mutti, Gentes. Popoli, territori, miti, Effepi, Genova 2010, pp. 19-20.

11. Henry Corbin, Cuerpo espiritual y Tierra Celeste, cit., p. 51.

12. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 22.

13. Henry Corbin, Historia de la Filosofía. Del mundo romano al Islam Medieval, vol. 3. Siglo veintiuno editores, México DF, 1990, pp 307-308.

14. Henry Corbin, Templo y contemplación, Editorial Trotta, Madrid, 2003, pp. 181-257.   Sobre Qâzî Sa’îd Qommî, cf. Henry Corbin, Historia de la Filosofía. La Filosofía en Oriente, vol. 11. Siglo veintiuno editores, México DF, 1990, p. 154-157

15. Henry Corbin, Templo y contemplación cit., p. 206.

16. Henry Corbin, Templo y contemplación cit., p. 207.

17. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 207.

18. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, Ediciones Siruela, Madrid, 2000, p. 20.

19. Sobre la Hiperbórea y similares representaciones tradicionales de la septentrional “Tierra de luz”, cf. Claudio Mutti, op. cit., pp 15-23.

20. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., p. 56.

21. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 211.

22. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., págs. 73-74.

23. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 342 n. 217.

24. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 342.

25. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 132.

26. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., pp. 72 y 77 y ss.

27. Mas’ûdî, Les prairies d’or, ed. e trad. Barbier de Maynard, Paris 1914, vol. IV, p. 52.

28. Henry Corbin, Templo y contemplación,  cit., p. 133.

29. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 133, n 7.

30. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 351.

31. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 334.

32. Henry Corbin, La paradoja del monoteísmo, Editorial Losada, Madrid, 2003, p. 22.

33. Henry Corbin, La paradoja del monoteísmo, cit., p. 30.

 

* Claudio Mutti es licenciado en Filología Finohúngara por la Universidad de Bolonia. Se ha ocupado del área cárpato-danubiana desde un perfil histórico (A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003), etnográfico (Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997) y cultural (Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice Barbarossa, Milano 1994; Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999). Entre sus últimas publicaciones están Gentes. Popoli, territori, miti, (Effepi, Genova 2010), L’unità dell’Eurasia (Effepi, Genova 2008), Imperium. Epifanie dell’idea di Impero (Effepi, Genova 2005).