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samedi, 21 novembre 2009

La resurrezione europea

La resurrezione europea

Luca Leonello Rimbotti / http://www.centrostudilaruna.it/

Quando, nei primi anni Trenta, Ernst Jünger vedeva la crisi della borghesia superata dall’avvento di una nuova civiltà, guidata dall’Arbeiter, era decisamente ottimista. Oggi siamo costretti a registrare che il borghesismo è la classe universale che organizza in prima persona il processo di sgretolamento dell’Europa. Quando invece vaticinò «la fine di contesti millenari», volendo dire che era giunta la fine della tradizione europea, vide giusto. Solo che, in luogo del nuovo dominatore metallico dei tempi di rivolgimento, abbiamo più modestamente il protagonismo di un materiale umano di infimissima specie, un “tipo” antropologicamente di lega povera. Le note “caste” oggi al potere rappresentano il contrario di quella razza della nuova “età del ferro” preconizzata dall’intellettuale tedesco, essendo il frutto dell’inopinata affermazione di un’epoca plastificata. Gestita da elementi eticamente e culturalmente inferiori e in base a ideali non eroici, ma da termite.

le-declin.jpgE dire, però, che quando Jünger faceva le sue ipotesi tutto un mondo ribolliva per davvero di volontà di rovesciamento degli idoli borghesi. La stagione jüngeriana, tuttavia, se misurata in tempi spengleriani, durò un attimo. Il 1932 – anno in cui fu scritto L’operaio – è passato da un pezzo, morti e sepolti sono i tentativi storici di rianimare l’Europa con cure radicali attinte da quello stesso bacino eroicizzante, e tutto ormai riposa sulla quiete di un dominio mondiale di energie corrosive ben paludate da ideali positivi. Lo stesso Jünger, col passare dei decenni, abbandonò le sue immagini faustiane e i suoi affondo nichilistici e si mise ad argomentare in termini di “fine della storia”, di difesa ecologica della Terra, acconciando il suo genio letterario a belle riproduzioni fantasy del romanzo metastorico. Disse di non comprendere i catastrofismi che erano stati di Spengler. Però scrisse che si aspettava una prossima epoca “dei Titani”, «molto propizia alla tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura». Titani magari no, ma questo pare proprio il mondo in cui viviamo, in cui il tecnocrate, il politicante e l’uomo-massa di annunci come quelli di Jünger e di Spengler non sanno che farsene.

Ma è a personaggi come i due dioscuri tedeschi che l’Europa deve il fatto di avere ancora un’anima. Sfaldata e minacciata da vicino, ma viva. Non è possibile immaginare una ripresa europea sul ciglio dell’abisso, se non tornando a imbracciare quell’ideologia – poiché proprio di idee armate si trattava – che accomunò Jünger e Spengler come in un sogno europeo di rinascita a tutti i costi. Persino dietro al “tramonto” preconizzato da Spengler, difatti, c’era una promessa di nuovo inizio. E ovunque in Jünger si coglie la volontà di indicare la forma che si imporrà, una volta gestito e fatto placare il caos nichilista.

Dinanzi alla crisi provocata – oggi come allora – da uno scomposto e distruttivo procedere della modernità, l’anelito dell’uomo in ordine con le leggi della vita non può che essere verso «l’esigenza di una vita nuovamente ordinata e strutturata all’interno di una dimensione di compattezza e stabilità». Ha scritto queste parole Domenico Conte, autore di Albe e tramonti d’Europa. Ernst Jünger e Oswald Spengler, appena pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma.

È una frase chiave. Solo apparentemente innocua. Essa infatti mostra come il pensiero del realismo eroico, della mobilitazione totale e del cesarismo militante non fosse espressione anch’esso dell’epoca del nichilismo e dell’aggressione delle masse, ma, al contrario, intendesse utilizzare gli strumenti della modernità per abbatterla e costruire in sua vece un nuovo ordine gerarchico. «Questo mondo della mobilitazione e del movimento non è che un interludio», scrive Conte, e con questo ci fa capire che la fase della lotta è necessaria non in sé, ma per raggiungere ciò che egli definisce la «utopia della stabilità». Insomma: la Rivoluzione Conservatrice – e con loro i regimi nazionalpopolari che bene o male ne misero in pratica i presupposti – è una macchina moderna, d’accordo, ma antimodernista. Oltrepassati i confini della storia e della politica, Jünger e Spengler, ognuno per suo conto, ma con idee sovente intrecciantesi, guardarono al di là, immaginando forme ulteriori, stili post-moderni, accadimenti di primordiale potenza rifondatrice. Osservato fino in fondo l’incubo della tecnica e della società moderne, questi due artigiani dell’idea europea di dominio non hanno fatto filosofia reazionaria, non hanno espresso conservatorismi inetti, ma hanno dato strumenti di rivolta: «con l’impazienza e il radicalismo – soggiunge Conte – di chi non credeva più nella storia o vi credeva solo nel senso del vedervi l’imperare e l’agitarsi di più alte potenze, votarsi alle quali parve cosa necessaria e bella».

In effetti, se Jünger fu il collaboratore dei fogli di punta del nazionalismo politico post-bellico e vicino agli ambienti dell’oltranzismo nazionalrivoluzionario, Spengler non gli fu da meno: in rapporti con personaggi come Franz Seldte, futuro ministro nazionalsocialista, era ammiratore del mondo dei Männerbünde, le milizie armate al seguito di un capo tipiche dell’epoca, dagli squadristi italiani alle SA e allo Stahlhelm, nelle quali vedeva l’affermarsi di un prosssimo cesarismo carismatico. Contestualmente, Jünger osservò ne L’operaio che «la massa comincia a secernere dal proprio corpo organi di autodifesa». Questo considerare le cose dal punto di vista dell’organico, del vitale, dell’ancestrale biologico è forse la dimensione che meglio accomuna Jünger e Spengler e che meglio ne spiega il terribile, seducente, incantatorio talento da affrescatori. Entrambi analisti dell’uomo e della società, entrambi evocatori di scenari cosmologici, di rivolgimenti apocalittici, di ipotesi di riaffermazione di “tipi” elementari e originari, di razze mutanti, di arcaismi giacenti nell’inconscio e riattivati dall’uso della tecnica e dalla volontà impersonale, il tutto da indirizzare – con forte senso politico – contro l’affastellamento informe del Moderno. Profetizzarono uomini nuovi, secondo «cambiamenti fisiognomici intercorrenti nel passaggio dal mondo borghese dell’individuo al mondo tipico dell’Operaio». L’uno e l’altro giudicarono – sbagliando profezia, ma non importa – che presto al borghese, «sfornito di qualsiasi rapporto con forze elementari» sarebbero succeduti esemplari. Quasi campionature di un’inedita stirpe lavorata dai fatti, dal carattere, da un destino epocale.

qsj_junger_i.jpgSono inquadrature formidabili, bisogna ammetterlo. Quanto di meglio potrebbe chiedersi, per ridare oggi anima e vita a una qualche minoranza in grado di riarmare lo spirito e di intraprendere la lotta contro il mondo moderno, se solo da qualche parte ne esistesse una. Uno dei meriti dello scritto di Conte è quello di presentarci la riflessione tedesca del Novecento rappresentata da Jünger e da Spengler come in fondo un unico strumentario di lotta filosofica, metafisica e politica, bene in grado di raddrizzare il piano inclinato su cui corre la modernità. E si tratta di strumenti da estrarre dai più reconditi giacimenti della natura occulta, veri archetipi in riposo che attendono soltanto di essere risvegliati: l’energia formatrice, ad esempio, la Gestaltungskraft, che a giusto titolo Conte indica come termine essenziale dell’Arbeiter, e che è la stessa forza che, ne L’uomo e la tecnica, Spengler vede agire per catastrofi immediate, risolutive: le mutazioni che aprono vie impensate ai progetti della storia.

Conte batte sul tasto delle naturali differenziazioni tra i due pensatori, ma ribatte pure su quello delle organiche similitudini. E ci rende noto un esemplare dettaglio, di gran valore filologico e immaginale. Una lettera scrittagli da Ernst Jünger nel 1995, a un mese dal compimento del suo centesimo anno, in cui conveniva con lo studioso napoletano che Spengler aveva svolto in qualche modo su di lui il ruolo di maestro: «Lei ha ragione a supporre che Oswald Spengler abbia esercitato un’influenza significativa sulla mia evoluzione spirituale…». Assodato che Spengler era senza mezzi termini considerato da Jünger «decisivo per la sua concezione della storia», Conte indica come elemento tra i più visibili di questa fratellanza ideale il «collegamento fra Operaio e prussianità», quello fra Operaio e Germania, e soprattutto la visuale copernicana della storia, nel senso di una storia e di una politica mondiali, ma «in un’ottica in realtà germanocentrica». Un sano relativismo di prospettiva che non sviliva, ma al contrario rafforzava sia in Jünger sia in Spengler l’ostilità verso l’individualismo cosmopolita borghese e quella «contro i partiti politici, i parlamenti, la stampa liberale e l’economia di libero mercato».

Un altro dei numerosi spunti offerti da Conte è il commento a un libro dell’americano John Farrenkopf, recentemente dedicato a Spengler come “profeta del declino”. Un caso singolare di “spenglerismo” negli USA? Un momento… vediamoci chiaro… Farrenkopf condivide le prognosi infauste di Spengler circa il futuro dell’Occidente, formula un suo pessimismo circa la decadenza del mondo occidentale (pacifismo, crisi demografica e culturale, ottusa pratica di esportare tecnologia ai nemici dell’Occidente, etc.), ma alla fine non manca di sostituire l’America alla Germania come quella struttura imperiale auspicata da Spengler per contenere gli sviluppi verso il basso della civilizzazione. E, da buon americano, non manca neppure di indicare in qualche scritto giovanile del filosofo del tramonto accenni di apprezzamento per la democrazia. Non sono tanto questi aspetti che importano. Conte demolisce alla svelta il tentativo di americanizzare Spengler e di confondere l’impero con l’imperialismo di bottega. Da parte nostra, noi segnaliamo il valore irrinunciabile della duplice lezione di Jünger e di Spengler: la presenza pesante di due autori dal messaggio forte, attualissimo, il cui pensiero di contrasto radicale va strappato di mano ai depotenziatori – certi salotti della new age jüngeriana, amanti del romanziere criptostorico, ma muti sull’ideologo nazionalrivoluzionario… adesso lo Spengler democratico e americanomorfo… – per rimetterlo al centro di un possibile recupero del tradizionalismo rivoluzionario europeo…

Domenico Conte, ben noto al pubblico italiano per essere uno dei pochi esegeti non prevenuti della Rivoluzione Conservatrice – e autore tra molti altri di quell’eccellente libro-monstre che è Catene di civiltà. Studi su Spengler, pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane nel 1994 – parla non a caso di albe e tramonti d’Europa. Il pensiero tragico e le prospettive catastrofiste di Jünger e di Spengler nascondono allo stesso modo tutto un tracciato di proiezioni futuribili, assegnando alla nostra civiltà spazi di insorgenza e di contro-storia ancora percorribili. Spengler, fortemente interessato ai momenti aurorali e dinamici della Kultur, era in realtà un agitatore di destini. E Jünger, nel suo Arbeiter, scrisse la frase rivelatrice: «ogni tramonto è preparazione». Entrambi, e insieme ad esempio a un Heidegger, e in maniera tra l’altro non dissimile dal nostro vecchio Oriani, videro il futuro dell’Europa nel suo saper riconoscere una nuova alba, fatta di istinto, volontà e mobilitazione.

* * *

Tratto da Linea del 11 ottobre 2009.

dimanche, 31 mai 2009

Passaggi al Bosco - E. Jünger nell'era dei Titani

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L. Bonesio, C. Resta,

PASSAGGI AL BOSCO.
Ernst Jünger nell’era dei Titani

ed. Mimesis, 2000

 

Ernst Jünger- Il tesserino militare da volontario della Ia Guerra Mondiale

 

Ex: http://www.maschiselvatici.it/

Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne sull’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia.

Ernst Jünger

«Jünger è stato se stesso e costituisce categoria umana a sé, come per tutti gli uomini sarebbe doveroso»[i]. Queste parole pronunciate da Quirino Principe alla scomparsa dell’autore tedesco, avvenuta il 17 febbraio del 1998 alla soglia dei 103 anni, mentre infuriavano i goffi tentativi di inserire il suo pensiero, le sue opere e scelte di vita in questo o quell’orientamento filosofico o politico, rappresentano, forse, l’unica descrizione possibile di una figura gigantesca come quella di Jünger. Scrittore, filosofo, poeta, guerriero, ma anche entomologo: il suo orgoglio più grande era quello di aver dato il proprio nome ad una famiglia di insetti. Uomo di pensiero aristocratico e d’azione, Ernst Jünger è oggi - dopo decenni di colpevole silenzio e di censure dovute alla mediocrità disinformata di alcuni e alla malafede di altri - una delle figure intellettuali europee più discusse e controverse. Mentre le sue opere vengono finalmente pubblicate da grandi case editrici, nel panorama degli studi critici italiani spicca, per completezza e profondità di analisi, il bellissimo libro di Luisa Bonesio e Caterina Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, ed. Mimesis. Si tratta di un volume che ripercorre rigorosamente l’intera opera del pensatore tedesco, dalla sua formazione sui campi di battaglia della prima Guerra Mondiale alle speculazioni dell’ultimo Jünger ritirato a Wilflingen, il villaggio della Svevia superiore, ignorato persino da molte carte geografiche e circondato da un meraviglioso paesaggio di boschi e prati, in cui lo scrittore tedesco trascorse l’ultima parte della sua vita avventurosa. Una vita lunga, piena, attiva e contemplativa assieme, che ha registrato la presenza di Jünger in eventi storici decisivi. Parafrasando il titolo di un saggio di Moreno Marchi dedicato ad alcuni scrittori francesi, anche di Jünger si può senz’altro affermare che ha vissuto con il sangue e con l’inchiostro. Lasciandoci in eredità se stesso, la sua esemplare statura, le sue qualità di uomo libero, prima e oltre la sua ricchissima produzione letteraria. Costringendoci inoltre - magnifico dono - a fare i conti in qualche modo con la sua persona, con il suo pensiero. Non è possibile prescindere da Ernst Jünger, infatti, se si desidera affrontare responsabilmente questioni cruciali del nostro tempo, come la tecnica, il nichilismo, la libertà, l’identità, l’organizzazione politica degli spazi planetari.
Egli ha attraversato tutto il Novecento divenendone uno dei suoi più lucidi testimoni. E’ riuscito a cogliere l’essenza profonda dei processi che segnano la modernità; e ciò non in virtù di uno sguardo intellettualistico (o cartesiano), bensì grazie alla sua straordinaria e misteriosa sensibilità stereoscopica che gli ha consentito di cogliere «le cose nella loro corporeità più segreta e più immobile»
[ii]. Non a caso, il nazionalbolscevico Ernst Niekisch coniò per Jünger la bellissima definizione di sismografo per sottolinearne le capacità di comprensione finanche dei più piccoli e “sotterranei” segnali del tempo. Capacità non disgiunte da un’indiscutibile e profetica veggenza, quasi come se Jünger disponesse di particolari ed invisibili antenne, non troppo dissimili da quelle dei suoi amatissimi insetti.
Benché l’eccezionale ricchezza dell’opera e della vita di Ernst Jünger renda praticamente infiniti gli argomenti da esaminare e gli spunti di riflessione da approfondire, questa raccolta di saggi di Luisa Bonesio e Caterina Resta rappresenta, sicuramente, la più riuscita esplorazione della totalità del pensiero jüngeriano, nei suoi nuclei teorici fondamentali, che sia mai stata pubblicata in Italia. Un libro indispensabile, dunque, per chi già conosce ed apprezza lo scrittore tedesco; ed un libro che, pur essendo molto più di una semplice “introduzione” all’opera di Jünger, per l’obiettività inconsueta ed immune dal vergognoso “brigantaggio politico” che molto spesso ha contraddistinto l’approccio al pensiero jüngeriano, è utilissimo anche per chi poco conosce di questo autore di riflessioni attualissime. Egli appartiene a quella schiera di uomini che si plasmarono nelle trincee della prima Guerra Mondiale e la cui vita fu segnata in modo indelebile da quei tragici avvenimenti[iii]. Ferito quattordici volte, si vide attribuire la croce Pour le mérite, il più importante riconoscimento dell’esercito tedesco. E fu proprio la guerra, l’esperienza fondamentale del giovane Jünger e il fattore stimolante delle sue prime speculazioni. Jünger riconobbe subito il travestimento moderno del fenomeno bellico nella guerra di materiali (Materialschlacht). «Il genio della guerra si è congiunto con il genio del progresso»[iv]: così la battaglia tradizionale evolve in una specie di combattimento in cui uomini e macchine sembrano affratellati. E’ la fine dei valori eroici tradizionali. L’assalto dei giovani volontari tedeschi, molti dei quali Wandervögel, presso Langemarck il 10 novembre 1914, è spesso ricordato da Jünger come un evento emblematico: l’entusiasmo e l’idealismo romantico delle migliori leve di una generazione si scontrarono con il fuoco delle artiglierie nemiche; e non ci fu nulla da fare. Eppure il capitano Jünger non reagisce alla guerra moderna cantando le virtù di quella antica, bensì scorge la grandezza dell’uomo, del guerriero che diventa tecnico, anche nelle tempeste d’acciaio. E, soprattutto, si rende presto conto della grande svolta che l’Occidente sta vivendo.
Lo sviluppo tecnologico, che ha modificato i sistemi di combattimento, sconvolge la vita anche in tempo di pace. La mobilitazione totale (nel suo duplice aspetto, tecnico e spirituale) si impone nel mondo del lavoro che assume dunque un carattere totale. Con incredibile chiarezza Jünger intravede, tra le due guerre mondiali, l’avvento della figura dell’Operaio o Lavoratore (Der Arbeiter), il «milite del lavoro»
[v] che mobilita il mondo con la tecnica. Non si tratta di una grandezza economica, come vorrebbero liberalismo e marxismo, bensì di un tipo d’uomo che si riconnette ai requisiti dell’epoca attuale. Una figura metafisica che sconvolge l’in-forme mondo del dominio (apparente) borghese. Quest’ultimo, assieme alle categorie concettuali del razionalismo cartesiano, è il bersaglio polemico di tutta l’opera dell’autore tedesco. Posto che anche il “borghese”, per Jünger, non è il rappresentante di una classe sociale ma il tipo d’uomo che nega ogni valore metafisico ed il modello di vita che, fondandosi sul bisogno infantile di sicurezza, rimuove le forze elementari della natura. Secondo Jünger, la figura dell’Operaio è destinata a sostituire l’individuo borghese, sorto dall’Illuminismo e slegato da ogni appartenenza, il cui tempo è tramontato. Il primo conflitto mondiale segna proprio la fine del “tempo dell’io individuale” (Ichzeit) e l’inizio “del tempo del noi collettivo” (Wirzeit). Lo spazio del lavoro non conosce più confini e l’azione dell’homo technicus è la sua spinta unificatrice. Come osserva Resta, ben prima dell’invenzione di internet lo scrittore europeo comprese perfettamente il modo reticolare con cui la tecnologia impone il suo dominio.
Tuttavia, se negli anni Trenta Jünger ha ancora fiducia nelle capacità del Lavoratore di dominare le macchine nell’attesa che la tecnica si spiritualizzi, giungendo al suo “punto di perfezione” e facendo dunque emergere il fondo immobile ed elementare del vorticoso processo di unificazione tecnica del pianeta, il catastrofico secondo conflitto mondiale, agli occhi dello scrittore tedesco, rende evidente l’inadeguatezza dell’Operaio. Il quale lungi dal controllare i suoi strumenti sembra essere diretto da loro, in un processo che tende alla costruzione di una terra senza confini e senza dèi, in cui trionfa un orribile e volgare “paesaggio da officina”. Con il passare del tempo, insomma, Jünger sembra diventare più pessimista circa le capacità dell’Operaio di costruire un ordine armonico dopo e oltre la distruzione. Perciò scorge da un lato la necessità di una unificazione politica del mondo nella quale l’organizzazione (il meccanismo tecnologico) non schiacci l’organismo (la sostanza vitale, le diverse culture ed identità). Il fondamento di questo Stato mondiale (Weltstaat) - che riscopre il modello politico imperiale, l’unico capace di garantire unità nella varietà
[vi], nell’era della crisi degli Stati nazionali - deve essere una Nuova Teologia in grado di portare l’uomo a riscoprire la relazione col divino, relazione indispensabile per governare l’accelerazione del nostro tempo ed evitare gli esiti più devastanti e nichilistici del titanismo tecnologico. Dall’altro lato, però, Jünger ritiene che questa rinnovata alleanza con gli dèi debba realizzarsi prima di tutto nel cuore del singolo. Considerato che il Lavoratore, figura titanica, non si rivela all’altezza di questo compito, lo scrittore tedesco individua allora nuove figure (il Ribelle, l’Anarca) capaci di operare quei passaggi oltre il muro del tempo che restituiscono libertà ed autenticità al singolo che sappia avvicinarsi al fondo immobile, originario e atemporale della realtà.
Di fronte al nichilismo della modernità, che Jünger giudica come un processo di riduzione (Reduktion) e svanimento (Schwund) di ogni sostanza, che agisce attraverso il tecnicismo e sistemi d’ordine di grandi dimensioni, l’autore tedesco guadagna ora una prospettiva nuova che gli consente di mutare l’atteggiamento nei confronti della tecnica. Quest’ultima, lungi dall’indebolire il “borghese”, appare ora agli occhi di Jünger come lo strumento di diffusione all’intero globo del suo potere dissacrato e dissacrante. La forma del Lavoro, di cui Jünger aveva subito il fascino, manifesta in maniera sempre più evidente il suo volto terrificante, distruttivo ed omologante. E’ la crescita del deserto di cui parla Nietzsche: l’omogeneizzazione dei paesaggi naturali e culturali procede di pari passo con l’inaridimento spirituale. Nel mezzo di questo gorgo nichilistico, secondo Jünger, sarebbe illusorio cercare la salvezza difendendo romanticamente istituzioni destinate ad essere travolte. La “cultura museale” e il percorso verso il nulla sono anzi, per lo scrittore tedesco, le due facce della stessa falsa medaglia. Nel panorama uniforme ed indifferenziato della modernità desertificante - di cui un altro simbolo è il Titanic, la nave lussuosa e tecnologica che corre velocissima verso l’impatto con l’iceberg in un’irreale atmosfera di festa – le piccole élites o i singoli non disposti a barattare la propria libertà ed identità per un po’ di comfort, possono resistere all’inglobamento nel Leviatano (il nichilismo, lo Stato moderno ridotto ad oggetto nichilistico), solo recuperando la dimensione della selvatichezza, della Wildnis. Natura incontaminata (Wildnis) e bosco (Wald) sono allora simboli di quella terra selvaggia non corrotta dall’organizzazione - intesa come l’ordine tecnico e scientifico che restringe, fino ad annientarla, la libertà dell’uomo; l’ordine del nulla, insomma - che cresce ovunque, nel petto del singolo e nel deserto, come un’oasi. La stupenda immagine del ricorso alla Selva rappresenta proprio il distacco dagli impersonali automatismi dei ritmi meccanici. E’ l’incontro con se stessi nella riscoperta delle forze elementari della natura, sacrificate dalla modernità occidentale sull’altare di una ragione eletta a divinità. Ma non si tratta di una passeggiata, né di una facile ritirata. Il bosco è infatti la grande dimora della morte. E il Ribelle dei boschi (Waldgänger), aprendosi alle forze elementari e trascendenti della natura, sa che il rischio, il pericolo, l’aspetto avventuroso dell’esistenza, il dolore, la violenza, la stessa morte (tutto ciò contro cui il “borghese” si illude di potersi “assicurare”), sono manifestazioni della natura, costituiscono il fondo primordiale (Urgrund) della vita. I tentativi volti alla negazione di queste forze non sono solo vani ma anche pericolosi: come insegna la psicologia del profondo, i contenuti rimossi della psiche rischiano di possedere completamente l’individuo, o la collettività, che quei contenuti ha negato.
I passaggi al bosco, dunque, sono praticabili, come spiega perfettamente Bonesio, laddove l’uomo riesce ancora a sentire la sacralità della natura, nella sua totalità, pensando ad essa al di fuori degli schemi riduttivi della scienza moderna che la banalizza ad oggetto di analisi e manipolazione. Ma l’approccio alla natura non può nemmeno essere di tipo romantico, giacché questo definisce la bellezza della natura solo in funzione dei canoni estetici dell’uomo, rimanendo così in una prospettiva antropocentrica. Bisogna imparare di nuovo a guardare la natura rispettandone i simboli meravigliosi. Ed anche in questo il Maestro Jünger ha molto da insegnarci.

Paolo Marcon


[i] Q. Principe, Ultimo Titano del ‘900 o primo del Duemila, in “Lo Stato”, 1998, n. 9, p. 63.

[ii] E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in id., Foglie e pietre, trad. it., Milano, 1997, p. 109.

[iii] «La guerra è il padre di tutte le cose, anche il nostro […] Essa ci ha martellato e temprato perché diventassimo ciò che siamo. Per tutto il tempo che la ruota della vita girerà in noi, la guerra sarà il suo asse» (E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, cit. in C. Risé, Misteri, guerra e trasformazione. Le battaglie del Sé, Milano, 1997, p. 26).

[iv] E. Jünger, La mobilitazione totale, in id., Foglie e pietre, op. cit., p. 114.

[v] L’espressione è di Delio Cantimori. Cfr. D. Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in id., Tre saggi su Jünger, Moeller van den Brück, Schmitt, Roma, 1985, pp. 17-43.

[vi] «Due principi supremi dovranno essere sanciti nella costituzione, qualunque struttura essa abbia: i principi dell’unità e della varietà. Il nuovo impero deve essere unico nelle sue articolazioni, ma nel rispetto delle loro specificità» (E. Jünger, La pace, trad. it., Parma, 1993, p. 52).


 

Ecco una bibliografia con le principali opere di Jünger in ordine cronologico!

  *1920.Nelle tempeste d'acciaio, Guanda.Diario tenuto da Ernst durante la prima guerra mondiale.Opera fondamentale che lo rese famoso come scrittore di guerra.Vi descrive, in modo realistico, la "guerra di materiali" (Materialschlacht), una nuova specie di combattimento dovuto all’impiego della tecnica nelle operazioni militari, in cui l’uomo diventa meno importante della forza delle macchine.

*1924.Boschetto 125, Guanda.Ancora sulla prima guerra mondiale.Racconta la vita di trincea.

*1929.Il cuore avventuroso, Guanda.Diario visionario che propone una serie di immagini talvolta sconvolgenti, che attaccano la società del dopoguerra.

*1932.L'Operaio, Guanda. E' l'opera più "pallosa" di Jünger, ma importante anche per rendersi conto dell'evoluzione del suo pensiero.Qui prima espone la sua fondamentale Teoria della Forma, o Figura (Gestalt), e poi individua la figura dell'Operaio (Der Arbeiter), come figura del nostro tempo.E' colui che mobilita il mondo con la Tecnica. Sostanziale giudizio positivo della tecnica come strumento di accelerazione e superamento del nichilismo.

*1934.Foglie e pietre, Adelphi.Raccolta di saggi tra cui l’importantissimo "La Mobilitazione Totale".Questa è un processo legato all’avvento della figura dell’Operaio e all’evoluzione delle tecniche di guerra (nelle battaglie di materiali tutti sono mobilitati).Ma è uno stato di cose che si impone, in tempo di pace, nel mondo del lavoro.

*1936.Ludi africani, Guanda.Racconto della sua esperienza di legionario.Con questo libro Jünger sembra denunciare il carattere illusorio della fuga romantica dalla società borghese.

*1939.Sulle scogliere di marmo, Guanda. Bellissimo!!! Romanzo utopico che presenta una critica neanche troppo velata al Nazismo.Da leggere assolutamente. Curiosità: qui il Forestaro è una figura negativa...bisognerebbe studiarla questa cosa...

*1941-1942.La pace, Guanda.Guarda oltre la guerra mondiale e pensa agli assetti futuri.Si dice che questo libro sia stato letto da Rommel mentre preparava il colpo di stato fallito contro Hitler.

*1941-1945.Irradiazioni, Guanda. Diario della seconda guerra mondiale.

*1950.Oltre la linea, Adelphi.Saggio sul nichilismo in cui introduce il tema della Wildnis.

*1951.Trattato del Ribelle, Adelphi.In questo testo Jünger descrive la figura del Waldgänger (colui che passa il bosco). Vedi recensione negli "Abbiamo letto".

*1953.Il nodo di Gordio, Il Mulino.Riflessioni su occidente e oriente, scritto con Schmitt.

*1954.Il libro dell'orologio a polvere, Adelphi. Riflessioni sul tempo: era un grande appassionato di clessidre.

*1959.Al muro del tempo, Adelphi. Ancora sul tempo in una prospettiva critica rispetto alle concezioni lineari.

*1960.Lo Stato mondiale, Guanda. Importante per capire la dimensione imperiale della globalizzazione.

*1977.Eumeswil, Guanda. Romanzo utopico in cui individua la figura dell' Anarca, un tipo d'uomo che "può trasformarsi in Ribelle, ma può anche vivere tranquillamente al riparo di un'oscura funzione".

 

jeudi, 06 novembre 2008

L'aristocrate et le baron: parallèles entre Jünger et Evola

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L'aristocrate et le baron: parallèles entre Jünger et Evola

 

Quel effet aurait eu Le recours aux forêts d'Ernst Jünger s'il avait été traduit vingt ans plus tôt, soit en 1970 plutôt qu'en 1990, avec son titre actuel, Traité du Rebelle? On l'aurait sans doute vendu à des dizaines de milliers d'exemplaires et serait devenu l'un des livres de chevet des contestataires, et puis sans doute aussi des terroristes italiens des “années de plomb”, les rouges comme les noirs. Et aujourd'hui, nous verrions sans doute un jeune essayiste ou un fonctionnaire besogneux des services secrets se pencher et théoriser le rapport direct, encore que non mécanique, entre les thèses exposées par Jünger dans ces quelque cent trente pages d'une lecture peu facile, et la lutte armée des Brigades Rouges ou des NAR...

 

Pas de doute là-dessus. En fait, le petit volume de Jünger, publié en 1951, s'adresse explicitement à ses compatriotes, mais aussi à tous ceux qui se trouve dans une situation identique, celle de la soumission physique et spirituelle à des puissances étrangères. Dans cet ouvrage, Jünger fait aussi directement et indirectement référence à la situation mondiale de 1951: division de la planète en deux blocs antagonistes, guerre de Corée, course aux armements, danger d'un conflit nucléaire. Mais en même temps, il nous donne des principes qui valent encore aujourd'hui et qui auraient été intéressants pour les années 70. Enfin, ce livre nous donne également une leçon intéressante sur les plans symboliques et métaphysiques, sans oublier le plan concret (que faire?). En conséquence, le lecteur non informé du contexte court le danger de ne pas comprendre les arguments du livre, vu son ambiguité voulue (je crois que Jünger a voulu effectivement cette ambiguité, à cause du contexte idéologique et international dans lequel il écrivait alors). L'éditeur Adelphi s'est bien gardé d'éclairer la lanterne du lecteur. Il a réduit ses commentaires et ses explications aux quelques lignes de la quatrième de couverture. Les multiples références de Jünger aux faits, événements et personnalités des années 50 restent donc sans explications dans l'édition italienne récente de cet ouvrage important. Dans l'éditorial, on ne trouve pas d'explication sur ce qu'est la figure de l'Arbeiter, à laquelle Jünger se réfère et trace un parallèle. Adelphi a traduit Arbeiter par Lavoratore et non pas Operaio  qui est le terme italien que les jüngeriens ont choisi pour désigner plus spécifiquement l'Arbeiter dans son œuvre. Même chose pour le Waldgänger que l'on traduit simplement par Ribelle.

 

Sua habent fata libelli.  Le destin de ce petit livre fait qu'il n'a été traduit en italien qu'en 1990, ce qui n'a suscité aucun écho ou presque. Il a été pratiquement ignoré. Pourtant, si l'on scrute bien entre les lignes, si l'on extrait correctement le noyau de la pensée jüngerienne au-delà de toutes digressions philosophiques, éthiques, historiques et finalement toutes les chroniques qui émaillent ce livre, on repèrera aisément une “consonance” entre Der Waldgang (1951) et certains ouvrages d'Evola, comme Orientations (1950), Les hommes au milieu des ruines (1953) et Chevaucher le tigre  (1961). On constatera que c'est le passage des années 40 aux années 50 qui conduisent les deux penseurs à proposer des solutions assez similaires. Certes, on sait que les deux hommes avaient beaucoup d'affinités mais que leurs chemins ne se sont séparés sur le plan des idées seulement quand Jünger s'est rapproché de la religion et du christianisme et s'est éloigné de certaines de ses positions des années 30. Tous deux ont développé un regard sur le futur en traînant sur le dos un passé identique (la défaite) qui a rapproché leurs destins personnels et celui de leurs patries respectives, l'Allemagne et l'Italie.

 

Pour commencer, nous avons soit l'Anarque, soit celui qui entre dans la forêt, deux figures de Jünger qui possèdent plusieurs traits communs avec l'apolitieia évolienne. Cette apolitieia  ne signifie pas se retirer de la politique, mais y participer sans en être contaminé et sans devenir sot. Il faut donc rester intimement libre comme celui qui se retire dans une “cellule monacale” ou dans la “forêt” intérieure et symbolique. Il faut rester intimement libre, ne rien concéder au nouveau Léviathan étatique, tout en assumant une position active, en résistant intellectuellement, culturellement. “La forêt est partout” disait Jünger, “même dans les faubourgs d'une métropole”. Il est ainsi sur la même longueur d'onde qu'Evola, qui écrivait, dans Chevaucher le Tigre que l'on pouvait se retirer du monde même dans les endroits les plus bruyants et les plus aliénants de la vie moderne.

 

Face à une époque d'automatismes, dans un monde de machines désincarnées, Evola comme Jünger proposaient au début des années 50 de créer une élite: “des groupes d'élus qui préfèrent le danger à l'esclavage”, précisait l'écrivain allemand. Ces groupes élitaires, d'une part, auront pour tâche de critiquer systématiquement notre époque et, d'autre part, de jeter les bases d'une nouvelle “restauration conservatrice” qui procurera force et inspiration aux “pères” et aux “mères” (au sens goethéen du terme). En outre, le Waldgänger,  le Rebelle, “ne se laissera pas imposer la loi d'aucune forme de pouvoir supérieur”, “il ne trouvera le droit qu'en lui-même”, tout comme la “souveraineté” a abjuré la peur en elle, prenant même des contacts “avec des pouvoirs supérieurs aux forces temporelles”. Tout cela amène le Rebelle de Jünger très près de l'“individu absolu” d'Evola. Etre un “individu absolu”, cela signifie “être une personne humaine qui se maintient solide”. Le concept et le terme valent pour les deux penseurs. Contre qui et contre quoi devront s'opposer les destinataires de ce Traité  et de ces Orientations?  L'ennemi est commun: c'est la tenaille qui enserre l'Europe, à l'Est et à l'Ouest (pour utiliser une image typique d'Evola): «Les ennemis sont aujourd'hui tellement semblables qu'il n'est pas difficile de déceler en eux les divers travestissements d'un même pouvoir», écrivait Jünger. Pour résister à de tels pouvoirs, Jünger envisage l'avènement d'un “nouveau monachisme”, qui rappelle le “nouvel ordre” préconisé par Evola, qui n'a pas de limites nationales; le rebelle doit défendre “la patrie qu'il porte dans son cœur”, patrie à laquelle il veut “restituer l'intégrité quand son extension, ses frontières viennent à être violées”. Ce concept va de paire avec celui de la “patrie qui ne peut jamais être violée” d'Evola, avec son invitation impérative de bien séparer le superflu de l'essentiel, d'abandonner le superflu pour sauver l'essentiel dans les moments dangereux et incertains que vivaient Allemands et Italiens en 1950-51. Mais cette option reste pleinement valide aujourd'hui...

 

Le Zeitgeist,  l'esprit du temps, était tel à l'époque qu'il a conduit les deux penseurs à proposer à leurs contemporains des recettes presque similaires pour résister à la société dans laquelle ils étaient contraints de vivre, pour échapper aux conditionnements, aux mutations et à l'absorption qu'elle imposait (processus toutefois indubitable, malgré Evola, qui, à la fin des années 50, a émis un jugement négatif sur Der Waldgang).  «Entrer en forêt» signifier entrer dans le monde de l'être, en abandonnant celui du devenir. «Chevaucher le Tigre», pour ne pas être retourné par le Zeitgeist; devenir “anarque”, maître de soi-même et de sa propre “clairière” intérieure; pratiquer l'apolitéia  sans aucune compromission. Regarder l'avenir sans oublier le passé. S'immerger dans la foule en renforçant son propre moi. Affronter le monde des machines et du nihilisme en se débarrassant de cette idée qui veut que la fatalité des automatismes conduit nécessairement à la terreur et à l'angoisse. Entreprendre “le voyage dans les ténèbres et l'inconnu” blindé par l'art, la philosophie et la théologie (pour Julius Evola: par le sens du sacré). Tous ces enseignements sont encore utiles aujourd'hui. Mieux: ils sont indispensables.

 

Gianfranco de TURRIS.

(article paru dans Area,  avril 98; trad. franç. : Robert Steuckers).