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jeudi, 06 septembre 2018

Il fondamentalismo protestante negli USA

Alcune note su religiosità evangelical e dissimulazione della postmodernità

Gli avvenimenti succedutisi dopo gli attentati dell’11/9/2001 hanno sensibilmente accresciuto l’interesse deimedia sulla questione delle relazioni tra USA ed Europa e tra il cosiddetto “Occidente” – che queste rappresenterebbero – e il mondo islamico. Tenuto conto che le vaghe nozioni di “Occidente” e di “Islam”, come è stato a lungo ripetuto, non possono sic et simpliciter rimandare a blocchi culturalmente monolitici, è lecito,da europei, chiedersi se il primo dei due concetti possa correttamente indicare la sostanziale unità di “visioni del mondo” ­­– e quindi di intenti geopolitici – tra gli Stati Uniti d’America e l’Europa (un’Europa che, peraltro, consiste attualmente solo in un moloch burocratico privo di una politica e di un esercito comuni, senza considerare gli enormi squilibri economici che la caratterizzano al suo interno).

Prendiamo le mosse dalla storia religiosa, a nostro parere punto di osservazione privilegiato per tentare di comprendere le dinamiche culturali sottese alla formazione dell’identità americana, che, senza menzionare altri influssi certamente determinanti ma posteriori, può essere a ragione ritenuta un’identità “religiosa”, nello specifico fondata sul protestantesimo di orientamento congregazionalista. Come è noto, la società statunitense si costituì a partire da una frattura con quella europea; per i Pilgrim Fathers, i poco più di 100 puritani inglesi che nel 1620, sbarcati dal Mayflower, fondarono la colonia di Plymouth (Massachussets), l’Europa costituiva una realtà oppressiva da cui separarsi per inaugurare una nuova civiltà (se si dà uno sguardo ai biglietti americani da un dollaro, vi si legge l’inequivocabile mottoNovus Ordo Seclorum)[1]: in questo senso, gli USA possono essere considerati da un lato come il prodotto storico-culturale del rifiuto europeo di una Weltanschauung calvinista radicale, dall’altro come il tentativo di formazione, per l’appunto, di un nuovo ordine, fondato su principi etico-religiosi incompatibili con quelli del vecchio continente. 

Attualmente, il camaleontico panorama religioso a stelle e strisce è caratterizzato dalla presenza di un crogiolo di fedi e credenze nel quale non è sempre facile districarsi: ad una robusta dose di cattolicesimo non del tutto romano si giustappongono ­– per citare due forme di espressione del “sacro” tipicamente statunitensi – le evasioni neo-gnostiche del New Age e la più inquietante deriva satanica, nelle sue declinazioni “acida” ovvero “occulta”; oltre, ovviamente, alla galassia delle denominazioni protestanti, che vanno dalle Chiese liberal che ammettono il sacerdozio femminile e sdoganano l’omosessualità alle apparentemente sedate milizie antigovernative: il pluralismo, si dirà, è l’anima della democrazia (in particolare statunitense).

Ora, i principi informatori del congregazionalismo seicentesco costituiscono il punto di partenza di un iter che, sulla base del minimo comune denominatore del ritorno ai fundamentals della fede e di una ermeneutica biblica rigidamente letterale – ciò che inevitabilmente produce una prospettiva di stampo apocalittico-millenaristico –, ha condotto alla nascita del cosiddetto “fondamentalismo”, venuto alla luce per l’appunto in contesto protestante statunitense nei primi decenni del XX secolo. Oggi una tale tendenza si concentra per lo più nell’ambito delle denominazioni pentecostali, battiste ed evangelical, riscuotendo particolare successo fra i ceti medio-borghesi e nelle aree rurali della Bible belt; ma non risulta essere assente neanche negli stati a forte maggioranza liberal, motori dell’economia e della cultura americana, quali New York e California.

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Il fondamentalismo, categoria tassonomicamente utilissima ma necessariamente generalizzante (in quanto costituita a partire da un processo di astrazione), costituisce negli USA un fenomeno articolato, anche in ragione della complessità della società in cui è inserito: in primis, esso non è in toto riducibile – come talune generalizzazioni giornalistiche sembrerebbero far credere – all’ambito della destra religiosa[2], sebbene questa ne abbia spesso egemonizzato la visibilità a livello mass-mediatico e l’influenza a livello politico. A tal riguardo, si pensi al caso dell’ex presidente degli Stati Uniti J. Carter, battista georgiano di orientamento politicamente e teologicamente progressista (a motivo del quale si è staccato dalla Chiesa battista del sud, che al contrario mantiene posizioni conservatrici in materia di omosessualità, sacerdozio femminile ed evangelizzazione degli ebrei)[3]; si noti in particolare che l’orizzonte dei valori etici dei protestanti “radicali” à la Carter, fondato sull’umanitarismo e sul solidarismo, risulta essere indubbiamente più prossimo ai fermenti controculturali di fine anni ’60 che agli orientamenti della medesima destra religiosa. Anche sulla questione centrale delle relazioni tra fede e politica, il fondamentalismo statunitense propone una serie di posizioni contrastanti, che spazia dall’assoluto disimpegno degli Amish – dipendente dal loro “escatologismo spiritualizzato” di fondo – alla prepotente pressione esercitata sull’amministrazione Bush, all’inizio del nuovo millennio, dalla religious right, che tende alla sacralizzazione della nation under God: sacralizzazione che, nelle discutibili elucubrazioni di P. Robertson, massimo rappresentante dei telepredicatori statunitensi ed intimo di G.W. Bush, si realizzerà secondo il modello di una teocrazia americano-cristiana che, a parte la difficoltà storica di applicare un tale sistema nell’ambito del Cristianesimo (per di più anglosassone!), appare certamente meno una opzione meditata che non una involontaria parodia di lontani e maldigeriti echi provenienti da certa teologia politica medioevale. L’adesione ad una chiesa fondamentalista, peraltro, garantisce generalmente una esperienza emotivamente forte e totalizzante, in cui non vi è posto per la separazione tra vita e fede – e dunque tra politica e religione –, semplicemente perché la prima è inglobata nella seconda: dal che promana un sostanziale disconoscimento del principio occidentale (statunitense) di separazione dell’autorità civica da quella religiosa.

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Agli occhi di un europeo, le modalità di estrinsecazione del culto delle sette protestanti determinano, in linea generale, due ordini di reazioni: da un lato, di fronte alle forme di espressione rituale della “Chiesa elettronica”, vi è l’impressione di un trattamento “grossolano” del sacro, neanch’esso esentato da quella tendenza alla spettacolarizzazione che costituisce uno dei tratti essenziali dell’American way of life; dall’altro, la liturgia e l’iconografia in uso in special modo presso le chiese calviniste suscitano la percezione di una assenza della dimensione simbolica: ciò si manifesta significativamente secondo le polarità, opposte ma in certo senso convergenti, dell’eccesso e della “semplificazione”. Nell’arcipelago fondamentalista si passa, infatti, da “chiese” che sono teatri, palazzetti dello sport o stadi, nei quali la musica gospel e rock (!) fa da contraltare ad un atteggiamento e ad un vestiario sommamente irrituali, a luoghi di culto freddi, spogli e banali, del tutto privi dei simbolismi propri dell’arte cristiana tradizionale.

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Il fondamentalismo statunitense, piuttosto che attuare il topos protestante del recupero del Cristianesimo originario, sembra quindi, da questo punto di vista, dar luogo ad una “fuga in avanti” che mescola un’attitudine postmoderna inevitabilmente influenzata dallo stile di vita statunitense, una teologia ridotta appunto ai fundamentals e la riduzione della religiosità ad ethos e/o ad esperienza emotiva: la religione è, in specie nel caso emblematico dei pentecostali, spiritual healing, culto di guarigione, ovvero counselling, cura pastorale talora esperibile via cavo. Le derive “miracolistiche” non sono peraltro del tutto sconosciute nel cattolicesimo, manifestandosi in particolare nell’ambito del movimento del “Rinnovamento nello Spirito” – che gode di solidi sostegni anche all’interno della Chiesa romana –, all’interno del quale, non a caso, si “scavalca” di fatto la gerarchia ecclesiastica (in altro abito, negli “scrutini” dei neocatecumenali, un laico può giudicare i progressi spirituali di un sacerdote, decidendone l’avanzamento ai livelli superiori del “cammino”): in questo senso, una relazione “pubblica” con il sacro assolutamente priva di mediazioni non può non avere come corollario la negazione dell’idea di gerarchia. Inoltre, lo spirito “settario”, elemento che accomuna i pentecostali ai carismatici nostrani, costituisce sia una indiscutibile forza di attrazione verso tali movimenti – garantendo al fedele la partecipazione ad un sistema chiuso ed autoreferenziale, che propone una visione del mondo accessibile a tutti e delle risposte chiare ai quesiti essenziali –, sia la sua intrinseca debolezza, impedendo in tal modo l’adesione ai movimenti in questione da parte di fette maggiori di credenti.

Ad ogni modo, il fondamentalismo costituisce, a ben guardare, l’altra faccia del laicismo, rispetto al quale si è storicamente posto come reazione: reazione in specie rivolta contro l’illanguidimento delle Chiese storiche protestanti, compromesse, mediante l’elaborazione di una teologia “liberale”, con i processi di laicizzazione/secolarizzazione operanti in Occidente; la posizione al riguardo della destra religiosa, al contrario improntata alla valorizzazione pubblica della fede cristiana, risulta significativamente in contrasto con la linea dello stesso protestantesimo “tradizionale”, se si pensa solamente al fatto, da tempo acclarato sulla base dei celeberrimi studi di M. Weber, che è stata proprio l’etica protestante (nello specifico calvinista) ­– e non genericamente “il Cristianesimo” – a plasmare il capitalismo e, di rimando, il mondo moderno con il suo corollario di riduzione della fede a fatto privato[4].

Tuttavia, il rimedio fondamentalista al decadimento del protestantesimo istituzionale, cui si faceva cenno sopra, rischia di rivelarsi più problematico del male che vorrebbe curare, essendo privo di autorevoli riferimenti ad un saldo “centro”. Inevitabili sono, in tal senso, ulteriori degenerazioni, di segno apparentemente opposto, ad esempio di ordine “sincretistico”: a dimostrazione di ciò, si pensi al caso della Chiesa cristiana avventista del settimo giorno, che mescola un messianismo a base di continue profezie sulla parousía – peraltro costantemente smentite dai fatti! –, usanze ebraiche (il sabato come giorno di riposo), un salutismo tipicamente moderno inaugurato dai corn flakes del dott. Kellog ed un orientamento politicamente e socialmente progressista, fondato su di una ideologia umanitaria ed espresso, tra l’altro, nella ferma condanna della pena di morte (ciò in netta controtendenza rispetto alle altre Chiese evangelical)[5]. A questo proposito, ci sembra che una tale problematicità derivi essenzialmente da quello che può essere considerato il “peccato originale” del protestantesimo, condotto alle estreme conseguenze nei suoi (inevitabili?) esiti fondamentalisti: l’incomprensione del fatto che, laddove la relazione “privata” del credente con Cristo è eminentemente personale e diretta, quella “pubblica” con il sacro – implicante in primo luogo l’interpretazione del testo biblico – deve di necessità assumere una mediazione ecclesiastica autorevole.

Alcuni temi etici concernenti in particolare il versante della difesa della vita, portati avanti per lo più dalla destra religiosa, inoltre, non contrastano con il magistero della Chiesa romana; anzi, in alcuni casi la critica dei telepredicatori alla ingiustizia di alcuni provvedimenti legislativi in materia di aborto e di eutanasia sembra essere più convinta di quella cattolica, grazie ai toni generalmente urlati che contraddistinguono gli infiammati sermoni dei pastori fondamentalisti (si pensi anche alla questione della preghiera nelle scuole pubbliche, sulla quale gli ambienti evangelical continuano a dare battaglia: questione, tra l’altro, inestricabilmente legata al principio di laicità dello stato, in merito al quale si sono più volte favorevolmente pronunciati gli esponenti del protestantesimo storico): in effetti, a parte gli irriducibili contrasti a livello antropologico, ecclesiologico e teologico con la Chiesa cattolica ed ortodossa, colpiscono le forme del discorso pubblico proprie della “Chiesa elettronica”. In questa declinazione postmoderna della fede cristiana è del tutto assente – anzi, è negata ­– la nozione di tradizione, perlomeno nell’intendimento cattolico e ortodosso del termine. In realtà, la prospettiva dei settori più aggressivi degli evangelical americani è basata sulla necessità di una “guerra culturale” – ciò che riduce il Cristianesimo a fatto politico e morale.

Preaching_at_Bele_Chere_2007.jpgIl protestantesimo, e a maggior ragione le sue derive fondamentaliste, costituiscono dunque la recisa opposizione al Cristianesimo “tradizionale”, annoverando tra i loro principi fondanti un’antropologia tendenzialmente disincarnata, il recupero di una dimensione morale che sfocia spesso nel moralismo, la tesi della predestinazione assoluta calvinista, che rischia di ridurre l’uomo a “burattino” della divinità, la critica del ritualismo cattolico; si aggiungano a ciò il totale misconoscimento della nozione di gerarchia, operato in virtù di un livellamento democratico ed egualitario tipicamente anglosassone, e la commistione tra un’ostentata morigeratezza pubblica (cui non sempre corrisponde un’analoga condotta privata…) ed un individualismo che trova la sua sublimazione nel liberismo economico: uno dei classici topoi, quest’ultimo, del discorso di certo protestantesimo, estremizzato dalla asserzione calvinista secondo cui il successo economico è segno della benedizione divina. A questo proposito, si dovrà prima o poi riconoscere che le presunte “conquiste” della società postmoderna (comunque quasi esclusivamente di ordine tecnologico e materiale) dipendono in larga misura dal notevole abbassamento degli standards morali in uso presso la civiltà occidentale[6], e sono state ottenute a costo di una gigantesca sperequazione nella distribuzione delle ricchezze: ciò che costituisce il portato di una concezione mercantilistica dell’esistenza (applicata persino alla divinità!), concezione di cui l’assunto calvinista sopra citato rappresenta un significativo esempio.

Per concludere queste brevi osservazioni, ci sia concessa una provocazione di ordine storico-culturale. La civiltà postmoderna, nata con la legittimazione morale del bombardamento atomico di Hiroshima, operazione che ha contribuito a liberare l’umanità dal tabù dell’indiscriminato massacro di civili[7] e dall’imperativo etico della pietà per i vinti, può essere considerata in questo senso l’esito apocalittico dell’utilitarismo liberale di scuola anglosassone. La giustificazione di quella immane strage – che ha costituito la eloquente dimostrazione della barbarie della guerra moderna (si badi bene: non tanto della guerra in sé, ma della guerra moderna) – ha determinato il definitivo collasso di un Occidente già in crisi secolare: in una parola, la morte dell’Europa. Pure, siamo certi che l’avanzamento politico della destra evangelica, in particolare negli anni dell’amministrazione Bush jr, abbia coinciso con il riemergere del sacro negli Usa? Oppure eravamo di fronte ad una colossale, ma al tempo stesso sottile dissimulazione di concreti interessi economici e geopolitici – peraltro contrastanti con quelli del resto del mondo –, che si occultavano dietro la maschera di quei “valori cristiano-americani” formalmente accettabili (e spesso in buona fede e sostanzialmente accettati) agli occhi di un’opinione pubblica spesso fuorviata dalla “civiltà delle immagini”?

Marco Toti.



[1]D. Fennell, La fragilità della civiltà postoccidentale, Trasgressioni, 28, maggio-agosto 1999, 68-69.

[2]P. Naso, God bless America. Le religioni degli americani, Roma 2002, 67-68.

[3]Ibidem, 68-69.

[4]A tal proposito, riteniamo in questa sede opportuno smascherare il gigantesco equivoco, alimentato in Italia da potenti lobbies di “atei devoti” e di più o meno “strani cristiani”, rappresentato dalla tesi della “discendenza diretta” del liberalismo classico  ­– e dunque di uno dei fondamentali nutrimenti ideologici del mondo moderno ­– dal Cristianesimo (ovvero dal cattolicesimo: ma il liberalismo fu condannato, ad es. da S. Pio X!): ciò che consente la quantomeno spericolata asserzione di una naturale convergenza-complementarità di valori tra l’amministrazione statunitense di Bush jr e la gerarchia vaticana. Equivoco, questo, motivato da un intento politicamente e scopertamente antiislamico ed “occidentalista”: dunque, a ben guardare, antioccidentale in quanto “filoamericano”. In realtà, il mondo moderno, sia nella sua declinazione “giacobina” che in quella liberale di origine anglosassone, nasce da una interpretazione specifica dei precetti cristiani, ossia dal loro trasferimento dall’ambito spirituale a quello mondano: tanto è vero che il medesimo liberalismo, molto spesso supporto politico del protestantesimo statunitense, costituisce, allo stesso modo del socialismo scientifico, un’ideologia in nuce economicistica; e proprio in quanto ideologia, come il materialismo marxiano, si sviluppa a partire da un “escatologismo”, a sua volta procedente da una lettura non “tradizionale” del Nuovo Testamento.

[5]Naso, op. cit., 69-71.

[6]Fennell, cit., 73.

[7]Ibidem, 66 (l’espressione “liberazione dal tabù del massacro dei civili” si trova ibidem, 72).

jeudi, 29 septembre 2016

East Asia: Greater Eurasia Scenarios

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East Asia: Greater Eurasia Scenarios

Ex: http://www.katehon.com

The South Korean Megachurch Spreads Its Ideological Destabilization

South Korea has one of the world’s fastest-growing evangelical Christian populations and also boasts some of the world’s largest megachurches. In and of itself, this is a benign apolitical trend about its population’s beliefs, but integrated into a regional perspective rich with recent news events, then it becomes a worrying threat of destabilization. North Korea and China are well-known atheist societies, with the former having a lot less tolerance for any form of Christianity than the latter, but both are homes to secret foreign-connected Christian sects that are hell-bent on bringing down their governments. The Christian radicals haven’t yet begun resorting to ‘traditional terrorist’ tactics in doing this, but they’re nonetheless sometimes defined as terrorists depending upon the circumstances of their capture and whatever their prior activities are revealed to have been. 

South Korea figures prominently into this plot because it’s a nearby base for the type of aggressive anti-communist Christian proselytization that is undermining public trust in North Korea and China. Religion is being used as a rallying cry for bringing together different covert networks of believers in order to generate a critical mass of anti-government activists and future discontent. It’s not without reason that Beijing and Pyongyang are both so suspicious and reactionary towards secret Christian groups, as history shows that these organizations and their leading figures have regularly been used as a fifth column vanguard for earlier colonial campaigns in Africa and Asia. Nothing of that exact sort is going on in the present, but the principle is that illegal religious groups operating within China and North Korea – especially hostile proselytizing ones such as the Protestants and Evangelicals – are used as a ‘behind the gates’ force for secretly destabilizing the state from within. 

Most people aren’t aware of it, but China has a very bloody history of religious leaders and cultish demigods commanding legions of followers into war, and even though the exact same cookie-cutter approach is unlikely in the present day, the idea of malevolent actors assembling hidden networks of violent anti-state resistance under the guise of religion and god is a continual threat to China’s stability, no matter what the day and age may be. The documented history of religious and cult violence in China explains Beijing’s knee-jerk reaction to the aggressive promotion of Christianity, and seeing as how South Korea is now the Asian headquarters for this ideology, it can reasonably be assessed that this demographic trend within its borders can be – and likely already is to an extent – a weaponized element of Hybrid War against China and North Korea. 

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THAAD Turns Northeast Asia Into A Tinderbox

The US’ preplanned move to exploit North Korea’s reactions to its military provocations has seen the deployment of the THAAD “anti-missile” system to South Korea, ostensibly to protect against Pyongyang but in reality to prepare for the future rolling out of a theater-wide system targeting Russia and China’s nuclear second-strike capabilities. As the most immediate and logical response, Russia and China said that they will begin working closer together on drafting coordinated countermeasures to this mutual threat, possibly even going as far as unveiling their own joint “anti-missile” system. What this has done is throw Northeast Asia into the forefront of the New Cold War between the unipolar and multipolar worlds and dramatically ratcheted up tensions in this corner of Eurasia. 

The developing alignments are Russia-China and US-South Korea, with Japan being an ally of both of the second group of countries but not yet fully coordinated into a trilateral framework with them. The historical memory of the World War II experience is still very much alive in this part of Asia, and the publics in both South Korea and Japan are usually at odds with one another over each side’s interpretation of these events and the role (both historical and in terms of how it should presently be atoned) of Japanese Imperialism. It’s possible, though, that the higher echelon politicians and “deep state” (permanent military, intelligence, and diplomatic bureaucracies) in each of them don’t share the populist views prevalent in their societies and are being strongly pressured by the US to integrate into this tripartite system, using of course the media-marketed gimmick of coordinating their response to North Korea. 

This is a very dangerous triangle because the US is geographically insulated from the most direct consequences that it could lead to, thus making it behaving much more irresponsibly and with a touch of brinksmanship in forcing its occupied countries in the region to do its bidding, no matter how detrimental this is to their national interests. Part of what’s happening here is that the US also wants to provoke China into a rash response (as it has continually been trying to do with the South China Sea and the Indian border disputes) so that a ‘rational self-evident’ explanation can be given by the Seoul in ‘legitimizing’ why it’s working more closely with Japan and possibly even flirting with the TTP sometime in the future. Chinese-South Korean economic ties are very tight and mutually beneficial, but this is exactly what the US is trying to disrupt in a similarly adapted version to what it had attempted to do with Ukraine vis-à-vis Russia by forcing Kiev to undertake an unnecessary “civilizational choice”. Something very closely related to this is now afoot when it comes to South Korea and China, with THAAD being the equivalent for South Korea of what the EU Association Agreement was for Ukraine. 

On the one hand, for as negative of a trend as it is that Northeast Asia is aligning into two separate and easily discernible blocs, on the other hand it does carry with it a veneer of vintage ‘stability’ from the Cold War era of bipolarity, since a two-bloc system is taking shape in this part of the world. On the other hand, though, the unpredictable loose cannon of North Korea sits right in the middle of both, and not only could it ‘go rogue’ one way or another and shift the balance of power, but it could also implode (whether ‘naturally’ or through US provocations such as a military coup, large-scale successful economic warfare, and/or a distant Color Revolution). Two-bloc systems are only stable so long as there’s no black hole of uncertainty literally right between them, which is the role that North Korea is playing right now. If it can be reined in and safely managed, then North Korea could be a valuable asset to the Russian-Chinese Strategic Partnership in balancing against US-South Korea-Japan, but by all indications, this is a very difficult task and one which might not even be feasible at this point. Therefore, North Korea remains one of the most high-stakes uncertainties in the entire world, since whatever happens there will decisively shift the balance of power in Northeast Asia and drastically effect whether it’s the unipolar or multipolar world that comes out on top. 

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Korean Reunification: Qui Bono?

One of the most popular scenario projections for international relations students to partake in is imagining under what circumstances North and South Korea could ever be reunited and what impact this would have on regional affairs. To simplify, there are three possibilities for how this could realistically happen and three related outcomes:

War:

North and South Korea go to total war with one another in which both are most likely destroyed. The ravaged battleground and remaining soldiers and mobilized civilians on each side become the backdrop to an intense US-Chinese proxy war, possibly even culminating in both side’s direct intervention into the fray just like during the First Korean War. 

“Peace”:

A military coup overthrows Kim Jong Un and quickly purges his institutional allies, leading to a sudden and swift reunification with South Korea, though one which has questionable longevity because of the surprising confusion that it elicits among regular indoctrinated North Koreans and their ‘un-cleansed’ military allies. 

Implosion:

A military coup, Color Revolution, or Hybrid War (each of which are closely interrelated) could transpire to throw the country into chaos, as well as a combination of independently occurring or related socio-economic and/or humanitarian collapses. These latter scenario projections are less likely to results in a nationwide implosion because of the country’s history of weather such intense crises during the 1990s, and also because China would assist with food provisions if need be. 

A reunified Korea would likely take one of the three following internal forms:

Destroyed:

The Korean Peninsula is a wasteland that must now be rebuilt, with China and the rest of the Multipolar Community partaking in reconstruction efforts in the north while the US and its unipolar allies do the same in the south. A UN-led government presides over the whole landmass, but the country is still de-facto partitioned just as it was on the eve of its de-jure international separation. 

Partitioned: 

Reunification never really happens in form and both Koreas continue to behave as independent units, no matter whatever political agreement they reach amongst themselves. This could happen if its destroyed or a military coup takes over and leads to an immediate breakthrough in relations between Pyongyang and Seoul. This format could be used to pacify ‘patriotic’ North Koreans who do not want immediate political reunification on South Korea’s terms but are amenable to a new form of partnership with their compatriots.  

Peaceful:

A united Korea becomes an even stronger economic powerhouse in Northeast Asia than the sum of either of its two previously independent parts could ever conceive of, with a “Korean Miracle” superceding even that of its post-Cold War German predecessor. Even if no US or South Korean troops cross the former DMZ, the newly reoriented North Korean military might direct itself against China, especially amidst an environment of American-provoked South China Sea-like hostility between the two entities (perhaps driven by the topic of ethnic Koreans in Manchuria). The ‘New Korea’ thus becomes a nuclear-equipped American ally in the heart of Northeast Asia. 

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The Rising Sun Returns

Prime Minister Abe is taking his country back along the path of militarism, and it’s obvious that the US intends to use his island nation as its “Lead From Behind” partner in Northeast and Southeast Asia. The recent reinterpretation of the constitution in order to allow the deployment of military assets abroad in ‘support’ of ‘allied countries’ is a dangerous sign that Tokyo is planning to play a much more assertive role all along the East Asian/Western Pacific Rimland region. It’s already been described how this is envisioned to play out in Southeast Asia, but as for its Northeastern equivalent, this will definitely see Japan flex its muscles as a naval power and continue provoking China in the East China Sea. 

It’s a little-known fact, but despite being an officially ‘pacifist’ country, Japan’s “self-defense forces” are equipped with state-of-the-art munitions and have access to high-tech assets that make them a formidable (albeit undeclared) military power, and the country’s nuclear energy industry produced enough waste that Tokyo could 1,000 nuclear bombs from it a year if the fateful were ever made. Even though this has yet to happen and might never actually occur, it’s unmistakable that Japan is a Great Power which must be taken seriously in all geopolitical calculations, and that the Land of the Rising Sun has finally returned to the forefront of continental affairs with the US’ full support.