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samedi, 09 janvier 2010

Slavoj Zizek, un fascista di sinistra dei nostri giorni

Slavoj Zizek, un fascista di sinistra dei nostri giorni

di Luciano Lanna

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

 Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 30 ottobre 2009
«È tempo di sporcarsi le mani!», ci dice Slavoj Zizek, ironizzando sul «moralismo sterile» e il disincanto minimalista che pervade pressoché tutte le culture politiche. Non se ne può più, aggiunge, con quella miscela che determina quel pensiero unico - prospettato come il solo ammissibile - obbligato a oscillare tra un impolitico liberalismo permissivista e una correlativa enfasi retorica sui valori. E si deve, a suo dire, fuoriuscire da questa forma unica del senso comune attraverso un "salto" che conduca nelle ragioni profonde delle vecchie cause perse, di tutto ciò che ormai viene delineato come folle e legato ai fallimenti storico-politici del Novecento.
«Come riscattare - spiega Zizek - il potenziale emancipatore di quei fallimenti evitando la doppia trappola dell'attaccamento nostalgico al passato e dell'adattamento un po' troppo furbo alle nuove circostanze?». Una cosa è certa: i progetti di "grande politica" del '900 sono stati attraversati dalla tentazione totalitaria conducendo direttamente al proprio fallimento e a veri e propri incubi collettivi. Quei tentativi di imporre la rivoluzione hanno pordotto soprattutto regimi in cui il popolo è stato ridotto al silenzio. Ma, bisogna stare attenti - è l'invito esplicito di Zizek - a non buttare il bambino insieme all'acqua sporca. Per dirla tutta: potrebbe esistere un altro percorso possibile tra i fallimenti del '900 e l'idea e la prassi contemporanea di una riduzione della politica alla sola dimensione di amministrazione razionale di interessi?
Al filosofo di Lubiana d'altronde ne hanno dette di tutti i colori, accusandolo a seconda delle volte di essere l'«Elvis Presley della teoria della cultura» o anche un «fascista di sinistra». Ma lui in tutta risposta se n'è uscito con questo suo ultimo librone, In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie pp. 638, € 26,00), andato a ruba anche nelle librerie italiane. Classe 1949, laureato in filosofia, ha approfondito i suoi studi a Parigi. L'interesse per la politica è centrale nella sua riflessione tanto che nel 1990 fu anche candidato alle elezioni presidenziali del suo paese per il partito Democratico Liberale. Il suo pensiero è integralmente caratterizzato dall'applicazione e dalla chiarificazione sociale e politica dei concetti di Lacan ma tra i suoi riferimenti rientrano anche Heidegger, la Scuola di Francoforte, Kierkegaard, Pascal e da mistici quali Jakob Boehme e Angelus Silesius. È nota inoltre la sua ammirazione per Chesterton, di cui ha tradotto diversi libri in sloveno. I suoi maggiori riferimenti contemporanei sono senza dubbio Deleuze, Badiou e Rancière. La peculiarità del suo stile filosofico e della sua stessa scrittura, all'origine del suo notevole successo mediatico, è la capacità di trattare di pensiero politico facendo riferimento alla letteratura e al cinema popolari contemporanei (da Fight Club e Pulp Fiction al B-Movie italiana degli anni '70 sino ai film con Bruce Lee).
Inviso ai nostalgici dei vecchi recinti e a chi rifiuta sconfinamenti del pensiero nell'ambito dell'immaginario, Zizek viene spesso assimilato a torto ai teorici del postmodernismo e ai sostenitori della fine delle grandi narrazioni. Ma la sua posizione è addirittura antitetica a queste prospettive: «Nella lotta anni '60, tra Beatles e Rolling Stones, io stavo con gli Stones: i Beatles erano troppo soft...». E rilancia, anzi, con la necessità di riappropriarsi di una politica fatta "di passione". Tra «liberali anemici» e «fondamentalisti» pseudo-appassionati lui contesta l'opposizione di questa alternativa e invita a recuperare in politica le dimensioni del sacrificio e della disciplina. Non a caso, intervistato qualche tempo fa dal quotidiano il Manifesto, rilanciava con un ossimoro tipicamente novecentesco: «Non mi dispiace definirmi ironicamente un "fascista di sinistra"».
È originale la sua analisi degli ultimi quarant'anni: «Un aspetto dell'immediato del dopo-‘68 è stato il progressivo scivolamento verso una sorta di spiritualità all'americana. Lo spazio per l'azione collettiva era scomparso e lasciava il posto alla sessualità spiccia o a una violenza individuale diretta verso il terrorismo. La catastrofe iniziò lì». D'altronde in Italia sbagliano quei suoi detrattori che, accusandolo di nichilismo e relativismo, considerano le sue analisi rivolte esclusivamente alla sinistra. Eppure Zizek è durissimo contro la logica anti-statalista che accomuna larga parte della sinistra alla stessa impostazione di buona parte della destra, vero pensiero unico dominante: «Purtroppo non vedo - dice - nessun segno della cosiddetta estinzione dello Stato, al contrario. Perfino negli Stati Uniti, ad esempio, quasi ogni volta che si determina un conflitto tra la società civile e lo Stato, mi ritrovo a essere dalla parte di questo piuttosto che di quella...».
Le pagine di In difesa della cause perse sono estremamente chiare da questo punto di vista: «Quando le persone di sinistra lamentano il fatto che oggi solo la destra si mostra appassionata, è in grado di proporre un nuovo immaginario mobilitante, mentre la sinistra si impegna solo nell'amministrazione, esse non vedono la necessità strutturale di ciò che percepiscono». E la metafora più evidente, a suo avviso, sta nel destino dell'europeismo che di fatto «non riesce a suscitare passioni: esso è fondamentalmente un progetto di amministrazione, non un impegno ideologico». Ragion per cui il superamento dell'impasse passa, secondo Zizek, nel recupero di una libertà intesa come prassi, attraverso una versione «impegnata» della stessa libertà: «Non è qualcosa di dato - precisa il filosofo sloveno - ma essa è sempre riconquistata attraverso una dura lotta, in cui si deve essere pronti a rischiare tutto... La vera libertà non è una libertà di scelta fatta da una distanza di sicurezza, come scegliere tra una torta di fragole e una torta di cioccolato». E anche per questo, in un clima generalizzato e globale di «permissivismo che funge da ideologia dominante» è forse giunto il momento per riappropriarsi della «disciplina» esistenziale e dello «spirito di sacrificio». La libertà come tensione irriducibile e il vero libertarismo come tutt'altro dal permissivismo postmodernista. Una libertà presa sul serio e che non si determina con la rassegnazione minimalista conseguente alla presa d'atto del fallimento del Novecento. Non a caso tutto il terzo capitolo del libro è dedicato a Heidegger e agli altri intellettuali radicali tentati dal totalitarismo, ma dei quali Zizek vuole recuperare il positivo. C'è qualcosa che accomuna certe riflessioni dello sloveno a quelle dello storico israeliano Zeev Sternhell quando sosteneva: «Si può essere pieni di ammirazione per la vitalità della cultura fascista, per lo stesso senso di unità che il fascismo restituiva alla collettività, ma nello stesso tempo aborrire il totalitarismo, lo Stato poliziesco, il crimine politico. Non si è necessariamente candidati al posto di guardiani di campi di concentramento o di servi delle dittature se si riesce a percepire quello che i dissidenti degli anni '30 ammiravano nello spirito del tempo e cioé la rivolta contro la concezione utilitaristica della società».
Sbaglia quindi chi volesse accostare le suggestioni di Zizek a qualsiasi tentazione estremista o fondamentalista. Vale su tutto la sua confutazione della lettura neocon del film 300 di Zack Snyder: «I razzisti culturali occidentali amano affermare che, se i persiani fossero riusciti a sottomettere la Grecia, oggi ci sarebbero minareti ovunque in Europa. Ma quest'affermazione stupida è doppiamente sbagliata: non solo non ci sarebbe stato un Islam in caso di sconfitta della Grecia (dal momento che non ci sarebbe stato un pensiero greco e dunque un cristianesimo, presupposti storici dell'Islam); ancora più importante - conclude - è il fatto che ci sono minareti in molte città europee oggi, e il genere di tolleranza multiculturale che ha reso questa cosa possibile è per l'appunto il risultato della vittoria greca sui persiani».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
L'articolo è anche sul sito web del Secolo d'Italia:
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