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samedi, 20 septembre 2014

Hoffmann e Jünger: La natura perturbante della tecnologia

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Hoffmann e Jünger: La natura perturbante della tecnologia

di Marco Zonetti
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]  

Leggendo il racconto “L’Uomo della Sabbia” di Ernst Theodor Hoffmann e il breve romanzo distopico “Le api di vetro” di Ernst Jünger, potremmo scoprire che i due autori non condividono soltanto il nome di battesimo e la nazionalità, bensì una peculiare e chiaroveggente diffidenza nei confronti della tecnologia, o perlomeno del suo potere manipolatore e disumanizzante.

Nel racconto di Hoffmann, scritto nel 1815, il giovane Nathanael è ossessionato dalla figura di un uomo misterioso, Coppelius, che fin dall’infanzia egli apparenta iconograficamente all’Uomo della Sabbia (o Mago Sabbiolino), una sorta di uomo nero delle tradizioni popolari che getta la sabbia negli occhi dei bambini, strappandoli e portandoli nel suo rifugio sulla “falce di luna” per darli da mangiare ai suoi “piccolini dai becchi ricurvi”.

Coppelius viene introdotto nel racconto in veste di vecchio avvocato amico del padre di Nathanael, per poi rivelarsi una specie di folle scienziato/alchimista nonché complice di un fabbricante di automi italiano, Lazzaro Spalanzani, che si spaccia per un innocuo professore di Fisica. Nathanael conosce la figlia di quest’ultimo, Olimpia, in realtà un automa costruito da Spalanzani con l’aiuto di Coppelius, e se ne innamora perdutamente finendo in un vortice di follia. Dopo una breve parentesi di serenità, accudito dalle amorevoli cure della fidanzata Clara e dell’amico Lothar, che rappresentano il focolare domestico e gli affetti sinceri non contaminati dall’unheimlich costituito dalle “diavolerie” della tecnica incarnate invece da Coppelius e Spalanzani, Nathanael sembrerà aver ritrovato brevemente la ragione, salvo poi risprofondare nelle antiche ossessioni – ridestate da un cannocchiale fabbricato da Coppelius – che lo condurranno al suicidio.

Lo stesso approccio alla scienza e alla tecnologia viste come “perturbanti” traspare dal breve romanzo di Ernst Jünger, “Le api di vetro” del 1957. Api di vetro, ovvero minuscoli automi intelligenti che popolano i giardini dell’industriale Zapparoni (un altro italiano) ove il protagonista Richard – reduce di guerra e di un mondo semplice fatto di tradizioni d’onore e di valori ormai perduti – è capitato in cerca di un impiego. Nei giardini di Zapparoni, arricchitosi grazie all'ideazione e costruzione di macchine tecnologicamente avanzate che dominano ormai il mondo, Richard osserva la “spaventosa simmetria”, per citare William Blake, delle api di vetro e della loro fisiologia ipertecnologica che, lungi dal migliorare o perfezionare la natura (imperfettibile in sé come fa notare Jünger in molte sue opere, ricordandoci che più la tecnologia progredisce più l’umanità subisce un’involuzione e viceversa), la impoveriscono, devastandola in ultima analisi – i fiori toccati dalle “api di vetro” sono infatti destinati a perire poiché deprivati dell’impollinazione incrociata..

Seppur concepite in due epoche diverse, Olimpia e le api di vetro rappresentano l’elemento perturbante di un mondo ossessionato dalla scienza, e in corsa dissennata verso un futuro ultratecnologico in cui uomini e macchine divengono intercambiabili sempre più a discapito dei primi. In cui la poesia dell’ideale romantico e dell’amore sincero, come quello di Nathanael per Clara, viene guastato dall’ossessione per la fredda e innaturale Olimpia, meccanismo perfetto ma inumano come quello degli “automi di Neuchatel” che devono aver ispirato Hoffmann per la sua protagonista. In cui uomini e animali vengono via via sostituiti distopicamente dalle macchine e dagli automi, e dove la stessa nascita, lo stesso atto d’amore che porta al concepimento dell’essere umano viene sostituito da un alambicco, da una provetta, da una miscela in laboratorio, in una sorta di “catena di montaggio” della riproduzione, di “fordismo” applicato alle nascite come nel “brave new world” di Aldous Huxley, “eccellente mondo nuovo” in cui sia Olimpia sia le api di vetro sarebbero cittadini onorari e abitanti privilegiati.

arman110.jpgAltra peculiare affinità fra le due opere è quella data dalla ricorrenza dell’elemento degli “occhi” e del “vetro”. Nel racconto di Hoffmann, troviamo per esempio il leitmotiv dei cannocchiali (“occhi” fatti di vetro come le api) costruiti dal solito Coppelius nelle vesti dell’italiano Coppola. Cannocchiali che ci riportano immediatamente a Galileo Galilei, sommo esponente dell’ambizione scientifica dell’uomo, ambizione che nel racconto di Hoffmann è tuttavia distorta dagli ambigui scopi di Coppelius, intenzionato a deprivare Nathanael degli occhi, per renderlo un cieco automa come la stessa Olimpia. Paradossalmente, anziché donargli una visione amplificata della realtà rendendolo più “lungimirante”, il cannocchiale che Nathanael acquista da Coppelius lo fa sprofondare in una follia primordiale che non riconosce affetti, amore, amicizia, né tantomeno connotati umani, portandolo infine all’annullamento di sé, ovvero al suicidio.

Come lo stesso Richard protagonista de “Le api di vetro”, Nathanael perde a poco a poco la propria umanità e l’attaccamento alle proprie tradizioni e ai propri valori, travolto dalla tecnologia malvagia di due esseri votati alla creazione di marionette e pagliacci destinati a divertire le folle, fenomeni da baraccone come Olimpia, o come gli automi di Zapparoni finiti a sostituire gli attori in carne e ossa nei film, quali li descrive Jünger nel suo romanzo.

Per tornare al tema degli occhi, il protagonista de “Le api di vetro” capirà a poco a poco che, per l’incarico che intende assumere, occorrono occhi disumanizzati, asettici, (occhi di vetro?) che devono vedere senza guardare, senza discernere, così da passar sopra alle atrocità perpetrate nel giardino (e nella società) degli orrori tecnologici di Zapparoni. Per poter sopravvivere nel mondo ipertecnicizzato e inumano insediatosi grazie alla perdita dei valori e della tradizione, Richard si renderà dunque conto che è necessario lasciarsi cavare metaforicamente gli occhi dall’Uomo della Sabbia rappresentato dall’ambizione e della protervia dell’uomo.

Con le derive della tecnologia, con il sacrificio dell’etica sull’altare della Hýbris, con la corsa dissennata a voler piegare la natura al nostro volere, sembrano quindi preconizzarci Hoffmann e Jünger, l’essere umano diventa simulacro di se stesso, automa (fintamente) perfetto, “ape di vetro” senz’anima, senza cuore, senza sesso. Transgender e ultragender costruito in serie come una marionetta, al punto che – nella nostra realtà più vicina – i genitori risultano tanto spersonalizzati da abdicare perfino al nome di padre e di madre per diventare “genitore 1” e “genitore 2”, espressioni che tanto piacerebbero all’ambiguo Zapparoni – che deve il suo successo al tramonto dell’etica e della tradizione – ma anche all’infido Coppelius, sorta di “tormento del capofamiglia” kafkiano, non meno inquietante del “rocchetto di filo” Odradek, protagonista del celebre racconto dello scrittore praghese. Ma soprattutto al mostruoso Uomo della Sabbia che, dal suo antro nella “falce di Luna”, non potrebbe che compiacersi oltremodo della nostra cieca ambizione, che ci impedisce di vedere la realtà distopica nella quale, superbi e protervi, ci stiamo gettando a capofitto inseguendo le derive della tecnologia e dell’ingegneria genetica.

La Hýbris demiurgica della tecnica rappresentata da Coppelius e Zapparoni, ovvero l’aspirazione a replicare la potenza creatrice divina, racchiude necessariamente l’annullamento di sé e dell’umanità, per questo il Nathanael di Hoffmann non può che suicidarsi e il Richard di Jünger tradire i propri princìpi per assoggettarsi al nuovo status quo e al nuovo regime di spersonalizzazione dell’uomo.

Privi degli occhi dell’etica, dei valori e del sacro rispetto della natura, accecati dalla nostra arroganza, siamo solo bambini sprovveduti destinati a diventare cibo della progenie di occulti “uomini della sabbia” o schiavi di scaltri e spietati “Zapparoni”.


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