vendredi, 01 mars 2013
L’ipocrisia “antirazzista”
L’ipocrisia “antirazzista”
di Enrico Galoppini
Ex: http://www.europeanphoenix.it/
Considerando la questione del “degrado” di una determinata società umana, se da un lato è necessario prendere in considerazione quei comportamenti che, dilagando e sembrando sempre più “normali”, fanno precipitare gli uomini che la compongono negli abissi del loro fallimentare edonismo, dall’altro non bisogna tralasciare quei concetti e quelle convinzioni che informano le menti dei medesimi soggetti. La capacità di suggestione di queste “idee” è infatti tale che sono proprio queste, una volta penetrate al posto di quelle sane e rette, ispirate dall’Alto, a condizionare le scelte e le azioni degli uomini di un preciso tempo e luogo. Una società, da che era retta da principi e valori effettivamente “universali”, finisce per rotolare lungo una china che conduce ad un piano esattamente inverso, quello in cui dominano principi e valori “particolari”, ispirati invece dal Maligno, che stuzzica con le sue ‘arti’ la nostra provvidenziale facoltà di “libero arbitrio”.
L’attuale situazione delle cosiddette “società moderne” o “occidentali” è quella appena descritta sinteticamente: teoria e pratica, pensiero ed azione, agiscono in maniera consequenziale e solidale nel dare forma ad una modalità del “vivere insieme” e del corrispondente tipo umano mai visti prima, tanto che viene da ipotizzare che nel breve volgere di tempo tutta l’umanità, tranne le eccezioni rappresentate da chi si terrà saldo ai principi “universali”, finirà per essere schiava del proprio ego, del “satana interiore”, con una “società globale” che glorificherà un “umano” ridotto ad un simulacro disanimato di quello che avrebbe potuto essere ben altro, ovvero “vicario di Dio sulla terra”.
Ma per non tradire se stesso e il compito assegnatogli, l’uomo deve darsi una scala di priorità, al culmine della quale vi è l’intellettualità pura (che niente ha a che spartire con l’intellettualismo moderno, mero sfoggio di una “anarchica” facoltà razionale), che coincide con la Conoscenza, ovvero con l’Amore, che implica l’identità tra il conoscente e il conosciuto e la “vittoria sulla morte”. Ad un livello subordinato, con la sua importanza relativa, vi è il piano della morale, che riguarda le interrelazioni tra gli uomini, la quale finché i principi non vengono obliati e contestati resta relativamente stabile nel tempo.
Ora, se c’è un segno tangibile del decadimento del nostro vivere civile e dell’attacco che viene portato al “carattere” della nostra popolazione, quindi di ciascuno di noi, è l’insistenza con cui, attraverso i mezzi di persuasione di massa (media, spettacolo, letteratura ecc.) e le istituzioni educative viene introdotto un moralismo – degenerazione ipertrofica del piano della morale - sempre più asfissiante e dilagante.
Lo si vede plasticamente nella vicenda del cosiddetto “razzismo negli stadi”.
Recentemente, un noto calciatore nero[1], nel bel mezzo di una partita, stufo di sentirsi beccare ed insultare da parte della tifoseria avversaria, ha preso la palla in mano per scagliarla con un’energica pedata al loro indirizzo, abbandonando subito dopo il campo.
Immediatamente, all’unisono, e senza eccezioni (il che è sempre sospetto perché denota una completa uniformazione che spontaneamente non esiste), si sono tutti messi, in vario modo e grado, a dargli ragione, lagnandosi e dolendosi per il “razzismo negli stadi” che, a loro dire, infesterebbe gli stadi di calcio (e l’intera società italiana!).
Si tratta di un episodio marginale, certo, che però rende il polso della situazione del livello di conformismo moralistico che sta imponendosi in Italia e in tutti quei paesi sottoposti ad una cura da cavallo mirata a snaturarne il carattere, da quello che era, mediterraneo, incline alla focosità e alla platealità, nel bene e nel male, a quello puritano e “moderato” d’importazione d’oltremanica e d’oltreoceano, caratterizzato da una repressione ipocrita di tutti quegli istinti che comunque l’uomo ha in sé e che, in una maniera “ritualizzata” quale può essere una partita di calcio o una “festa” paesana, è positivo che si sfoghino, per non provocare poi danni peggiori di quelli che si vorrebbe prevenire e contenere con tutti questi controlli e divieti.
Ma alla base di tutta questa vera e propria isteria sul “razzismo”, negli stadi e fuori, c’è un fatto: dobbiamo, per forza o per amore, accettare la “società multietnica”.
Ricordo distintamente, nei primi anni Novanta (un vero spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, non a caso inaugurati dallo spettacolo “moralizzatore” di “Mani Pulite”), schiere d’improvvisati pedagoghi indottrinarci con le fantastiche e meravigliose prospettive di un’Italia che “ormai” – assicuravano - “è un paese multietnico”. Attenzione, nei primi anni Novanta, l’Italia non era affatto “multietnica”, ma tutto quel lavaggio del cervello – nel quale s’inscrisse anche un’insostenibile Miss Italia originaria di Santo Domingo! – puntava a far percepire come una condizione acquisita ed ineluttabile una prescrizione, anzi una vera e propria imposizione: “multiculturalizzatevi”!
È da quegli anni che ci è stato imposto di gioire acriticamente per il “multietnico”, e per la sua premessa, l’immigrazione di massa, come se, senza bisogno di alcuna dimostrazione, solo per la “magia delle parole” tipica dell’ipocrisia moralistica, fosse di per sé “positiva” una società in cui devono convivere le popolazioni le più diverse, per mentalità, usi, costumi ecc.
“Multietnico è bello”, e stop, senza possibilità di replica.
Addirittura, per non permettere a nessuno di fiatare e, soprattutto, di utilizzare questo tema in politica, sempre nello stesso torno di tempo venne imposta in fretta e furia la Legge Mancino/Modigliani, quella che sanziona implacabilmente ogni dichiarazione (o supposta tale) di “superiorità etnica e religiosa”. Eppure, all’epoca, non c’erano né la “società multietnica” né i “razzisti” da colpire con l’apposita legge, fatti salvi piccoli gruppetti che fisiologicamente occupano i residuali spazi “a destra della destra” e, per la verità, un piccolo ma preveggente sodalizio, il Fronte Nazionale, che per un breve periodo, prima del suo scioglimento coatto proprio a causa della suddetta legge, aveva fatto della sensibilizzazione sui problemi derivanti dalla “società multietnica” (o “multirazziale”, come riportavano i suoi scritti) il suo unico cavallo di battaglia. C’era anche, ad onor del vero, una Lega Nord non ancora poltronizzata e ridotta a più miti consigli (vedasi il recente e continuo bersagliamento giudiziario), la quale, però, se la prendeva a livello propagandistico più che altro coi “terun”.
Ma non c’era, con tutta evidenza, alcuna “emergenza razzismo”… C’era, piuttosto, la volontà, da parte delle élite dominanti (alta finanza e “sette”[2] mondialiste, con tutto il resto, “intellettuali” compresi, che va al carro dei loro impulsi), di modificare profondamente il volto delle nostre società, sul modello del “melting pot” anglosassone, utilizzando la leva della “immigrazione di massa” di cui, lo sbarco rocambolesco di migliaia di albanesi che si lanciavano in mare da un piroscafo, rimarrà sempre un’immagine-simbolo.
Nessun pedagogo della domenica ha mai però dimostrato che “multietnico è bello”. Semplicemente perché è indimostrabile, avendo piuttosto a che fare con un approccio moralistico, con quel che si vuol far digerire per forza a colpi di ricatti morali, di pressioni, di perentorie minacce di esclusione dal consesso delle “persone civili”.
Intendiamoci, come ho già avuto modo di scrivere su “Eurasia”[3], la questione immigratoria, quand’è affrontata estrapolandola dal contesto, prendendosela perciò solo con un anello della catena, per giunta il più debole, diventa la prateria sulla quale scorazzano tutti i demagoghi e i vigliacchi di questo mondo, che strillano, minacciano e talvolta esagerano, ma poi non fanno assolutamente nulla, anche quando andrebbe fatto (si pensi a certi quartieri di alcune città italiane), e, colmo dell’imbecillità e della malafede, se la prendono proprio con quegli aspetti dell’immigrazione che maggiormente andrebbero esaltati, come l’attaccamento alle proprie tradizioni e alla religione: l’islamofobo che getta carrettate di letame sul terreno sul quale sorgerà una moschea non ha capito nulla di quello che critica a vanvera e di quello che dice di voler difendere. Lì, più che di “razzismo” da sventolare in faccia agli allocchi “progressisti” di tutte le risme, bisognerebbe parlare chiaro e tondo di “occidentalismo” e “modernismo”, perché non c’è nulla di più “moderno” che dell’odio verso la religione e la “tradizione”.
Ma tornando alla questione del “razzismo”, prima di chiudere il cerchio tornando all’episodio calcistico che ha dato lo spunto per queste considerazioni, c’è da rilevare un altro fatto assurdo, dato per acquisito senza che nessuno osi fiatare, sempre per paura d’essere linciato moralmente, il che la dice lunga sulla “libertà” che vige in questa società che si loda e s’imbroda di continuo come “aperta”, “tollerante” ecc.
Il costante panegirico del “meticciato” e della “mescolanza”, entrato anche nel mondo della “cultura”, dove più una cosa è “ibrida” e più esalta, non viene mai messo in discussione, eppure, di per sé, non si tratta di concetti dei più elevati. Da sempre, infatti, “puro” è sinonimo di “pulito”, di “incorrotto”, e non è possibile che tutti quelli che sono venuti prima di noi si siano sbagliati. Ha sempre valso il principio per cui la “forma” è tutto, è principio d’ordine, anche per una società, poiché l’“informe”, il non definito, corrisponde al caos, da cui deriva ogni sciagura. Ma oggi, sembra che i “moderni” non vogliano più stare entro alcuna “forma”, declamando invece le lodi dell’“informale”, e quindi del “meticciato”, in ogni campo e a tutti i livelli, come se avessero timore, se non un vero e proprio orrore, di tutto ciò che ha una sua “identità” definita.
Ci dev’essere un “odio di sé” dietro tutto quest’atteggiamento unilaterale, frutto d’una “educazione” pluridecennale al centro della quale sta - colpa di una scuola e una “cultura” in mano a scellerati ed invertebrati senza amor patrio - una costante damnatio memoriae per tutto quel che siamo stati ed abbiamo realizzato in passato.
Eppure, in giro per il mondo, non sono tutti così “antirazzisti” come dovremmo essere noi “pedagogizzati”. Ma queste cose le può sapere solo chi ha viaggiato, chi ha potuto osservare, confrontare, valutare e, perché no, apprezzare anche l’alta considerazione che, rispetto agli “altri”, hanno parecchi popoli nel mondo. Senza che per questo ci si debba mettere a giudicarli male per il loro atteggiamento “discriminatorio” e “altezzoso”. Se vado in casa d’altri so che devo entrarci rispettoso e in punta di piedi, senza per ciò approvare tutto, ma nemmeno per ergermi a supremo tribunale di quello che probabilmente non potrò mai capire appieno.
C’è dell’altro: il senso dell’ospitalità verso lo “straniero” (parola ormai proibita!) e della dignità che ci piace costatare in molti popoli extraeuropei non viene certo dall’iperspazio, e tantomeno da un corso accelerato di “antirazzismo”. Deriva da una corretta valutazione di sé, dal sapere quel che si vale, fino a considerarsi (terribile sacrilegio!) “il centro del mondo”. Così, da quella “posizione di forza”, si può aprire le porte al forestiero ed accoglierlo volentieri e degnamente.
Qui, al contrario, è tutto un autoflagellarsi, un piangere sui propri “crimini”. Un plaudire masochistico alla Legge Mancino e un invocare ancor più draconiane pene per “i razzisti”.
Così, a parte la spocchia del “ricco” (o di chi si crede tale) verso il “povero”, che è in fondo il “razzismo” moderno ridotto all’osso[4], non c’è una “civiltà”, un “carattere” a sostenere noialtri quando ci troviamo di fronte chi viene da fuori.
Di qui sorgono due tipi di reazione: una, minoritaria, è quella dei cosiddetti “naziskin” e dei gruppetti “identitaristi” (i quali hanno un’idea della “identità” esageratamente ingessata); l’altra, maggioritaria, è quella del “progressista”, di quello che vede la comunità come un mero esito contrattuale e non un dato naturale frutto d’una lenta “civilizzazione” che non può permettersi lo tsunami dell’immigrazione di massa. Per quest’ultimo tipo, che è quello che fa danni nelle scuole, nelle istituzioni e nella “cultura”, “tutto il mondo è paese”, tranne che il suo quartiere, radical chic, bello tranquillo e assolutamente immacolato dal punto di vista “multietnico”, mentre i babbei che pendono dalle sue labbra (se è un “intellettuale”) o che lo votano (se è un “politico”) abitano in quartieri il più delle volte oltre i limiti del degrado, nei quali può essere persino pericoloso girare dopo l’imbrunire.
Ma come scrivevo nel summenzionato articolo per “Eurasia”, al di là di tutto il chiacchiericcio sulla “integrazione” e il “diverso”, c’è un motivo preciso per cui alta finanza e “progressismo” si danno la mano sulla questione immigratoria e la “società multietnica”[5]: si tratta di sfruttare più che si può l’essere umano, usando la leva economico-finanziaria, inducendo masse ad emigrare con ogni meschino e spregevole mezzo e forzando a “vivere insieme”, in una sorta d’esperimento, gente che non ha nulla a che spartire se non le meravigliose, sovente illusorie, “opportunità economiche” di un Paese. La “patria” in questo modo diventa un PIL, o uno “spread”, o la “disoccupazione” e gli “assegni familiari” da percepire, ma gli imbonitori delle “nuove forme di cittadinanza” sembrano non rendersene conto: continuano a cantare la loro filastrocca ad un pubblico senza più capacità critica, aduso solo ad annuire e a dare la caccia al “razzista”, che potrebbe sempre annidarsi ovunque, dal lavoro alla scuola, e persino in casa!
Di tutto ciò, certamente, sorridono i giovanotti miliardari che tirano calci a un pallone, e soprattutto coloro che tirano le fila d’un baraccone che ha smesso da tempo d’essere qualcosa che ha a che fare col sano agonismo, per il quale ci si può anche misuratamente appassionare.
Il calcio, almeno da quando lo conosco, è sempre stato una valvola di sfogo per gente dei ceti sociali bassi, o medio-bassi, gli altolocati preferendo per la maggior parte altri sport. Quel tipo di persone ha un’esigenza da soddisfare, a causa del tipo di vita che conduce (quanto per propria colpa, non è qui il punto): deve sfogarsi. E questo lo sa bene chi gli apparecchiato il giocattolo.
Ma non lo comprenderanno mai gli “educatori” in servizio permanente effettivo. Che dotati dell’esclusiva della “fabbricazione delle opinioni”, si scatenano in teorizzazioni una più irreale dell’altra, come se loro fossero alieni da ogni “passione” o “esagerazione”, postulando un essere umano cloroformizzato, tra l’ameba e lo zombie, che non esiste se non nelle loro fantasie perverse.
O forse è proprio un obiettivo preciso quello che viene perseguito con tanta tenacia: costringere l’uomo in una camicia di forza, in una gabbia moralistica che alla fine lo faccia impazzire, facendogli commettere azioni molto più gravi di un insulto ad un calciatore nero o alla tifoseria avversaria.
Ma non c’è scampo nella società del “moralisticamente corretto”: una volta che, compresso e represso in ogni modo, quest’uomo compiutamente “moralizzato” e perciò “democratico” e “moderno”, avrà sterminato la sua famiglia oppure sbudellato un automobilista per una mancata precedenza, dovrà sorbirsi l’ennesima predica da parte dei soliti “educatori”, inamovibili e senza possibilità d’essere contraddetti nella loro torre d’avorio dei media e della “cultura”, inabbordabile da chiunque non sia stato dotato del bollino di “democratico antirazzista”.
Tutto questo fa molto pena, per come si riduce l’uomo quando si mette a cazzottare con la sua indole naturale. Certo, non è un bello spettacolo vedere una turba stravolta lanciare insulti all’indirizzo di qualcuno, solo per “stare meglio”. Ma questo “qualcuno” non può fare quello che casca dal pero, ignaro del contesto in cui vive (e piuttosto bene, direi): quello del “mondo dello sport”, in cui circolano cifre da capogiro e dove non si può pretendere che, in uno stadio di calcio, la massa ci vada in pelliccia e col monocolo; e quello della “società multietnica”, con la rabbia che alimenta presso i ceti sociali più bassi, gli stessi che rimpolpano le tifoserie, e nella quale un privilegiato come un calciatore (nero o non nero) può anche sorvolare su qualche parola di troppo, ché tutti gli altri sopportano di peggio.
[1] “Di colore” lo lasciamo volentieri agli schiavisti anglosassoni, che dopo aver rovinato l’Africa deportandone milioni di suoi figli, si sono pure inventati, come se bastasse una parola a ripulirsi la coscienza e la reputazione, il vago e pudico “colored”, che ovviamente non poteva non entrare nel vocabolario di noi italiani, subalterni e in costante “imbarazzo” per la sola radice cubica delle malefatte di questi campioni d’ipocrisia.
[2] Qui si usa il termine “setta” con riferimento a tutte quelle organizzazioni, religiose, culturali e politiche, che auspicano e lavorano, convergendo spontaneamente, per instaurare una “Repubblica universale”, un “Nuovo ordine mondiale”. La “setta”, in questo senso, può anche avere un miliardo di simpatizzanti, più o meno coscienti dell’azione dei suoi dirigenti, non essendo qui in questione il numero esiguo di affiliati che caratterizza quel che comunemente viene definito “setta”.
[3] Il fondamentale carattere economico del “problema immigratorio”, “Eurasia” 1/2006, pp. 119-122.
[4] Non esiste infatti “razzismo” verso gli svizzeri, gli austriaci o gli svedesi, ma verso i romeni sì, perché visti come “poveri”, anche se più vicini a noi culturalmente!
[5] Come del resto su tutta la linea: si faccia caso che mentre le Femen si spogliano in Piazza San Pietro esibendo la scritta “In Gay We Trust”, tutti i bancomat della Città del Vaticano sono stati bloccati dalle “autorità bancarie” italiane, imbeccate da quelle europee, giustificando tale inaudito provvedimento con la “scarsa trasparenza” dello IOR! Come se le altre banche fossero delle mammolette… Cfr. M. Blondet, Il Vaticano “non può né vendere né comprare”, “Effedieffe.com”, 15 gennaio 2013.
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