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dimanche, 19 octobre 2014

La battaglia sull’Istmo di Perekop

La battaglia sull’Istmo di Perekop

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it

300px-Isthmus_of_Perekop_map.pngNell’autunno del 1920 la guerra civile russa era ormai avviata verso la sua inevitabile conclusione, con le armate bianche che cedevano, una dopo l’altra, davanti alla pressione dell’Armata rossa forgiata da Trotzkij e da lui diretta con spietata energia.

A parte le prime formazioni di Cosacchi antibolscevichi, come quella del generale Krasnov, che si appoggiava sull’aiuto dei Tedeschi (prima che la Germania uscisse sconfitta dalla prima guerra mondiale) e a parte l’esercito dei volontari cecoslovacchi, i quali, nell’estate del 1918, si erano impadroniti quasi senza colpo ferire di gran parte della ferrovia transiberiana e della regione degli Urali, tre furono le principali armate bianche che, nel corso del 1919, avevano costituito un serio pericolo per il potere bolscevico:

a) l’esercito siberiano dell’ammiraglio Kolčiak, autoproclamatosi “supremo reggitore” dello Stato russo e riconosciuto quale capo nominale di tutte le armate bianche, il quale, nei primi mesi dell’anno, si era spinto in direzione di Kazan’ e di Mosca. L’Armata rossa lo aveva però contrattaccato il 28 aprile e, in maggio, aveva sfondato le sue linee, dapprima respingendolo al di là degli Urali; poi, in agosto, dopo aver preso Celjabinsk ed Ekaterinburg, lanciando una nuova offensiva sul fronte Tobolsk-Kurgan e procedendo assai velocemente lungo la transiberiana, tanto da occupare Omsk già il 14 novembre. Kolčak venne consegnato, il 15 gennaio, dai Cecoslovacchi a un governo provvisorio filo-sovietico formatosi a Irkutsk e da questo processato e fucilato il 7 febbraio; il suo corpo venne buttato in un buco scavato nel ghiaccio del fiume Angara.

b) L’esercito bianco del generale Denikin, che nell’estate del 1919 aveva riportato successi spettacolari e, dalla regione del Kuban, aveva invaso l’Ucraina, spingendosi fino a Orel, sulla via adducente a Mosca da sud. Esso era stato a sua volta contrattaccato dall’Armata rossa a partire dal 10 ottobre e costretto a una precipitosa e drammatica ritirata. Alla fine dell’anno, i suoi resti erano tornati, assai mal ridotti, sulle posizioni di partenza della primavera, fra Kursk ed Ekaterinoslav; Denikin, sfiduciato, aveva passato le consegne al generale Wrangel, il quale aveva dedicato i mesi invernali a riorganizzare le truppe e i servizi logistici.

c) Il terzo attacco ai centri vitali del potere bolscevico era stato sferrato nell’autunno del 1919 dal generale Judenič il quale, con il sostegno della flotta inglese, era sbarcato nel Golfo di Finlandia e aveva marciato direttamente sulla vecchia capitale imperiale, Pietrogrado. La minaccia era stata seria, perché si era profilata contemporaneamente all’avanzata di Denikin dall’Ucraina, (mentre le forze di Kolčiak erano già in piena dissoluzione); ma anch’essa era stata affrontata e sventata con la massima energia dall’Armata rossa, che era passata decisamente al contrattacco, il 22 ottobre, e aveva costretto le forze di Judenič a interrompere la marcia su Pietrogrado e a reimbarcarsi in tutta fretta.

Così, all’inizio del 1920, a parte le bande degli atamani Semënov e Kalmykov, rispettivamente a Čita e Khabarovsk, al di là del lago Bajkal – ove era sorta, a fare da cuscinetto fra i Rossi e un corpo di spedizione di 70.000 soldati giapponesi, una effimera Repubblica dell’Estremo Oriente -; il piccolo esercito del barone Ungern-Sternberg nella Mongolia Interna; alcune forze cosacche nell’Asia centrale e nella regione del Caucaso; e alcune bande ucraine operanti nella zona di Kiev, restavano ora due soli avversari cospicui per l’Armata rossa: l’esercito polacco del maresciallo Pilsudski, pronto ad attaccare nella primavera del 1920, e quello dei Russi “bianchi” del generale Wrangel, attestato nell’Ucraina meridionale.

In Estremo Oriente, la guerriglia contro le ultime forze “bianche” e contro gli stessi Giapponesi venne condotta da bande di partigiani, sia bolscevichi che anarchici; mentre l’offensiva scatenata da Pilsudski nel maggio venne respinta e l’Armata rossa, passata a sua volta all’attacco, venne battuta in maniera decisiva sotto le mura di Varsavia, in agosto: sicché, il 18 marzo 1921, si giunse alla pace di Riga fra Polonia e Unione Sovietica. Abbiamo già narrato questi avvenimenti in due lavori precedenti: Trjapicyn in Siberia orientale: breve la vita felice di un “bandito” anarchico; e Chi ha voluto la guerra sovietico-polacca del 1920? Una questione storiografica ancora aperta.

Pertanto, nell’autunno del 1920, Trotzkij era ormai libero di concentrare le forze maggiori dell’Armata rossa contro l’ultimo esercito “bianco” ancora attestato in territorio russo e dotato di una buona capacità combattiva: quello del barone Wrangel. Anche le bande anarchiche di Machno, fino ad allora ostili ai bolscevichi, siglarono una tregua e accettarono anzi di passare sotto il comando del generale Frunze, in vista di una offensiva finale contro i Bianchi. Un ambasciatore inviato a Machno da Wrangel, per esplorare le possibilità di una alleanza tattica in funzione antibolscevica, era stato impiccato; il capo anarchico non sapeva, allora, che subito dopo la liquidazione dell’ultima armata “bianca” sarebbe venuta anche la sua ora.

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Pyotr Nikolayevich Wrangel (27 agosto 1878 – 25 aprile 1928)

Wrangel non godeva dell’appoggio delle popolazioni ucraine, per le stesse ragioni che avevano provocato la sconfitta di Kolčak, Denikin e Judenič: la diffidenza dei contadini e l’esiguità delle classi medie che, sole, avrebbero potuto costituire una base sociale determinante; e ciò nonostante che Wrangel, ammaestrato dalla disfatta degli altri generali “bianchi”, avesse promesso ai contadini una riforma agraria radicale, a spese della grande proprietà terriera.

I bolscevichi, con i loro metodi brutali di requisizioni forzate e con l’esercizio di una spietata dittatura, mascherata sotto l’apparenza di autonomia dei Soviet, avevano destato anch’essi notevoli diffidenze da parte dei contadini e suscitato malumori perfino tra i marinai e nella classe operaia (come si sarebbe visto nella rivolta di Kronstadt, repressa da Tuchacevskij nel marzo 1921). Essi erano però più abili a livello propagandistico, sfruttando slogan come «tutto il potere ai Soviet» e «la terra a chi la lavora»; e dipingendo tutti i Bianchi, senza alcuna sfumatura, come gli strumenti della restaurazione monarchica e aristocratica.

Una valutazione imparziale di quegli avvenimenti esige che si riconoscano a Wrangel delle capacità militari e organizzative veramente eccezionali: possedeva più costanza di Denikin e più senso politico di Kolčak; e, pur non facendosi illusioni sull’esito finale di una lotta così ineguale, era capace di infondere coraggio e determinazione ai suoi uomini, demoralizzati da tante sconfitte e ridotti a lottare con una crescente penuria di materiali da guerra ed equipaggiamenti; cui si aggiunsero – alla metà di ottobre – delle condizioni climatiche precocemente ed eccezionalmente rigide, che aumentarono le loro sofferenze.

Riteniamo si possa sostanzialmente concordare con il giudizio che di Wrangel ha dato lo storico inglese W. H. Chamberlin nella sua ormai classica Storia della Rivoluzione russa, 1917-1921 (titolo originale: The Russian Revolution, 1917-1921, 1935; traduzione italiana di Mario Vinciguerra, Torino, Einaudi, 1966, pp. 728, 740-42):

«Wrangel contribuì a infondere nuova energia nelle file dei Bianchi. Lavorando giorno e notte riorganizzò totalmente l’amministrazione militare e civile nella piccola zona sotto la sua autorità, e trasformò quelle truppe dalla massa informe di profughi cui s’erano ridotti a un’efficiente forza combattiva. Alcune delle misure prese a quello scopo dai suoi luogotenenti furono estremamente brutali. Ad esempio, il generale Kutepov fece impiccare in pubblico ufficiali e soldati colti in stato di avanzata ubriachezza nelle strade di Simferopol'; ma nel complesso questi provvedimenti raggiunsero il loro scopo. Lo spiriti bellicoso delle truppe, che era quasi svanito durante la lunga e tremenda ritirata da Orel a Novorossijsk, fu restaurato. Uno scrittore sovietico esprime il seguente apprezzamento sullo stato dell’esercito di Wrangel nella primavera e nell’estate del 1920: “Qualitativamente era la migliore forza combattente d cui avesse mai disposto la controrivoluzione russa e internazionale nella sua lotta contro le Repubbliche sovietiche”.

Questo giudizio è confermato dal corso delle operazioni militari. Le truppe di Wrangel non solo tennero a bada ma respinsero forze sovietiche considerevolmente superiori, e soccombettero solo quando, per effetto della pace conclusa con la Polonia, esse furono letteralmente schiacciate dal numero delle forze sovietiche […].

Wrangel fu l’ultimo capo del movimento bianco organizzato in Russia. Trovandosi fin da principio di fronte a una forte disparità di forze, la sua disfatta era quasi inevitabile. Pochi degli uomini di stato antibolscevichi più autorevoli ebbero voglia di entrare nel suo governo. Egli non fece miracoli. Con un piccolo esercito e una base di operazioni inadeguata, non poteva tener testa indefinitamente all’enorme esercito rosso, che attingeva i propri soldati da quasi tutta la Russia. Coi suoi precedenti di ufficiale aristocratico, non poteva superare il grande abisso di sospetto e di ostilità che sempre sussistettero tra il movimento e le masse dei contadini, e fu la causa fondamentale della sua disfatta.

Ma, tenuto conto di questi inevitabili fattori negativi, Wrangel si batté valorosamente. Aveva ereditato un relitto di esercito e seppe rifoggiarlo in forza combattente che inferse ai Rossi alcuni fieri colpi. Wrangel non poteva salvare quella vecchia Russia di cui s’era fatto campione e rappresentante, ma la sua attività militare, che tenne una quantità di truppe rosse impegnate in Ucraina e nel Kuban, non fu certo l’ultima ragione per cui l’esercito rosso mancò davanti a Varsavia di quella estrema riserva d’energia che avrebbe creato una Polonia sovietica ed esteso il bolscevismo molto oltre le frontiere russe. Visto da questo lato, l’epilogo del movimento bianco, impersonato da Wrangel, fu una fortuna per la Polonia e forse per altri stati di nuova formazione dell’Europa orientale come fu funesto per il governo sovietico e per l’Internazionale comunista».

Una prima offensiva contro le forze di Wrangel, lanciata l’8 gennaio 1920, aveva portato i reparti dell’Armata rossa fino a ridosso della Crimea, centro nevralgico dei Bianchi, con i suoi porti affollati di navi russe e delle potenze dell’Intesa. Sarebbe errato, tuttavia, vedere Wrangel come una semplice creazione degli Alleati; in realtà, dopo la sconfitta di Denikin, i governi di Londra e Parigi avevano rinunciato alla speranza di assistere a una caduta del regime sovietico in tempi brevi e, di fatto, avevano ritirato il loro appoggio militare e finanziario ai Bianchi, limitandosi solo a vaghe promesse e ad un certo sostegno logistico.

I Francesi, in particolare – che avevano investito grossi capitali in Russia prima e durante la prima guerra mondiale, avevano puntato quasi tutte le loro carte sulla Polonia di Pilsudski; e, dopo la vittoria di quest’ultimo davanti a Varsavia, si disinteressarono sostanzialmente del destino di Wrangel. Come se non bastasse, la loro flotta, stanziata a Odessa, era stata scossa dagli ammutinamenti degli equipaggi nel 1919, per cui il governo francese non si illudeva di poter prolungare la propria influenza politico-militare nell’area del Mar Nero.

Ci furono invece delle trattative interalleate che sembrarono sfociare in una spedizione militare italiana in Georgia, all’inizio dell’estate 1919; ma poi non se ne fece più nulla, specialmente a causa dell’instabilità dei governi italiani tra la fine della prima guerra mondiale e l’ascesa del fascismo. Nel caso specifico, fu l’opposizione di Nitti al progetto che lo fece cadere, e con esso cadde il ministero Orlando, che lo aveva preparato e si accingeva a porlo in atto.

Quanto agli Inglesi, essi avevano puntato su Kolčak, cui avevano fornito non solo abbondante materiale da guerra e ingenti risorse finanziarie, ma anche consiglieri militari; e, dopo la sua sconfitta, avevano rinunciato all’idea di poter rovesciare il regime sovietico mediante l’azione degli eserciti “bianchi”.

Sapendo di non poter più vincere la guerra civile sul campo, Wrangel – che era un uomo intelligente e che possedeva uno spiccato senso realistico – studiò il modo di ritardare l’investimento della sua cittadella crimeana e di intavolare eventualmente trattative coi bolscevichi, attraverso i buoni uffici delle potenze occidentali; ma, per poterlo fare, desiderava raggiungere una posizione strategica migliore, che rendesse più forte anche la sua posizione politica.

Pertanto, nell’estate, egli effettuò alcuni sbarchi sulla costa orientale del Mar d’Azov, investendo il territorio del Kuban e minacciando di congiungersi con il cosiddetto Esercito della rigenerazione russa, che si era stabilito nella regione settentrionale del Caucaso. Il collegamento non riuscì, nonostante le forze bianche riportassero, nel mese di agosto, una serie di successi inaspettati; per cui, in settembre, le truppe di Wrangel dovettero reimbarcarsi.

Aspettandosi ora una nuova, grande offensiva dell’Armata rossa, Wrangel attestò il suo esercito nella Tauride settentrionale e, intanto, provvide a fortificare potentemente l’istmo di Perekop, un vero e proprio “collo di bottiglia”, mediante il quale si accede, da nord-ovest a sud-est, alla penisola di Crimea.

In effetti, l’offensiva sovietica scattò il 28 ottobre, contemporaneamente alla fine delle grandi operazioni sul teatro polacco; e, dopo una lotta accanita, terminò com’era inevitabile: con l’irruzione dei Rossi fino agli accessi dell’istmo. In questa battaglia Wrangel aveva potuto mettere in linea non più di 35 uomini, contro circa 137.000 dell’Armata rossa.

Ai primi di novembre, dunque, le due armate si fronteggiavano sull’istmo, davanti a Perekop, dove i Bianchi era asserragliati dietro il cosiddetto Vallo Turco, una triplice linea di difesa munita di trincee, filo spinato, nidi di mitragliatrici e postazioni d’artiglieria. Molti consideravano le difese dell’istmo semplicemente imprendibili; ma, come vedremo, le forze della natura diedero ai Sovietici, che già godevano di una schiacciante superiorità numerica, anche un inatteso vantaggio strategico, allorché il vento rese transitabile il passaggio di terra dalla Penisola Čongar alla Penisola Lituana, respingendo le acque basse del mare; mentre le gelide temperature permisero al fondo fangoso di solidificarsi in una solida crosta di ghiaccio.

Scrive lo storico americano W. Bruce Lincoln nel suo libro I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa (titolo originario: Red Victory, 1989; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1991, 1994, pp. 396-401):

Mikhail Frunze (2 febbraio 1885 – 31 ottobre1925)

Mikhail Frunze (2 febbraio 1885 – 31 ottobre1925)

«Solo lentamente i soldati di Wrangel cedettero terreno sotto l’enorme pressione dell’Armata Rossa durante la prima settimana di aspri combattimenti, e l’assalto finale di Frunze non fu coronato dal trionfo che si era atteso. Le forze di Bljücher e di Budënnyi erano avanzate di oltre 120 chilometri in tre giorni nel deciso tentativo di raggiungere la ferrovia in modo da tagliare la strada alla ritirata di Wrangel in Crimea, ma le unità rosse più a est dovettero disputare al nemico ogni pollice di terra e avanzarono assai più lentamente. “Sono stupefatto dell’enorme energia con cui il nemico resiste – comunicò Frunze a Mosca. – è indubbio che il nemico ha combattuto più validamente e tenacemente di quanto avrebbe fatto ogni altro esercito”. Fu così che i reparti di Wrangel in ritirata vinsero la corsa per la Crimea, e i disperati sforzi di allievi ufficiali e unità di seconda linea impedirono ai fucilieri di Bljücher di impadronirsi del Passo di Salkovo e di fare sfondare la prima linea di difesa a Perekop. Ma i Bianchi pagarono assai cari i loro momentanei successi. Aprendosi la strada nella Tauride settentrionale, le forze di Frunze catturarono quasi 20.000 prigionieri, un centinaio di pezzi da campo, un gran numero di mitragliatrici, decine di migliaia di granate e milioni di cartucce. “L’esercito rimase intatto – commentò in seguito Wrangel -, ma le sue capacità combattive non furono più quelle di prima”, né d’altra parte era riuscito a conservare quelle fonti alimentari per le quali aveva rischiato tanto: oltre 36.000 tonnellate di cereali del raccolto autunnale accantonate dalla sua sussistenza nei magazzini ferroviari di Melitopol e di Geničesk caddero nelle mani di Frunze.

Quesri aveva perduto l’occasione di riportare una vittoria decisiva non essendo riuscito ad accerchiare l’esercito di Wrangel prima che raggiungesse la Crimea; costretto pertanto a dare l’assalto alla fortezza peninsulare, aumentò le proprie forze e inviò i ricognitori che si erano di recente aggiunti ai suoi rafforzati reparti aerei a fotografare le linee nemiche. Alla fine della prima settimana di novembre, aveva ammassato 180.771 uomini appoggiati da quasi 3.000 mitragliatrici, oltre 600 pezzi d’artiglieria e 23 treni corazzati con cui affrontare i 26.000 regolari bianchi e le 16.000 male armate riserve che guarnivano le difese della Crimea.

Frunze decise di sferrare l’attacco principale contro il Vallo Turco, una barriera ottomana del XVIII secolo lungo la quale Wrangel aveva creato nidi ben protetti di mitragliatrici e piazzole di artiglieria, in modo da assicurare fuoco incrociato a complemento delle fitte barriere di filo spinato che costituivano la prima linea di Perekop, dietro la quale i residui treni corazzati dei Bianchi erano in grado di muoverei avanti e indietro lungo la recente diramazione ferroviaria Sebastopoli-Jušun-Amjansk, coprendo con i loro pezzi gli approcci del vallo. La 51a Divsione di Bljücher ebbe l’ordine di guidare l’attacco, e il suo comandante ne concentrò i fucilieri in ordine talmente serrato, che in certi punti aveva un uomo ogni metro e una mitragliatrice a sostegno di ogni 17 uomini. Alla sinistra di Bljücher, di fronte alle paludi salmastre di Sivaš e al ponte di Čongar un po’ più a est, Frunze schierò la Kornarmija di Budënnyi, la IV Armata Rossa e i partigiani di Machno, tenendo di riserva la maggior parte di tre armate. Stando ai resoconti sovietici, erano tutti reparti animati da alto spirito combattivo, decisi a celebrare il 7 novembre il terzo anniversario della rivoluzione bolscevica infliggendo una disfatta all’ultima cospicua forza bianca sul suolo russo.

Nonostante gli uomini e le armi che Frunze aveva radunato in vista della battaglia, i difensori della Crimea non si erano lasciati infettare dal sentimento di sconfitta che alla fine del 1919 aveva minato Denikin e i Bianchi a Novorossijsk. Wrangel aveva cominciato i preparativi per un’evacuazione in massa, ma così silenziosamente e in tempi così lunghi da mascherare l’intento. “Le misure da noi prese avevano placato le ansie che si erano qua e là manifestate”, commentò in seguito. “Dietro le linee, tutto restava tranquillo perché ciascuno credeva nell’imprendibilità delle fortificazioni di Perekop”, ed era una convinzione tutt’altro che infondata. I giornali di Crimea parlavano ancora in tono fiducioso delle difese dell’istmo di Perekop, del ponte di Čongar e della costiera intermedia. “Le fortificazioni di Sivaš e di Perekop sono talmente solide, che il Comando supremo rosso non dispone né degli uomini né delle macchine per sfondarle, assicurava il 4 novembre il foglio “Vremja” (“Tempi”). Tutte le forze armate del Sovdepja messe assieme non bastano a intimidire la Crimea”. Wrangel, forse ancora speranzoso di riuscire a bloccare Frunze, ma intento soprattutto a guadagnare il tempo necessario per portare a termine un’evacuazione ordinata, unificò la I e la II Armata sotto gli ordini del generale Kutepov, il migliore e il più tenace dei reparti combattenti che gli restassero. Universalmente noto per la feroce crudeltà nei confronti di bolscevichi e loro simpatizzanti, e ampiamente sospettato di di aver intascato colossali bustarelle in cambio di permessi di esportazione e importazione quando aveva comandato la guarnigione di Novoriossijsk, Kutepov continuava ciò nonostante a godere della piena fiducia di Wrangel quale ufficiale “in grado di affrontare qualsiasi situazione, un uomo dal grande valore militare e di eccezionale tenacia nella realizzazione dei compiti affidatigli.” Kutepov avrebbe difeso il Vallo Turco come nessun altro avrebbe potuto fare; e se non ci fosse riuscito, Wrangel avrebbe saputo senz’ombra di dubbio che la fine era giunta.

La mattina del 7 novembre, dopo aver impartito gli ultimi ordini per l’attacco, Frunze si recò al quartier generale di Budënnyi dove con questi e Vorošilov compilò un telegramma di congratulazioni a Lenin nel terzo anniversario della rivoluzione bolscevica, promettendogli la vittoria conclusiva a celebrazione della stessa. “In nome degli eserciti del fronte meridionale, ormai pronti a sferrare il colpo finale contro la tana della belva mortalmente ferita, e in nome delle rinnovate aquile delle grandi armate di cavalleria, salute – esordiva il testo. – La nostra ferrea fanteria, la nostra audace cavalleria, la nostra invincibile artiglieria e i nostri rapidi aviatori dalla vista acuta… libereranno quest’ultimo lembo di terra sovietica da ogni nemico”, si prometteva a Lenin. Forse più di ogni altra unità in azione nella Russia meridionale, la 51a Divisione di Bljücher meritava tutti quei superlativi, ed era sul suo assalto frontale contro il Vallo Turco che Frunze, Vorošilov e Budënnyi contavano per irrompere nel bastione crimeano di Wrangel. Ma ad aiutare la loro causa più di quanto avrebbe potuto fare ogni atto di valore, per quanto grande, furono l’imprevedibile e l’inaspettato. La natura, le cui forze avevano inflitto tanti tormenti al popolo della Russia bolscevica durante i due aspri inverni precedenti, questa volta si schierò dalla parte dei Rossi, aprendo loro nuove, insospettate vie d’attacco.

Forse solo due o tre volte nel corso di una generazione, un forte vento investe da nordovest la Crimea, spingendo verso est le basse acque che coprono i bassifondi salini del Sivaš e lasciando allo scoperto la sottostante, putrida fanghiglia. Il 7 novembre 1920, imperversò un vento talmente furioso, accompagnato da temperature così basse che la notte del 7-8 novembre il fondo melmoso del Sivaš, così di rado scoperto, si gelò formando una superficie tanto solida da reggere uomini e cavalli. Alle 22, mentre gran parte della 51a Divisione di Bljücher si apprestava ad assalire le posizioni di Kutepov lungo il Vallo Turco, la 15a e la 52a Divisione di fucilieri, in una con la 153a Brigata di fucilieri e di cavalleria della 51a Divisione, approfittando dell’insperato vantaggio. Una pesante nebbia grava sulla zona, impedendo alle sentinelle di Wrangel sulla Penisola Lituana di avvistare i reparti rossi impegnati nell’attraversamento dei sei chilometri del Sivaš. Ben presto, i piedi e gli zoccoli di uomini e cavalli trasformarono in gelida fanghiglia il fondo marino indurito, obbligando i reparti successivi a rallentare l’avanzata, in pari tempo aumentando le probabilità di scoperta; ciò nonostante, tutti i reparti raggiunsero la terraferma senza essere avvistati proprio mentre il vento cambiava direzione e l’acqua cominciava a crescere.

All’alba dell’8 novembre, gli infangati soldati di Frunze assalirono le deboli forze che Wrangel aveva lasciato sulla Penisola Lituana a difesa da un eventuale quanto improbabile attacco anfibio. Quello che i comandanti di entrambe le parti avevano immaginato essere un angolino dimenticato nella battaglia per la Crimea, ne divenne la chiave di volta allorché Kutepov ordinò contrattacchi a sostegno dei difensori della Penisola Lituana proprio mentre la 51a muoveva all’assalto del Vallo Turco. Per tutta la giornata, le sorti della battaglia rimasero incerte, e il destino dei Rossi e dei Bianchi parve ugualmente in bilico. Se l’assalto di Bljücher fosse fallito sarebbe stato facilissimo, per Kutepov, volgersi contro i ridotti reparti rossi che lo minacciavano alle spalle della Penisola Lituana e liquidarli, ora che le acque marine avevano rioccupato il Sivaš e Frunze non poteva né inviar loro rinforzi né richiamarli. D’altro parte, se l’attacco di Bljücher fosse stato coronato da successo, e i Rossi fossero avanzati oltre la Penisola Lituana, il grosso di Kutepov rischiava l’accerchiamento ad opera di un nemico assai più forte. Le sorti della battaglia dipendevano dallo sfondamento del Vallo Turco e dalla capacità delle truppe rosse sulla Penisola Lituana di resistere finché Bljücher ci fosse riuscito.

Dopo aver differito l’assalto per parecchie ore a causa della fitta nebbia, Bljücher aprì il bombardamento d’artiglieria contro il Vallo Turco proprio mentre le unità che avevano superato il Sivaš raggiungevano la Penisola Lituana. Quattro ore più tardi, le sue fanterie vennero avanti. In un primo momento il fuoco d’appoggio, per quanto pesante, non parve sufficiente a ridurre la tempesta di proiettili che artiglierie e mitragliatrici di Kutepov scagliarono addosso agli attaccanti: in alcuni reggimenti di Bljücher, le perdite ammontarono al sessanta per cento degli effettivi, e tre successive ondate di fanteria furono respinte dal fuoco nemico. Solo alle tre e mezza del mattino del 9 novembre, il quarto assalto condotto dalla 51a Divisione ebbe ragione del Vallo. “Fu come se una montagna mi cadesse dalle spalle – confessò poi Frunze. – Con la presa di Perekop scomparve il pericolo che le due divisioni tagliate fuori dalle acque refluenti del Sivaš venissero annientate.”

Il sollievo di Frunze accompagnò l’inizio delle più buie ore di Wrangel, il quale la sera del 9 novembre, alla notizia che il Vallo Turco era caduto, scrisse: “Il generale Kutepov mi riferì che, alla luce degli ultimi sviluppi, vale a dire la penetrazione del nemico nelle nostre posizioni di Perekop e il pericolo di un accerchiamento, aveva impartito l’ordine di ripiegamento sulla seconda linea fortificata… Eravamo sull’orlo del disastro… Erano già stati superati i limiti della capacità dell’esercito di resistere e le fortificazioni non potevano più bloccare il nemico. Erano necessarie urgenti misure per salvare l’esercito e la popolazione civile.” In netto contrasto con la ritirata di Denikin da Novorossijsk dell’anno prima, così malamente condotta, Wrangel, pur sperando nella vittoria, aveva elaborato precisi piani di evacuazione e disponeva pertanto di sufficienti riserve di carbone e nafta per tutte le navi in mano ai Bianchi. A questo punto diede fondo a tutte le sue risorse. “La minima esitazione, il più piccolo errore, potrebbe rovinare tutto”, ammonì. L’11 novembre ordinò che tutte le navi dei Bianchi accostassero alle zone di imbarco precedentemente scelte, vale a dire Evpatorija, Sebastopoli e Jalta, e altre ancora a Feodosija e a Kerč. Poi, mentre Kutepov conduceva azioni di retroguardia per rallentare l’avanzata rossa, Wrangel portò a termine i preparativi. Innanzitutto i malati e i feriti, poi i funzionari governativi, i civili e le forze armate, dovevano essere evacuati prima dell’arrivo dei Rossi. Il giorno dopo Wrangel impartì gli ultimi ordini. Le truppe dovevano rompere il contatto con il nemico e raggiungere i più vicini porti d’imbarco, lasciandosi alle spalle armamenti e materiali pesanti, mentre “tutti coloro che hanno partecipato con l’esercito a questa salita al Calvario – vale a dire i familiari dei soldati e quelli dei funzionari civili, nonché – chiunque altro possa correre pericolo se catturato dal nemico”, doveva avviarsi ai punti d’imbarco con i militari.

L’abilità di cui Wrangel diede prova nel mantenere il controllo di truppe e civili, fu brillantemente comprovata dal fatto che l’evacuazione ebbe luogo con panico e disordine minimi. Nel tardo pomeriggio del 14 novembre, Sebastopoli era ormai vuota e Wrangel, avuta notizia che anche l’evacuazione di Evpatorija era stata portata a termine, salì a bordo dell’incrociatore “Generale Kornilov” che l’avrebbe portato in esilio. A Jalta, la stessa scena si ripeté alle nove del mattino successivo e quello seguente ebbe luogo anche a Feodosija e, di lì a poche ore, a Kerč. Alle sedici del 16 novembre 1920, gli ultimi Bianchi, 145.693 uomini, donne e bambini erano a bordo di 126 navi in rotta verso Costantinopoli.»

Con l’evacuazione della Crimea e la scomparsa dell’ultimo consistente esercito antibolscevico, la sorte della guerra civile era definitivamente segnata. Uno dopo l’altro, l’Armata rossa spense gli ultimi focolai di resistenza nell’immenso territorio russo.

Le bande di Machno vennero spazzate via dall’Ucraina meridionale; l’ataman Petljura, che si era alleato coi Polacchi, vide infranto il suo sogno di una Ucraina occidentale indipendente; Ungern-Sternberg venne sconfitto e fucilato in Mongolia; le Repubbliche caucasiche furono riconquistate (Batum fu presa il 19 marzo 1921); i Giapponesi, preceduti dagli Americani, sgombrarono la Siberia e, nel 1922, la Repubblica dell’Estremo Oriente si sciolse e fu riassorbita dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (che assunse tale denominazione nel dicembre 1922, in occasione del X Congresso panrusso dei Soviet).

Prima ancora della sconfitta finale di Wrangel, anche la regione russa settentrionale di Arcangelo e Murmansk era stata evacuata dagli Inglesi che avevano puntato sul generale Miller, ma la cui posizione era divenuta insostenibile dopo la sconfitta di Kolčak. Infine, nell’Asia centrale, venne infranto il sogno di Enver pascià, ex membro del triumvirato dei “Giovani Turchi” che aveva governato l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale (e che aveva personalmente deciso il genocidio degli Armeni nel 1915-16), di creare un vasto dominio delle genti turaniche e turche fra il Turkestan cinese e il bacino del Mar Caspio.

Così, con la sola eccezione della Finlandia e delle tre piccole Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), destinate a una effimera indipendenza sino allo scoppio della seconda guerra mondiale; e con la perdita, altrettanto temporanea, di alcune regioni di confine a favore della Polonia e della Romania, l’Unione Sovietica ritornò in possesso, entro la fine del 1922, di tutti i territori che avevano fatto parte del vecchio Impero zarista. Del quale ereditò automaticamente anche la politica espansionista, sia verso l’Europa che verso l’Asia; ma, questa volta, non sotto l’influsso della ideologia panslavista, bensì all’ombra della bandiera rossa e del credo internazionalista di Marx e Lenin.

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