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lundi, 11 mars 2019

Pierre Vial: Salut Guillaume !

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Salut Guillaume

Eté 1973, en forêt bourguignonne. Le camp d’été d’Europe Jeunesse se termine par un raid destiné à initier nos jeunes camarades, tous citadins, à la magie de la forêt. En fin de journée je fais le compte des troupes, arrivées échelonnées au point de rendez-vous. Il manque un homme. J’épluche la liste des effectifs et fais l’appel. Le manquant est un certain Guillaume Faye. Alors que la consigne, stricte, que j’avais donnée à chaque patrouille était qu’on ne laisse, jamais, quelqu’un derrière soi, il a disparu sans que personne ne le remarque, comme un feu follet. L’image me restera ensuite en tête : Guillaume, un feu follet.

Je suis parti à sa recherche, craignant qu’il ait eu un accident l’immobilisant en terrain isolé. Rien. Pas une trace. Je m’apprêtais à mobiliser un maximum d’effectifs pour organiser les recherches quand j’ai vu arriver au point de rendez-vous un gars épuisé, hirsute. Il m’a dit avoir voulu prendre un raccourci et s’être perdu… Je l’ai envoyé manger et dormir car il en avait grand besoin. J’ai voulu, le lendemain, mieux connaître cet étrange gars. Et j’ai découvert quelqu’un dont les paroles ont révélé un esprit curieux de tout, d’une intelligence aigüe. J’ai donc fait en sorte, fidèle à ma vocation de pêcheur d’âmes, qu’il travaille, très vite, dans le cadre du Secrétariat Etudes et Recherches du GRECE, où ses talents ont fait merveille. Peut-être trop au goût de certains egos surdimensionnés, à qui il faisait (sans le vouloir) de l’ombre. Lesquels ont fini par écoeurer Guillaume, qui a pris le large, à peu près au moment où j’en fis autant, en 1986.

Mais tout au long de son passage au GRECE Guillaume avait donné toute la mesure de son talent, qui était grand. Agitateur d’idées, créateur de concepts originaux et dérangeants, animateur hors pair alliant de solides connaissances et un humour dévastateur, Guillaume a été, pour beaucoup de jeunes camarades, un éveilleur au plein sens du terme. Et il avait un sens de l’amitié toujours prêt à se manifester.

Mais, derrière la façade du blagueur génial, auteur de farces mémorables quand il était devenu Skyman, il y avait un homme en fait très sensible. Et donc fragile. Quand le divorce avec certains hiérarques de la Nouvelle Droite est devenu inévitable, il a été touché au plus profond de son être et nous avons été peu nombreux à nous en rendre compte. Il y avait en lui des blessures qui ne se sont jamais refermées. Les dérives dans lesquelles il s’est noyé, ensuite, ont largement là leur explication, j’en suis persuadé.

Je ne veux garder de lui que l’image de l’homme brillantissime qu’il fut pendant un pan de sa vie, l’auteur de livres-clefs comme « Le Système à tuer les peuples », qui resteront des balises . Alors, il faut oublier le reste.

Salut Guillaume !

Pierre VIAL

È morto Guillaume Faye, l’uomo che ha cambiato il pensiero non conforme europeo

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È morto Guillaume Faye, l’uomo che ha cambiato il pensiero non conforme europeo

 
Ex: https://www.ilprimatonazionale.com

Parigi, 7 mar – Con il decesso di Guillaume Faye, morto nella notte tra 6 e 7 marzo, scompare dalla scena metapolitica europea uno dei pochi intellettuali che ha davvero cambiato il modo in cui tutti noi pensiamo, anche chi non l’ha mai letto, anche chi lo ha letto pensandola diversamente su tanti temi. Gravemente malato da tempo, accudito da un pugno di sodali devoti, Faye ha mostrato sino all’ultimo più interesse per il mondo delle idee che per la propria persona, anche a costo di trascurare la propria salute pur di continuare a scrivere. Pur non avendolo mai conosciuto, negli ultimi tempi avevo provato diverse volte a contattarlo, scrivendo alla mail del suo sito. Una prima volta mi aveva risposto, acconsentendo a un’intervista. Ma, quando gli avevo mandato le domande via mail, aveva dichiarato di non aver ricevuto nulla, chiedendomi di inviargliele nuovamente… via lettera. Cosa invero singolare, per un profeta della tecnoscienza. Avevo fatto un secondo tentativo, al fine di cooptarlo sul Primato Nazionale, in cui una sua rubrica fissa sarebbe stata più che gradita. Non mi rispose mai, probabilmente perché stava già male.

La Nuova Destra francese

Faye era nato il 7 novembre 1949 ad Angoulême, il capoluogo del dipartimento della Charente, situato nella regione Nuova Aquitania. In un’intervista aveva detto: «Sono stato allevato nel culto del nazionalismo francese, di tendenza bonapartista, e il risultato paradossale fu un patriottismo europeo. Il mio ambiente sociale d’origine è quello della grande borghesia parigina, che conosco perfettamente dall’interno e di cui non ho mai condiviso gli ideali conformisti e materialisti». Diplomato all’Institut d’études politiques di Parigi e titolare di un dottorato in scienze politiche, è stato uno dei principali teorici del Groupement de Recherches et Etudes pour la Civilisation Européenne (Grece), e dell’ambiente più tardi noto come Nuova Destra francese, nel periodo che va dal 1970 al 1986. Faye si avvicina al Grece su invito di Dominique Venner, senza un pedigrée pregresso particolarmente legato alla destra. Tra le figure che lo hanno segnato fino a quel momento c’è semmai il marxista e situazionista Henri Lefebvre. In questa fase, Faye propone un pensiero volontarista, faustiano, marcatamente nietzscheano e portatore di un neopaganesimo postmoderno. La sua visione del mondo esalta la tecnoscienza visionaria dello spirito europeo. Non sono rare le provocazioni, soprattutto in tema etico e sessuale.

In un articolo di qualche anno fa, Stefano Vaj, amico di lunga data del francese, così descrive il primo impatto con il personaggio Faye, nell’ambito di un convegno del Grece: «Oratore eccezionale, ipnotico persino nel leggere una relazione scritta nell’atmosfera ovattata di un convegno di studi in un palazzo dei congressi, Guillaume Faye assomigliava un po’ fisicamente e nelle movenze al giovane Feddersen, interpretato da Gustav Froelich, protagonista di Metropolis di Fritz Lang; ed era già indiscutibilmente l’astro nascente del movimento. […] Faye lasciava un’impressione di “lucido fanatismo” in cui si mescolavano reminiscenze di Che Guevara, D’Annunzio, Ignazio di Loyola e Goebbels, alquanto lontane dal materiale umano settario e arrivista, conformista e reazionario, che dominava la mia esperienza politica italiana dell’epoca. Le notti passate a discutere delle questioni fondamentali della nostra epoca e del futuro dell’Europa nella campagna provenzale delle Université d’Eté del GRECE diventarono anzi ben presto una benvenuta boccata di ossigeno".

Il sistema per uccidere i popoli

Figlio di questa fase è l’eccezionale Le Système à tuer les peuples, puntuale diagnosi della globalizzazione scritta… nel 1981, quando l’agenda politica dell’Occidente era interamente occupata dalla Guerra fredda. In un mondo diviso in due, con le varie destre spesso preoccupate di rappresentare con il dovuto zelo il ruolo di sentinelle dell’Occidente, Faye si preoccupava dell’uniformità del pianeta all’insegna di un’unica ideologia consumistica, smobilitante, borghese, universalistica. Libro profetico se mai ve ne fu uno, Il sistema per uccidere i popoli – di cui esiste una traduzione in italiano, realizzata dallo stesso Vaj, più volte riproposta in diverse edizioni, l’ultima recentemente da Aga editrice – aveva inoltre il merito di proporre una lettura del potere totalmente aliena da schemi complottistici e semplificazioni settarie. La caratteristica principale del Sistema descritto da Faye era anzi proprio il fatto di «funzionare» in modo meccanico, impersonale, acefalo. Una lezione da ripassare, proprio oggi che gli spettri di mega cospirazioni tornano a dominare la scena di coloro che vorrebbero opporsi al medesimo Sistema.

Definito l’«antipapa della Nouvelle Droite» rispetto al «pontefice» riconosciuto dell’ambiente, Alain de Benoist, Faye non potrebbe aver avuto una personalità più diversa da quella dell’autore di Visto da destra: tanto meticoloso, enciclopedico, «intellettuale» de Benoist, quanto estroso, polemico, «militante» il secondo. Caratteristiche che comportano, in entrambi i casi, tanti pregi quanti difetti. Nel 1986, Faye rompe con l’ambiente del Grece, parallelamente ad altri esponenti illustri del medesimo ambiente, come lo storico Jean-Claude Valla. Per un decennio, Faye sta lontano dalla politica e dalla cultura: partecipa a programmi radio, fa provocazioni mediatiche, avrebbe persino preso parte, secondo una leggenda metropolitana da lui stesso alimentata, a dei film porno in qualità di attore.

Archeofuturismo

Nel 1998, il grande ritorno alla battaglia delle idee con Archeofuturismo, uno dei testi più importanti degli ultimi 30 anni. Lo scorso marzo, in occasione della riedizione del testo, ancora per i tipi di Aga, scrivevo che l’opera «incise fortemente sull’immaginario dei due decenni che seguirono, non perdendo sostanzialmente di attualità. […] La tesi del libro è nota, anche solo per essere stata orecchiata qua e là: bisogna unire Evola e Marinetti, il sacro e la tecnoscienza, la potenza dell’arcaico e le suggestioni avveniristiche. […] Ma era soprattutto il discorso sull’islam che era destinato a sconvolgere i vecchi ammiratori di Faye e a creare dibattito nel suo pubblico naturale. Il vecchio cantore della ‘causa dei popoli’ contro il sistema americanocentrico riemergeva dal nulla chiamando alla guerra contro i musulmani. Eresia, tradimento, zampino della Cia o del Mossad? Sul tema, come al solito, la visione fayana tendeva a portare i concetti all’estremo, con non poche forzature e qualche argomento tagliato con l’accetta».

Proprio nel numero di febbraio 2019 del Primato Nazionale è presente un’intervista a Guillaume Faye dai caratteri semi-testamentari.

Con il passare degli anni, l’accetta si era fatta sempre più affilata, anche se le vette visionarie, originali, mobilitanti di Archeofuturismo non sarebbero più state toccate. Tra le sue opere di questo secondo periodo, merita una menzione il misconosciuto Pourquoi nous combattons?, operetta minore, sorta di breviario militante davvero ricco di spunti. Tra i libri che più avevano fatto parlare e sparlare di sé c’era invece La nouvelle question juive, per cui era ovviamente stato bollato come agente del sionismo internazionale. L’ultimissimo saggio, uscito proprio in questi giorni, testimoniava un ulteriore, controverso passo verso una radicalità sempre più accentuata, a cominciare dal titolo: Guerre civile raciale. Un testo su cui sarebbe stato bello discutere e magari anche litigare. Non ce n’è stato il tempo.

Adriano Scianca

Guillaume Faye, l’uomo delle provocazioni vulcaniche. Il ricordo di Stefano Vaj

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Guillaume Faye, l’uomo delle provocazioni vulcaniche. Il ricordo di Stefano Vaj

Ex: https://www.ilprimatonazionale.it

Roma, 11 mar – “Soltanto il pensiero radicale é fecondo. Perché esso solo crea concetti audaci che spezzano l’ordine ideologico egemonico, e permettono di sfuggire al circolo vizioso di un sistema di civiltà rivelatosi fallimentare. Per riprendere la formula del matematico Rene Thom, autore della Teoria delle catastrofi, soltanto i ‘concetti radicali’ possono far crollare un sistema nel caos — la ‘catastrofe’ ovvero cambiamento di stato violento e repentino — al fine di dar vita a un altro ordine”.

Guillaume Faye ha rappresentato la declinazione intellettuale e polemica, e l’esempio, di un nietzschanesimo pratico che non vede un senso nello stare nel mondo se non per capirlo, e non vede un senso nel capirlo se non per cambiarlo. Il rispetto museale per esperienze passate, l’erudizione compiaciuta, l’accuratezza filologica, la paura del cambiamento, la ricerca della popolarità personale, l’accorta navigazione tra i pregiudizi del proprio pubblico, il moralismo lugubre del militante severo, non hanno mai avuto alcuna cittadinanza in questo entusiasmo panico che è ciò che mi ha sempre attirato di un amico e un interlocutore la cui attività e pensiero hanno fortemente condizionato la mia propria parabola intellettuale.

Un condizionamento largamente dialettico, perché una formazione e sensibilità largamente comuni non ci hanno mai impedito di difendere conclusioni spesso diverse, talora opposte, su vari argomenti, a partire comunque da presupposti e sensibilità condivisi, a cominciare dall’idea che le provocazioni vadano accettate e affrontate seriamente a prescindere dalla loro provenienza, e che in ogni problema, in ogni sviluppo passato o presente, si celi a fianco del pericolo un’opportunità che diversamente non si sarebbe mai aperta. Ma un condizionamento tanto significativo che non sarebbe una grande esagerazione dire che ho imparato davvero il francese per tradurre Il sistema per uccidere i popoli.

 

gf-af.jpgCosì, anche dopo che i nostri contatti personali e telefonici si sono fatti più sporadici, i miei due scritti principali, Indagine sui diritti dell’uomo  e Biopolitica. Il nuovo paradigma oltre ad essere farciti di citazioni fayane, non fanno altro che rappresentare sviluppi paralleli di preoccupazioni comuni, e un terzo testo – che mi ha creato qualche problema anche in connessione alla decisione di chi l’aveva originariamente pubblicato di intitolarlo Per un’autodifesa etnica totale – rappresenta in realtà una rilettura critica delle questioni sollevate in La colonisation de l’Europe, di cui continuo a non condividere le valutazioni inerenti al ruolo dell’Islam, ma che rappresenta ancora oggi uno dei testi fondamentali con cui è necessario confrontarsi nell’approfondire il tema della immigrazione extraeuropea nel nostro continente.

Ugualmente, il mio impegno più recente nel mondo transumanista, e in particolare nella AIT e in quello dell’associazionismo identitario e federalista di Terra Insubre, i cui esponenti oggi rivestono in Italia posizioni istituzionali ed accademiche di grande rilievo, rappresentano a loro volta riflessi di interessi condivisi, che proprio nel momento della morte di Faye giungono in qualche modo a maturazione nella coscienza collettiva almeno di minoranze significative della nostra società, con esiti che cominciano a trascendere la sociologia e il movimento delle idee per entrare nella storia.

In questo quadro, le posizioni e le provocazioni vulcanicamente espresse e promosse da Faye nel corso di più di quarant’anni non sono state estranee al mutamento di prospettiva in essere, anche se lui stesso non prendeva più sul serio tutto quello che diceva di quanto da parte loro facessero Nietzsche o Marinetti, lo scopo essenziale essendo quello di chiamare il lettore o l’ascoltatore a “mettere il pensiero in moto”, e ad esplorare percorsi che lo portino a considerare in una luce diversa quello che crede di sapere o di avere capito sui processi passati e su quelli in corso, anziché perdersi in dettagli o preoccupazioni documentarie, per cui l’autore dimostrava la propria noncuranza anche attraverso il vezzo di introdurre regolarmente in tutte le sue opere…una singola fonte falsa, inventata di sana pianta!

Perciò, poco mi convince chi puntigliosamente non gli perdona di associare, soprattutto nelle opere più direttamente riconnesse all’attualità politica, intuizioni profonde ad ipotesi od approcci implausibili e balzani quando non pericolosamente ambigui, e talora contraddittori rispetto a tesi contemporaneamente sostenute nel medesimo testo – come è il caso per buona parte del libro sulla Nouvelle question juive, che gli ha attirato gli strali di buona parte del mondo ebraico e della totalità di quello dell’antisemitismo primario, e che mi sono visto a sorpresa e con un certo imbarazzo dedicare. E continuo perciò a considerare prezioso e decisivo il suo ruolo anche nella sua produzione più discutibile, e fortunato il caso che ha fatto sì che ci conoscessimo e stringessimo un’amicizia fatta soprattutto di un impegno attorno a valori comuni.

Valori che restano espressi soprattutto nella parte più teorica e meno nota, ma non meno provocatoria, della sua opera, come come Per farla finita con il nichilismo, analisi non sempre attendibile ma geniale del pensiero di Heidegger uscita in italiano grazie a Francesco Boco, o Futurismo e Modernità, originariamente pubblicata da Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, e che meriterebbe certamente una riscoperta.

Stefano Vaj

Réseaux 5G : encore une révolution qui échappe à l’Europe ?...

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Réseaux 5G : encore une révolution qui échappe à l’Europe ?...

par Christopher Th. Coonen

Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com

Nous reproduisons ci-dessous un point de vue de Christopher Coonen cueilli sur Geopragma et consacré aux enjeux pour l'Europe de la technologie 5G. Membre de Geopragma, Christopher Coonen a exercé des fonctions de directions dans des sociétés de niveau international appartenant au secteur du numérique.

Réseaux 5G : encore une révolution qui échappe à l’Europe ?

Le mot « 5G » sera sur toutes les lèvres lors du « Mobile World Congress » du 25 au 28 février prochains, grand-messe mondiale annuelle de la téléphonie mobile à Barcelone. Pourquoi ? Car c’est l’héritier tant attendu du standard actuel, la 4G.

Nous utilisons nos smartphones en France et en Europe depuis 2012 à leur plein potentiel grâce à la 4G. Ce fut alors une petite révolution, car la 4G offrait deux atouts : premièrement, elle permettait la circulation des appels vocaux directement par Internet et non plus par le réseau téléphonique. Deuxièmement, la 4G s’appuyait sur le « multiplexage » (passage de différents types d’information par le même canal) permettant d’augmenter les flux d’informations et des données.

Le réseau 4G donne un aspect superlatif au terme haut débit. A juste titre : ses débits théoriques sont nettement supérieurs à la génération précédente (3G), allant de 42 Megabits / seconde à 300 Megabits / seconde pour la « LTE » (Long Term Evolution). La « LTE Advanced » va au-delà de 1 Gigabit/seconde.

Les inventeurs de WhatsApp ne s’y étaient pas trompés, lançant en 2009 une application Android et iOS permettant un service de messagerie, de MMS (envoi de messages enrichis de photos, vidéos et messages vocaux), et d’appels vocaux, tous gratuits sous réseau WIFI, faisant trembler les opérateurs traditionnels de téléphonie mobile qui voyaient déjà leurs millions d’abonnés les déserter. Pour la petite histoire, ces démissionnaires de Yahoo! avaient postulé chez Facebook et vu leurs candidatures rejetées, avant de se faire racheter à prix d’or quelques années plus tard en 2014 par le même Facebook pour la modique somme de 19 milliards de dollars…Facebook impliqué dans le scandale de l’usurpation de données via Cambridge Analytica, et décrié par certains de ses anciens employés pour une insoutenable légèreté de l’être s’agissant du traitement des données personnelles. Facebook a 1,7 milliard d’abonnés au niveau mondial, WhatsApp 1,5 milliard – de lourds enjeux.

Nous voici au cœur du sujet : avec la 5G, le débit de données sera 10 à 100 fois plus puissant qu’avec la 4G. Au-delà des calculs et des quantités de débit, il existe un calcul de pouvoir, d’influence et de renseignement qui devrait inquiéter au plus haut point tous dirigeants politiques, militaires et d’entreprises. En effet, contrairement à la 4G, les données ne seront plus uniquement transportées d’un point A vers un point B, mais bien interactives dans tous les sens et depuis de multiples sources, rendant la gestion des villes connectées, les utilisations des voitures autonomes ou encore des drones civils et militaires bien plus efficaces avec des réactions en contexte et en temps infiniment réel. C’en sera fini de la « latence technologique ».

Or, face à ces enjeux de souveraineté colossaux, comme d’ailleurs sur bien d’autres sujets, l’Europe se retrouve de nouveau coincée entre les Etats-Unis et la Chine.

Les grandes manœuvres ont débuté pour l’attribution des licences 5G à l’échelle mondiale, ainsi que les appels d’offre organisés pour la construction de ce réseau révolutionnaire qui comprendra des « backbones » de fibre optique terriens et sous-marins, des routeurs et des réseaux du dernier kilomètre. Les entreprises qui les installeront auront à gérer leur part de réseau et les données y transitant, et pourraient assez facilement créer des « portes arrière » pour capter et potentiellement copier celles-ci.

Imaginons le revers de la médaille. Ces applications tellement plus puissantes et versatiles auront aussi leur talon d’Achille : les hackers d’Etat, petits ou grands, ou des pirates informatiques privés, pourront créer de véritables crises et failles en déréglant la circulation de véhicules en ville, paralysant totalement ces mêmes villes, ou encore en faussant le ciblage de la livraison d’un colis ou d’un missile…Il n’existe pas pour le moment de standard de cryptographie et de sécurité associé à la 5G.

Entre temps, sur l’autre rive de l’Atlantique, le Président Trump a pourtant adressé aux agences fédérales en octobre 2018 l’un de ses « Memorandum » : « il est impératif que les Etats-Unis soient les premiers dans la technologie cellulaire de cinquième génération (5G) », soulignant que la course à la 5G avec la Chine était une priorité de sécurité nationale. Mais en oubliant de mentionner l’importance de la cyber-sécurité de ces nouveaux réseaux et abrogeant même des dispositions prises par la « Federal Communications Commission » de l’administration du Président Obama pour que les réseaux de la 5G soient sécurisés en amont par des standards pour réduire les risques d’intrusions et de cyberattaques…

C’est donc un vide sidéral de part et d’autre face à des dangers très tangibles et incroyablement destructeurs. S’affrontent sur cette question de standards gouvernements et acteurs privés, et ces derniers ont bien plus de chance d’innover rapidement et de se mettre en ordre de bataille avant que ne le fassent les bureaucraties d’Etat ou pire la bureaucratie communautaire avec telle ou telle « directive » ; notre regard peut s’arrêter sur l’impuissance et même l’inconscience des nations sur ces sujets depuis vingt ans sur toutes sortes de questions liées à la technologie… En l’absence de standards et de supervision, tout est possible.

Avec la 5G se dessine donc un combat mondial entre les géants qui construisent et gèrent déjà nos réseaux 4G en Europe : Cisco (US), Ericsson, Nokia et Alcatel (EU) –qui tous trois possèdent des parts de marché minoritaires aujourd’hui – et deux géants chinois, ZTE et Huawei. Cette dernière a fait les choux gras des quotidiens récemment, avec la détention de sa DAF (surtout fille du fondateur) au Canada sous mandat d’arrêt des Etats-Unis pour violation potentielle des sanctions mises en place contre l’Iran. Huawei s’est vue qualifiée par la Commission Européenne de société « inquiétante » car les terra datas qu’elle traite pourraient tomber dans la nasse des services de renseignements chinois. Huawei est en pleine ascension en Europe, ayant doublé ses effectifs entre 2013 et 2018 pour atteindre 14.000 employés, avec une part de marché des infrastructures de réseaux européens estimée à 15-20%. Son chiffre d’affaires en 2018 s’est établi à 100 milliards de dollars, plus que Cisco et même IBM. Elle a détrôné Apple pour devenir le deuxième vendeur de smartphones au monde, derrière Samsung.

Contre ce mastodonte, les Etats-Unis mènent une campagne de pressions notamment envers les opérateurs télécom en Europe, ainsi qu’envers nos gouvernements pour sortir Huawei de cette « course aux armements » du 21ème siècle d’un nouveau genre. L’Administration américaine a dépêché des émissaires au Royaume-Uni, en Allemagne, et en Pologne en 2018 pour faire passer un message très clair : les gains de coûts associés au fait d’utiliser un prestataire tel que Huawei sont sans commune mesure avec les risques (et coûts) d’intrusions chinoises dans les infrastructures de l’OTAN…et la possible remise en cause de la construction d’une base de l’armée américaine en Pologne évaluée à USD $ 2 milliards. L’effet de cette campagne s’est même fait ressentir jusqu’en Australie qui a sorti Huawei des appels d’offres liés à la 5G.

Lorsque Huawei et ZTE ont remplacé les puces américaines par des chinoises dans leurs smartphones, le gouvernement des Etats-Unis a sommé ses deux plus importants opérateurs de téléphonie mobile, AT&T et Verizon, d’arrêter la vente de ces smartphones dans leurs boutiques. Ils s’y sont pliés sans broncher.

La crainte des Etats-Unis repose en partie sur une loi de l’Empire du Milieu datant de 2017, la « Loi Nationale d’Intelligence », qui enjoint les sociétés chinoises de soutenir et de coopérer avec les services de renseignement chinois, où qu’elles opèrent.

Mais cette posture du gouvernement américain est imprégnée d’une hypocrisie sans vergogne. Car dans cette affaire, il existe aussi un angle « NSA » (National Security Agency), les « Grandes Oreilles » de notre grand allié qui sont allées jusqu’à épier les téléphones mobiles de chefs d’Etat « amis ». En 2013, son directeur, l’Amiral Michael S. Rogers, avait interdit aux dirigeants des opérateurs télécom américains d’inclure Huawei ou tout autre acteur chinois dans leurs appels d’offre. Ensuite, grâce aux révélations d’Edward Snowden, nous savons qu’une opération de piratage conduite à partir de 2010 par cette même agence, nommée « Shotgiant », lui a permis de s’immiscer dans les systèmes d’information du géant à son QG à Shenzhen. Cette intrusion n’aurait apparemment pas révélé l’existence de codes sources « malins » ou de programmes systématiques de collecte de données.  Le gouvernement américain continue à ce jour de démentir l’existence d’une telle opération.

Et l’Europe, où est-elle dans tout cela ? Elle est loin sur son propre territoire, de reconstruire et même simplement de rénover son propre réseau avec les seuls acteurs nordiques et français. Elle se retrouve coincée entre les acteurs publics et privés chinois et américains. Peut-être pourrait-elle donner l’exemple comme elle l’a fait avec la RGPD, encore faudrait-il qu’il y ait une véritable prise de conscience et une ambition stratégique de la part de nos leaders politiques pour « sécuriser » cette révolution technologique, protéger les données confidentielles de nos entreprises et de nos gouvernements, et même pour s’en emparer. Il y a urgence. La mise en place de la RGPD est en effet d’ores et déjà elle-même menacée par le « Cloud Act II » voté par le Congrès américain en 2018.

Christopher Th. Coonen (Geopragma, 11 février 2019)

Lille : Conférence de Iurie Rosca et Robert Steuckers

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Moldavie, la virgule euro-russe

Samedi 23 mars 2019 à Lille :

Conférence de Iurie Rosca et Robert Steuckers

Ancien vice-premier ministre de Moldavie, journaliste et éditeur, Iurie Rosca est le principal coordinateur des colloques eurasistes de Chisinau, qu’il présente comme un anti-Davos. Persécuté par les oligarques qui dirigent son pays, il avait été menacé en 2018 d’une peine de 7 ans de prison.

C’est donc un authentique dissident anti-mondialiste que l’équipe d’ER Lille accueillera le samedi 23 mars prochain pour une rencontre avec l’historien belge Robert Steuckers sur le rôle géopolitique de la « Moldavie, la virgule euro-russe ».

Réservations : reservation.erlille@outlook.fr

Le Président des ultra-riches. Chronique du mépris de classe dans la politique d’Emmanuel Macron

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Le Président des ultra-riches Chronique du mépris de classe dans la politique d’Emmanuel Macron

par Frédéric Stévenot

Ex: https://echelledejacob.blogspot.com

« Macron, c’est moi en mieux », confiait Nicolas Sarkozy en juin 2017. En pire, rectifient Michel Pinçon et Monique Pinçon-Charlot. Huit ans après Le Président des riches, les sociologues de la grande bourgeoisie poursuivent leur travail d’enquête sur la dérive oligarchique du pouvoir en France.

Au-delà du mépris social évident dont témoignent les petites phrases du président sur « ceux qui ne sont rien », les auteurs documentent la réalité d’un projet politique profondément inégalitaire. Loin d’avoir été un candidat hors système, Emmanuel Macron est un enfant du sérail, adoubé par les puissants, financé par de généreux donateurs, conseillé par des économistes libéraux. Depuis son arrivée au palais, ce président mal élu a multiplié les cadeaux aux plus riches : suppression de l’ISF, flat tax sur les revenus du capital, suppression de l’exit tax, pérennisation du crédit d’impôt pour les entreprises… Autant de mesures en faveur des privilégiés qui coûtent un « pognon de dingue » alors même que les classes populaires paient la facture sur fond de privatisation plus ou moins rampante des services publics et de faux-semblant en matière de politique écologique.
Mettant en série les faits, arpentant les lieux du pouvoir, brossant le portrait de l’entourage, ce livre fait la chronique édifiante d’une guerre de classe menée depuis le cœur de ce qui s’apparente de plus en plus à une monarchie présidentielle ».

Si le titre de l’ouvrage évoque à dessein l’une des précédentes publications des « Pinçon-Charlot »[1] , l’attention du lecteur doit se concentrer sur le sous-titre. Car le projet du livre y est défini très clairement. Le couple de sociologues utilise les connaissances acquises au cours de leurs nombreuses enquêtes au sein des élites pour analyser le parcours de l’actuel président de la République, mais aussi les mesures prises en l’espace d’une année et demie.

Les cent-soixante seize pages de cet ouvrage se lisent sans aucune difficulté, l’humour n’y étant pas pour rien. Les mieux informés ne trouveront pas de révélations inédites sur le personnage du président de la République, ce qui n’est d’ailleurs pas l’objectif des auteurs. En revanche, ils nous offrent une synthèse qui permet de mettre en relation tout ce que l’on sait sur lui, très précisément informée. Encore s’agit-il d’une analyse de type sociologique bâtie autour d’une problématique : en quoi E. Macron est-il représentatif de la classe sociale dont il est issu et dont il porte les intérêts ?

Si l’on se fie à ce que les auteurs disent en préambule, leur « Président des ultra-riches » est une réponse au défi lancé implicitement par E. Macron, dont les propos avaient été rapportés par Le Canard Enchaîné, à l’automne 2017. Il réfutait le fait qu’on puisse le qualifier de « président des riches », comme l’avait été N. Sarkozy : « personne ne peut me relier à cette image ». À défaut de cela, les sociologues devaient pouvoir démontrer facilement le mépris et la condescendance exprimés par le candidat puis par le président, en s’appuyant sur les premières mesures qui venaient appuyer les « macronades ». Ils rappellent toutefois les conditions de son élection : 24 % des votes exprimés, mais seulement 18,2 % des inscrits au premier tour, soit le plus mauvais résultat de toute la Cinquième République. Ce qui inciterait à la modestie laisse au contraire place à l’arrogance, au nom de la légitimité sortie des urnes. Ils rappellent également les conditions de la campagne électorale, et la construction d’un candidat « hors système », alors que son parcours démontre à l’envi qu’il se place parfaitement dans le système. On se dit alors que, finalement, avec une base populaire aussi restreinte, les mesures prises par le nouveau président sont en parfait accord avec ceux qui le soutiennent réellement. C’est justement la conclusion à laquelle parvient les Pinçon-Charlot, « en croisant le contenu de sa politique sociale et économique avec sa trajectoire sociobiographique et le maillage oligarchique de son pouvoir » (p. 155).

Quand la rédaction du livre s’est achevé, le mouvement des « gilets jaunes » avait commencé. La reprise de deux récits publiés dans L’Humanité (26 nov. et 11 déc. 2018) s’imposait pour confirmer le bien-fondé du propos du livre. En effet, l’un des thèmes exprimés par les manifestants concernait sinon la personne du président de la République, au moins le mépris de classe qu’il n’avait cessé d’exprimer.

Frédéric Stévenot, pour Les Clionautes

[1] Michel Pinçon et Monique Pinçon-Charlot, Le Président des riches. Enquête sur l’oligarchie dans la France de Nicolas Sarkozy, La Découverte, coll. « Zones », 2010, rééd. La Découverte, coll. « Poches/Essais », 2011.
 

Lumière de la Tradition

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Lumière de la Tradition

par Alastair Crooke
Ex: https://echelledejacob.blogspot.com
 
Nous présentons rapidement un texte d’Alastair Crooke avant de revenir sur certaines réflexions qu’il suscite nécessairement, certes par son contenu, mais encore plus par sa chronologie qui renvoie à d’autres réflexions sur le même thème. Ce thème, c’est celui de l’interrogation fondamentale sur ce qu’on nomme la Tradition, comme orientation majeure qui pourrait nous suggérer des élans, des conceptions, des perceptions permettant d’aborder l’immense question du véritable “Grand Remplacement” qui devrait nous importer : qu’est-ce qui remplacera cette immense et infâme Système qui entend conduire la civilisation, la terre et tout le reste à un destin catastrophique anthropisation, et qui ne peut que s’effondrer lui-même, qui est d’ores et déjà en cours d’effondrement comme un s’affaisse un immense concentré de pourriture.

Alastair Crooke, qui introduit sa réflexion en faisant explicitement allusion à la Tradition et à l’un des philosophes du XXème siècle qui a illustré ce courant de pensée (Julius Evola), expose un aspect de la situation américaine (cette fois, nous écartons le qualificatif “américaniste”) où se développe une réflexion autour de cette référence qui est par définition “primordiale” et “principielle”. On voit que des esprits et des plumes sont au travail dans ce sens, éclairant une intuition qui éclaire notre temps parcouru des “Signes de la Fin des Temps”.

D’autre part, à partir de cette introduction avec ses données fondamentales, Crooke décrit, à partir d’auteurs essentiels, leurs interférences opérationnelles dans la situation politique actuelle aux USA, dans la “guerre civile en cours”. En même temps, on comprend bien la précision qui est faite selon laquelle cette interprétation essentielle de la situation US, notre “Rome postmoderne”, peut évidemment être étendue à d’autres territoires, d’autres ensembles, d’autres communautés et d’autres nations, parce qu’il s’agit du destin commun de l’effondrement d’une civilisation universelle et absolument perverse et de son remplacement. Tout cela fait une excellente illustration de l’évolution accélérée des dimensions catastrophiques de l’époque eschatologique que nous vivons.

Le titre original de Alastair Crooke sur Strategic-Culture.org du 4 mars 2019 était « US Conservatives Pursue a ‘Ben Option’ of Global Ramification ». Nous lui avons substitué la première phrase du texte.
dde.org
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« Sommes-nous Rome ? »

Sommes-nous ‘Rome’? La question prend aujourd’hui une place considérable dans l'esprit des conservateurs, des libertaires et des catholiques américains lors de leurs diverses conférences. L’Amérique suit-elle le destin de l’empire romain ? Décadence bureaucratique, dette publique massive, armée surchargée, système politique apparemment incapable de relever les défis ; « l’empire romain sur sa fin a souffert de ces maladies, et certains craignent que ce soit également le cas de l'Amérique contemporaine », note The American Conservative, une publication qui poursuit cette “ligne” éditoriale avec constance et avec un lectorat en constante augmentation depuis plusieurs années. (Notez que ce n’est pas la conception du vice-président Pence, qui argumente avec insistance à propos de ce qui est littéralement une Rédemption évangélique imminente, avec la politique dite de Rapture.)

The American Conservative choisit de façon très différente de sonner l’alarme :

« Si les libertaires de droite s'inquiètent de l’effondrement structurel, les conservateurs culturels et religieux ajoutent une dimension morale et spirituelle au débat. La montée de l'hédonisme, le déclin de l'observance religieuse, la séparation continue de la famille et la perte générale de cohérence culturelle, – pour les traditionalistes, ce sont les signes annonciateurs d’un âge des ténèbres. »

Et voici leur narrative en réponse à ces craintes : Vers l’an 500, une génération après la déposition du dernier empereur romain par les Francs, un jeune homme ombrien (originaire de la province de l’Ombrie, en Italie), fut envoyée à Rome par ses riches parents pour terminer ses études. Dégoûté par la décadence de Rome, il s’enfuit dans la forêt pour se faire ermite et choisir un destin de prière et de méditation.

Il s'appelait Benoît. Il fonda ensuite une douzaine de communautés monastiques et écrivit ses fameuses “règles” auxquelles on attribue le mérite d'avoir aidé la culture menacée et ses valeurs à survivre dans ces temps difficiles. Le professeur Russell Hittinger a résumé la leçon de Benoît dans l’âge des ténèbres : « Comment vivre la vie pleinement et complètement ? En écartant la recherche du succès dans le monde, au profit de la recherche du succès humain. »

Comment l’exemple d’un moine médiéval pourrait-il être pertinent pour notre époque laïque ? Parce que, dit le philosophe de la morale Alasdair MacIntyre, cette référence démontre qu'il est possible de construire « de nouvelles formes de communauté au sein desquelles la vie morale pourrait se maintenir » pendant un âge des ténèbres, – y compris, peut-être, un âge comme le nôtre.

MacIntyre propose la « suggestion inquiétante » selon laquelle la teneur du débat moral d'aujourd'hui (sa stridence et son interminabilité) est le résultat direct d'une catastrophe par rapport à notre passé ; une catastrophe si grande que son examen critique moral a été presque effacée de notre culture et de notre vocabulaire, exorcisé dans notre langue. Il fait référence aux “Lumières européennes”. Ce que nous possédons aujourd'hui, soutient-il, ne sont que des fragments d'une tradition plus ancienne. En conséquence, notre discours moral, qui utilise des termes tels que “bien”, “justice” et “devoir”, a été dépouillé du contexte qui le rend intelligible.

« Pour MacIntyre », écrit Rod Dreher, auteur de The Benedict Option, « Nous vivons une catastrophe semblable à celle de la chute de Rome, dissimulée par notre liberté et notre prospérité ». Dreher poursuit: « Dans son livre capital, ‘After Virtue’, publié en 1981, MacIntyre affirmait que le projet des Lumières avait coupé l’homme occidental de ses racines dans la tradition, mais il n’était pas parvenu à produire une morale contraignante fondée sur la seule raison. De plus, les Lumières vantaient l'individu autonome. Par conséquent, nous vivons dans une culture de chaos moral et de fragmentation dans laquelle de nombreuses questions sont tout simplement impossibles à régler. MacIntyre dit que notre monde contemporain est une forêt plongée dans l’obscurité et que, pour retrouver notre juste chemin, il faudrait créer de nouvelles formes de communauté ».

« L’‘option Benedict’ [‘option Benoît’] fait donc référence à [ceux] qui, dans l’Amérique contemporaine cessent d’identifier la continuation de la civilité et de la communauté morale avec le maintien de l’Empire américain et qui, par conséquent, souhaitent construire des formes de communauté locales en tant que lieux de résistance chrétienne contre ce que représente l'empire. En d’autres termes, l’option Benedict, – ‘BenOp’ – est un terme générique pour les chrétiens [et les conservateurs américains], qui acceptent la critique de MacIntyre sur la modernité ».

Le BenOp n’appelle pas le monachisme. Il est envisagé, en quelque sorte, comme un moyen plus pratique pour les Américains qui ont cette perception fondamentale de gérer la modernité d’aujourd’hui. Et… Où avons-nous entendu quelque chose comme ça auparavant ? Eh bien, dans les réflexions du philosophe politique italien Julius Evola, dans ses réflexions d’un traditionalisme radical de l’après-guerre, – L’homme au milieu des ruines, – dans lequel il plaide pour une défense et une résistance contre le désordre de notre époque. Ce sont les écrits d’Evola et d’autres auteurs du même genre [de défenseurs de la Tradition primordiale] qui ont soutenu les intellectuels russes tout au long de leur période sombre du communisme tardif, puis du néolibéralisme sauvage. Des impulsions largement similaires ont contribué à faire avancer le concept d'eurasianisme (bien que ses racines remontent aux années 1920 en Russie).

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Alastair Crooke
 
Ce dernier point reflète la tendance contemporaine, manifestée plus particulièrement par la Russie, mais allant bien au-delà de la Russie, au soutien du pluralisme (l’axe principal du “populisme” contemporain) ; autrement dit, la “diversité” qui privilégie précisément la culture, les récits nationaux, la religiosité et les liens de sang, de terre et de langue. Cette idée est tout à fait conforme à l'argument de MacIntyre, à savoir que seule la tradition culturelle donne un sens à des termes tels que “bien”, “justice”, etc. « En l'absence de traditions, le débat moral est dissocié et devient un théâtre d'illusions dans lequel la simple indignation et la simple protestation occupent le devant de la scène. »

L’idée est qu’il s'agit plutôt d'un groupe de “nations” et de “communautés”, chacune renouant avec ses cultures et ses identités primordiales, – c'est-à-dire que l'Amérique est “américaine” dans sa propre “voie culturelle” américaine (ou russe, dans sa propre voie), – et se refusant d’être absorbée et dissoute en succombant à la coercition d’un ensemble où les diversités se dissolvent, d’un empire cosmopolite.

Il est clair que cela ne va pas du tout dans le sens de la tendance générale américaine d’un ordre globaliste conforme aux règles de cette dynamique. C’est aussi un rejet catégorique de l’idée que le cosmopolitisme du “melting pot” puisse créer toute identité véritable ou tout fondement moral. En effet, « sans la notion de telos (directionnalité et détermination de la vie humaine) servant de moyen de triangulation morale, les jugements de valeur morale perdent leur caractère factuel. Et, bien sûr, si les valeurs sont privées de “faits” pour les substantiver, aucun appel à des faits ne pourra jamais régler un désaccord sur une valeur ».

Dreher est explicite à propos de cette opposition radicale. Il dit de BenOp : « Vous pourriez même dire que c’est une appréciation des possibilités progressives de la tradition et un retour aux racines, – contre une époque sans racines. »

Et pour ne laisser planer aucune ambiguïté, il est noté que les conservateurs américains qui pensent avoir trouvé un allié “facile” dans MacIntyre montrent qu’« ne parviennent pas à comprendre le type de politique nécessaire pour préserver les vertus [toute qualité requise pour se frayer un chemin dans la vie]. »

« MacIntyre précise que son problème avec la plupart des formes de conservatisme contemporain est que les conservateurs reflètent les caractéristiques fondamentales du libéralisme. L'engagement conservateur envers un mode de vie structuré par un marché libre aboutit à un individualisme, et en particulier à une psychologie morale, aussi antithétique à la tradition des vertus que le libéralisme. En outre, conservateurs et libéraux tentent tous deux d’utiliser le pouvoir de l’État moderne pour soutenir leurs positions d’une manière qui est totalement étrangère à la conception de MacIntyre des pratiques sociales nécessaires au bien commun ».

Ce qui est très intéressant pour un étranger, c’est la façon dont l'auteur de BenOp, Dreher, le situe dans le contexte politique américain :

« Beaucoup d’entre nous de droite qui avons été consternés par le Trumpening(sic) et qui ont été durement frappés par la débâcle de Kavanaugh ont conclu [néanmoins] que nous n’avions d’autre choix que de voter républicain en novembre [2018] par réflexe d’auto défense. »

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« La gauche culturelle, – c'est-à-dire le courant dominant américain, – n'a pas l'intention de vivre dans la paix d’un après-guerre. Elle entend exercer une pression continue comme si elle exerçait une occupation dure et implacable du pays, aidée en cela par l’inconscience des chrétiens [i.e. ceux qui reflètent le libéralisme], qui ne comprennent rien à ce qui se passe. Ne vous laissez pas berner: la victoire à la présidentielle de Donald Trump nous a au mieux laissé un peu plus de temps pour nous préparer à l’inévitable » [souligné ajouté].

« [Ceux] qui croient que la politique seule suffira ne seront pas préparés à ce qui va se passer lorsque les républicains perdront la Maison Blanche et / ou le Congrès, ce qui est inévitable. Notre politique est devenue si furieuse qu’il y aura une surenchère vicieuse et méchante, et cette surenchère s’exercera principalement contre les conservateurs sociaux et religieux. Lorsque les démocrates reprendront le pouvoir, les chrétiens conservateurs vont connaître des temps extrêmement durs. ».

BenOp, en d’autres termes, est une autre façon de décrire de ce que le professeur Mike Vlahos a décrit comme “un regroupement” pour un prochain chapitre de la “guerre civile” non résolue de l’Amérique : « L’Amérique aujourd’hui est divisée en deux visions du mode de vie futur de la nation : le “Rouge”, dont la vertu est constituée de la continuité de famille et de la communauté au sein d'une communauté nationale affirmée publiquement. La vertu du “Bleu” envisage des communautés choisies individuellement et régies par des médiations déterminées par les relations entre l’individu et l’État. Certes, ces deux visions antagonistes de l'Amérique s’opposent depuis des décennies et contrôlent jusqu'à présent plus ou moins la violence potentielle de cette opposition mais il existe désormais [aujourd’hui] le sentiment de la nécessité de se rassembler de chaque côté pour la lutte finale ».

« Aujourd’hui, deux chemins qui se jugent également vertueux sont enchaînés dans une opposition irréversible… Rouge et Bleu représentent déjà un schisme religieux irréparable, plus profond en termes doctrinaux même que le schisme catholique-protestant du XVIe siècle. Ici, la guerre porte sur la faction qui réussit à conquérir l’étendard des médias sociaux, pour se proclamer comme le véritable héritier de la vertu américaine. Tous deux se considèrent comme des champions du renouveau national, de la purification des idéaux corrompus et de la réalisation de la promesse de l’Amérique. Tous deux croient fermement qu'ils sont les seuls à posséder la vertu. »

Nous pourrions en conclure que cette formule du BenOp n’est qu’une manifestation exclusivement américaine, d’un intérêt réduit pour le reste du monde. Nous aurions tort. Tout d'abord, MacIntyre identifie l’origine de la tradition morale dans la littérature Traditionaliste Homérique (c'est-à-dire jusqu'à ses racines présocratiques) et dans cette “société héroïque” comme dépositaire des appréciations morales liées aux valeurs éternelles. Il s’agit de Grands Récits avec la singulière vertu de s’incarner dans la vie de la communauté qui les chérit, et faisant de cette communauté “un personnage” dans un récit moral historiquement étendu.

En d'autres termes, BenOp n'est pas du tout rattaché exclusivement au christianisme. MacIntyre suggère plutôt que le récit fournit une meilleure explication de l’unité d’une vie humaine particulière. Le moi a une continuité parce qu'il a tenu le rôle du personnage unique et central dans une histoire particulière : c’est le récit de la vie d’une personne. MacIntyre exprime cela de cette façon : « En assumant ces rôles, nous devenons simultanément des sous-parcelles dans les histoires de la vie des autres, tout comme ils deviennent des sous-parcelles dans la nôtre. De cette manière, les histoires de la vie des membres d’une communauté sont enchevêtrées et imbriquées. L’enchevêtrement de nos histoires est le tissu de la vie en commun… Car l’histoire de ma vie est toujours enracinée dans l’histoire de ces communautés dont je tire mon identité. » Ici, nous sommes directement renvoyés à Homère.

Mais deuxièmement, si nous faisions de l’ethnicité et du genre un choix personnel (et par conséquent jamais définitif) il nous manquerait quelque chose d’essentiel qui lie l’impulsion de BenOp à la résistance plus large contre les globalistes millénaires d’aujourd’hui qui fondent leur “rédemption” dans un processus téléologique consistant à “dissoudre” leur identité culturelle.

Cette critique, émanant d’un importante groupe conservateur américain qui vote Trump mais qui est conscient de ses inconvénients, est susceptible de s’étendre plus largement vers d’autres groupes non américains. Comme le note Rod Dreher, qui a lancé cette campagne dès 2006, des membres de ses groupes différents comprennent déjà sa portée plus large. Dreher observe :

« Au fait, je ne suis pas catholique non plus. Et alors? Nous, les orthodoxes, réclamons [Benoît] comme l'un des nôtres, comme le sont tous les saints du pré-schisme. Mais peu importe. [Les chrétiens] doivent approfondir l'histoire de l'Église pour trouver les ressources nécessaires pour résister aux pressions de la modernité. Saint Benoît est l’un d’entre eux. En raison de la diversité de nos ecclésiologies, un BenOp catholique serait différent d'un protestant et un orthodoxe serait également différent. Cela n’importe pas. En fonction de telos de chaque interprétation du BenOp, nous devrions pouvoir travailler ensemble de manière œcuménique. » 

Alastair Crooke

Remembering Guillaume Faye: November 7, 1949–March 7, 2019

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Remembering Guillaume Faye:
November 7, 1949–March 7, 2019

I was deeply saddened to learn today of the death of French New Right philosopher and polemicist Guillaume Faye after a battle with cancer. Faye had been sick for some time, but he was so focused on writing what will now be his last book that he postponed seeing a doctor until it was complete. When he finally sought medical attention, he was diagnosed with stage four cancer. There is no stage five. Guillaume Faye gave his life for his work, and his work for Europe.

Faye, like New Rightists and White Nationalists in European societies around the globe, was motivated by a sense of danger: the reigning system — liberal, democratic, capitalist, egalitarian, globalist — has set the white race in all of its homelands on the path to extinction through declining birthrates and race replacement through immigration and miscegenation. If we are to survive, we must understand this system, critique it, and frame an alternative that will secure the survival and flourishing of our race. Then we need to figure out how we can actually implement these ideas.

I like Faye’s approach for a number of reasons.

First, Faye thinks big. He wants to take all of Europe back for Europeans. I completely agree with this aim. Furthermore, to secure the existence of Europe against the other races and power blocs, Faye envisions the creation of a vast “Eurosiberian” Imperium, stretching from Iceland to the Pacific, with a federated system of government and an autarkic economy. He believes that only such an imperium will be equal to the challenges posed by the other races in a world of burgeoning populations and shrinking resources. As I argue in my essay “Grandiose Nationalism [2],” I think that such ideas are neither necessary nor practical and they entail dangers of their own. But nobody can fault them for visionary boldness.

Second, Faye thinks racially. His answer to the question “Who are we?” is ultimately racial, not cultural, religious, or subracial: white people are a vast, extended family descending from the original inhabitants of Europe after the last Ice Age. There are, of course, cultural and subracial identities that are also worth preserving within a federated imperium, but not at the expense of the greater racial whole.

Third, Faye is not a Luddite, primitivist, or Hobbit. He values our heritage, but he is attracted less to external social and cultural forms than to the vital drives that created them and express themselves in them. He also wishes to do justice to European man’s Faustian drive toward exploration, adventure, science, and technology. His “archeofuturism” seeks to fuse vital, archaic, biologically-based values with modern science and technology.

Fourth, Faye turns the idea of collapse into something more than a deus ex machina, a kind of Rapture for racists. We know a priori that an unsustainable system cannot be sustained forever and that some sort of collapse is inevitable. But Faye provides a detailed and systematic and crushingly convincing analysis of how the present system may well expire from a convergence of catastrophes. Of course, we need to be ready when the collapse comes. We need a clear metapolitical framework and an organized, racially conscious community to step into the breach, or when the present system collapses, it will simply be replaced with a rebranded form of the same ethnocidal regime.

Fifth, Faye is a strong critic of Christianity as the primary fount of the moral universalism, egalitarianism, and individualism that are at the root of our decline.

The only really fundamental disagreement I have with Faye was on the Jewish question. His views are closer to those of Jared Taylor, whereas mine are closer to those of Kevin MacDonald.

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I only met Faye once, at the 2006 American Renaissance conference, where we had a couple of enjoyable conversations. We corresponded occasionally before and after that meeting. One of my treasured possessions is a copy of Faye’s first book, Le Système à tuer les peuples (Copernic, 1981), which he had given to Savitri Devi. Unfortunately, he was never able to locate his brief correspondence with Savitri. Perhaps it will come to light in his papers, which should be carefully preserved. If European man has a future, it will be due in no small part to Faye’s works. He belongs to history now, and future European generations will look dimly upon us if we fail to conserve and carry on his legacy.

Counter-Currents will publish several memorial tributes to Faye in the coming days. In the meantime, I wish simply to draw your attention to many pieces by and about Faye at Counter-Currents.

By Guillaume Faye:

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