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jeudi, 12 janvier 2012

L’Ungheria, punto critico del polo egemone

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L’Ungheria, punto critico del polo egemone

di Lorenzo Scala

Fonte: statopotenza

A seguito delle elezioni parlamentari del mese scorso, Russia Unita ha mantenuto la maggioranza dei seggi nella Duma di Stato, riconfermandosi come la maggior forza politica del Paese. Nonostante infatti il sensibilissimo calo dei consensi rispetto al 2007, il partito di Vladimir Putin ha totalizzato una maggioranza di un 49,5 %. Lo svolgimento delle votazioni è stato poi valutato come positivo dagli osservatori della Comunità degli Stati Indipendenti. D’altro canto però, numerosi membri dell’opposizione hanno contestato i risultati , denunciando brogli e pressioni di ogni tipo. Gli esponenti dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America non si sono lasciati scappare l’occasione e, rispolverando la vecchia demagogia dei “diritti civili” (cara ad una certa subcultura oramai dominante in Occidente, certamente partorita dall’ideologia del consumismo di tipo capitalistico), hanno anch’essi attaccato il premier russo, mettendo in discussione la legittimità del risultato finale ed invitando il popolo alla protesta. Di conseguenza, numerose organizzazioni extraparlamentari sono scese in piazza con l’intento di destabilizzare lo scenario della Federazione Russa. A Mosca abbiamo quindi visto delle sparute folle inneggiare ad un’ambigua e quanto mai poco probabile “rivoluzione bianca”. Partigiani di quest’ultima erano liberali, sedicenti socialisti, ultranazionalisti, monarchici ed esponenti della “sinistra” più radicale ed anarcoide. Insomma, un miscuglio composto da schieramenti politici ed ideologici totalmente differenti, ma tutti raccolti, per quest’occasione, sotto la grande bandiera dell’anti-putinismo. Anche il Partito Comunista della Federazione Russa ha protestato contro l’oligarchia al governo, ma al contempo si è voluto dissociare dalle mire espansionistiche dell’Occidente sulla Russia, mettendo in guardia i suoi militanti dal cadere in certe “trappole”. D’altro canto, il Cremlino non ha voluto sentire ragioni: “gli Stati Uniti non vogliono alleati, ma vassalli”. Un altro tentativo di “rivoluzione colorata”, ben più ampio e propagandato, l’abbiamo potuto vedere ultimamente anche in Ungheria. E’ innegabile come la tensione fra l’asse Washington-Bruxelles e la linea neo-conservatrice del primo ministro ungherese, Viktor Orbàn, stia raggiungendo livelli che, fino a qualche mese fa, sarebbero stati inimmaginabili. L’Unione Europea si dice preoccupata per la “svolta autoritaria” di Budapest, le cui posizioni potrebbero portare alla nascita di una “nuova” Bielorussia, altre bestia nera europea della casta politica occidentale. Hilary Clinton ha personalmente indirizzato ad Orban una lettera, nella quale si dice perplessa ed indignata per i recenti cambiamenti in seno alla vita politica ed economica della Repubblica d’Ungheria. Di concerto, le nostre testate giornalistiche non hanno esitato a denunciare le misure anti-democratiche in atto nel Paese ex-comunista. Cosa potrebbe mai spingere la Casa Bianca ed il suo braccio mediatico a criticare l’amministrazione dell’Ungheria, nazione membra dell’Unione Europea e della NATO? Per capirlo è necessario andare per ordine ed analizzare i “crimini” di Viktor Orbàn, ex-dissidente del regime comunista di Budapest. Quest’ultimo è un esponente del partito populista e democristiano Fidesz che, alleatosi col Partito Popolare Cristiano (KDNP) , ha ottenuto una maggioranza di 52,73% nelle elezioni parlamentari del 2010. In questo modo ha conquistato i due terzi dei seggi del parlamento, quorum sufficiente per modificare la carta costituzionale, rimasta ancora invariata dal 1989. Nonostante questo però, il viscerale anticomunismo dei governi “neodemocratici” sorti dalle macerie della Repubblica Popolare d’Ungheria l’hanno ampliamente delegittimata nel tempo. Nell’Aprile del 2011, il parlamento ungherese ha approvato una nuova Costituzione, con 262 voti a favore e 44 contro. A votare contro sono stati gli esponenti del partito di estrema destra Jobbik, mentre si sono astenuti 79 deputati fra “socialisti” e liberali. L’opposizione si è anche rifiutata per partito preso di partecipare a qualsiasi discussione sul nuovo provvedimento, esigendo peraltro l’aumento della maggioranza richiesta per la sua attuazione (da due terzi a quattro quinti). La maggioranza ha comunque trovato il modo di coinvolgere l’opinione pubblica e gli elettori, inviando a questi ultimi un questionario di dodici domande, che comprendevano varie proposte per la nuova Costituzione. Le stime ufficiali sostengono che almeno 920.000 persone – il 10% dell’elettorato – abbiano compilato il documento. Il governo ha esaminato le risposte date, apportando diverse modifiche al progetto. In questo modo sono aumentati i diritti dei cittadini ungheresi all’estero e si è eliminato il diritto di voto plurimo per le madri con più di una gravidanza sulle spalle. La stesura definitiva della Costituzione, firmata dal Presidente della Repubblica Pal Schmitt il 25 aprile, presenta i principi morali e politici propri al Fidesz, fra i quali si nota subito l’oltranzismo religioso. All’inizio del documento si può infatti leggere “Riconosciamo il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione. Rispettiamo le tradizioni religiose diverse presenti nel nostro paese”. Si fa riferimento ai valori del matrimonio, della famiglia, della maternità, dell’impegno sociale e scolastico ed affini. La svolta cattolica dell’Ungheria, nonostante già da sola rappresenti un affronto relativamente grande al fenomeno dell’omologazione culturale europea all’insegna del “sogno americano”, viene integrata da un inedito spirito nazionalistico. Probabilmente è proprio da qui che nasce l’opposizione occidentale ad Orbàn, reo di aver nazionalizzato le principali aziende strategiche, di aver aumentato il controllo statale sulla Banca Centrale d’Ungheria e di aver posto dei limiti alla stampa, in maniera tale che essa non interferisca con le riforme in atto. La Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale minacciano di sospendere la cooperazione bilaterale con Budapest, cosa che andrebbe a danneggiare ancora di più la già difficile situazione economica ungherese. Ad ogni modo, molte delle forze cosmopolite ungheresi, ansiose di regalare al loro Paese un futuro simile a quello di Ucraina e Georgia, hanno risposto agli appelli delle potenze estere. Si è quindi formato ufficialmente il movimento degli “indignati” magiari, composto, oltre che dai membri dell’opposizione al parlamento, da organizzazioni quali la Federazione Ungherese delle lesbiche, degli omosessuali, dei bisessuali e transessuali, l’Unione delle lesbiche e via discorrendo. Tuttavia la sigla che salta più all’occhio è Szolidaritàs, comitato a salvaguardia dei “diritti umani” e della “democrazia”, spaventosamente simile, sia nella denominazione che nella grafia utilizzata, al suo ben più noto omologo polacco degli anni Ottanta. Ridicola appare invece la partecipazione alle manifestazioni dei “Civili contro l’estrema destra”, dato che il Fidesz non ha alcuna nostalgia per l’epoca “fascista” ungherese; tutt’al più lo si potrebbe paragonare al nostro Popolo delle Libertà, mantenendo ovviamente le dovute differenze. L’unico partito di destra radicale è il già citato Jobbik, peraltro avverso ad Orbàn e alla nuova Costituzione. Vedere levate di scudi improvvise contro il governo ungherese che, fino a poco tempo fa era un semplice Paese-costola dell’espansione atlantica verso Est, è sicuramente strano ed anacronistico. Di questo ne ha parlato il Partito dei Lavoratori d’Ungheria (Munkaspart) in una riunione del suo Comitato Centrale. Nonostante si tratti di una fazione politica molto ristretta ed ancora legata a schemi vecchi e stantii, le sue osservazioni circa i recenti accadimenti si fondano su analisi relativamente corrette. All’iniziato del comunicato troviamo questa premessa: “Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese è del parere che il vero cambiamento storico non ha avuto luogo nel 2010 (anno della nuova Costituzione, nda), ma nel 1989-1990, quando fu distrutto il socialismo in Ungheria. E’ stata una controrivoluzione capitalista. Il potere della classe operaia è stato sostituito dal potere delle forze capitalistiche. Le industrie e le banche di proprietà statale, e le aziende agricole collettive furono privatizzate. L’Ungheria ha aderito alla NATO nel 1999 ed è entrata nell’UE nel 2004. Il sistema capitalista basato sull’economia privata e sulla democrazia borghese fu stabilizzato […]Fu il passaggio dal socialismo al capitalismo che portò all’impoverimento generale del popolo ungherese”. I comunisti ungheresi vedono le cause dei disagi del popolo nell’instaurazione dell’economia di libero mercato, nella subordinazione al blocco nord-atlantico e nella consequenziale soppressione delle conquiste derivate dal Socialismo Reale. Nella disputa fra Orbàn ed i “manifestanti” non vedono una contrapposizione fra una potenziale “neo-dittatura” ed una declinante “democrazia”, ma fra le due facce di una già vecchia e logora medaglia. Infatti: “Da un lato c’è il Fidesz […] che esprime gli interessi dei conservatori, la parte dalla mentalità nazionale della classe capitalista […]D’altra parte ci sono il Partito Socialista Ungherese e il Partito de “La politica può essere diversa“, che rappresentano la parte liberale e socialdemocratica della classe capitalista. Sono più vicini agli Stati Uniti e ad Israele”. Il passo dello scritto più importante e significativo è quello che segue, poiché rinuncia per un attimo a riflessioni “di classe” (che in questo contesto possono sicuramente rientrare, ma fino a un certo punto) a favore di un calcolo un po’ più geopolitico: “Gli Stati Uniti d’America hanno apertamente interferito negli affari interni di Ungheria. L’ambasciatore statunitense a Budapest critica apertamente il governo ufficiale e sostiene la posizione delle forze liberal-socialiste”. Secondo il parere di chi scrive però, manca una risoluzione chiara e decisa. L’Ungheria dovrebbe essere, almeno sulla carta, indipendente e sovrana. In caso di ulteriori pressioni estere contro Viktor Orbàn e di eventuali sanzioni economiche, il Partito Comunista dei Lavoratori d’Ungheria non dovrà esitare nel fare causa comune col proprio governo, eletto, secondo le regole “democratiche”, a suffragio universale. E’ poi innegabile come, nonostante tutte le palesi contraddizioni interne del caso, i recenti cambiamenti in seno all’amministrazione di Budapest rappresentino certamente un passo avanti, in quanto sintomo di una disperata necessità di maggior autonomia e di un recupero della propria sovranità nazionale.


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