mardi, 26 octobre 2010
Macchine da guerra: Blackwater, Monsanto e Bill Gates
di Silvia Ribeiro Un rapporto di Jeremy Scahill su The Nation (Blackwater’s Black Ops, 15.09.10) ha rivelato che il maggiore esercito mercenario al mondo, Blackwater (ora denominato Xe Services –), ha venduto servizi d’intelligence clandestini alla multinazionale Monsanto. Blackwater è stata ribattezzata nel 2009 dopo essere divenuta famosa nel mondo per via dei numerosi resoconti sui suoi abusi in Iraq, compresi massacri di civili. Resta il maggiore appaltatore privato dei “servizi di sicurezza” del Dipartimento di Stato U.S.A, che pratica il terrorismo di stato dando al governo l’opportunità di negarlo.
Molti militari ed ex-funzionari CIA lavorano per Blackwater o società collegate create per sviare l’attenzione dalla propria cattiva reputazione e fanno alti profitti vendendo i propri vili servizi – che vanno dall’informazione e lo spionaggio all’infiltrazione, al lobbying politico fino all’addestramento paramilitare – per altri governi, banche e multinazionali. Secondo Scahill, gli affari con le multinazionali, come Monsanto, Chevron, e giganti finanziari come Barclays e Deutsche Bank, vengono convogliati tramite due società possedute da Erik Prince, proprietario di Blackwater: Total Intelligence Solutions e Terrorism Research Center. Questi funzionari e direttori si spartiscono la Blackwater. Uno di loro, Cofer Black, noto per la sua brutalità come uno dei direttori della CIA, è stato quello che ha stabilito il contatto con la Monsanto nel 2008 in qualità di direttore di Total Intelligence, stabilendo un contratto con la società per spiare e infiltrare organizzazioni di attivisti sui diritti animali, anti-OGM e altre attività sporche del gigante della biotecnologia. Contattato da Scahill, il dirigente Monsanto Kevin Wilson ha rifiutato di commentare, ma ha confermato in seguito a The Nation di aver noleggiato i servizi di Total Intelligence nel 2008 e 2009, secondo la Monsanto solo per tener d’occhio le “quanto divulgato pubblicamente” da parte dei suoi oppositori. Ha aggiunto che Total Intelligence era un’«entità del tutto separata da Blackwater». Tuttavia, Scahill ha conservato copie di e-mail di Cofer Black dopo l’incontro con Wilson per la Monsanto, dove spiega ad altri ex-agenti CIA, usando le loro e-mail presso Blackwater, che la discussione con Wilson aveva portato Total Intelligence a diventare «il braccio d’intelligence della Monsanto», per spiare attivisti e altre iniziative, compresi «i nostri impegnati a integrare legalmente questi gruppi». Per Total Intelligence Monsanto ha pagato 127mila dollari nel 2008 e 105mila nel 2009. Non sorprende che una società impegnata nella “scienza della morte” come la Monsanto, dedita fin dall’inizio alla produzione di sostanze tossiche che spaziano dall’Agent Orange ai PCB (bifenili policlorurati), pesticidi, ormoni e semi geneticamente modificati, sia associata a un’altra società di farabutti. Quasi simultaneamente alla pubblicazione di quest’articolo su The Nation, la Via Campesina ha riferito l’acquisto di 500mila azioni di Monsanto, per più di 23 milioni di dollari, da parte della Fondazione Bill & Melinda Gates, che con tale azione ha finito di gettare via la sua nmaschera “filantropica”. Un’altra connessione che non sorprende. È un matrimonio fra i due più brutali monopoli nella storia dell’industrialismo: Bill Gates controlla più del 90% della quota di mercato dei software proprietari e Monsanto circa il 90% del mercato globale delle sementi transgeniche e buona parte delle sementi commerciali globali. Non esistono in alcun altro settore industriale monopoli così vasti, la cui stessa esistenza è una negazione del vantato principio della “concorrenza di mercato” del capitalismo. Sia Gates sia Monsanto sono molto aggressivi nel difendere i loro monopoli ottenuti in malo modo. Benché Bill Gates possa tentare di dire che la Fondazione non sia collegata ai suoi affari, tutto ciò prova che è vero il contrario: la maggior parte delle loro donazioni finiscono per favorire gli investimenti commerciali del magnate, effettivamente non “donando” alcunché: anziché pagare tasse ai forzieri statali, investe i suoi profitti là dove gli frutta economicamente, compresa la propaganda sulle loro presunte buone intenzioni. Al contrario, le loro “donazioni” finanziano progetti distruttivi come la geoengineering (geoingegneria) o la sostituzione di medicine comunitarie naturali con medicine high-tech brevettate nelle aree più povere del mondo. Quale coincidenza: l’ex-ministro della Sanità Julio Frenk e Ernesto Zedillo sono consulenti della Fondazione. Come Monsanto, Gates è inoltre impegnato a tentare di distruggere l’agricoltura rurale contadina a livello mondiale, principalmente mediante l’ “Alliance for a Green Revolution in Africa” (AGRA). che funziona come un cavallo di Troia per privare i poveri agricoltori africani delle loro sementi tradizionali, sostituendole con quelle delle proprie aziende per cominciare in seguito con quelle geneticamente modificate (GM). A tal fine, la Fondazione ha assunto Robert Horsch nel 2006, il direttore di Monsanto. Ora Gates, nell’esporre massicci profitti, ha svelato direttamente la fonte. Blackwater, Monsanto e Gates sono tre lati della stessa figura: la macchina da guerra al pianeta e a gran parte della gente che lo abita, che siano contadini, comunità indigene, persone che vogliono condividere informazione e conoscenza, o chiunque altro non intenda soggiacere alla cappa del profitto e alla distruttività del capitalismo. * L’autrice è ricercatrice al Gruppo ETC «La Jornada» ,14.10.10. Traduzione per il Centro Studi Sereno Regis a cura di Miky Lanza, con revisioni di Megachip. Titolo originale: Machines of War: Blackwater, Monsanto, and Bill Gates http://www.transcend.org/tms/2010/10/machines-of-war-blac...
Fonte: megachip [scheda fonte]
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samedi, 11 octobre 2008
Géo-économie mondiale: un basculement stratégique
Géo-économie mondiale : un basculement stratégique
Ce texte mérite d’être lu et d’entraîner une réflexion. Il montre comment les avatars militaires des Etats-Unis et la faillite du néo-capitalisme de l’ère post-soviétique signent la fin de cinq siècles de domination absolue de l’Occident sur le reste du monde.
Sur fond d’un paysage sinistré de l’économie occidentale, marqué par de faillites retentissantes de grands établissements de renom tant aux Etats-Unis qu’en Europe, un basculement stratégique s’est opéré en 2008 au niveau de la « géo-économie » mondiale avec la recomposition de la carte bancaire américaine, l’entrée spectaculaire des fonds souverains arabes ou asiatiques dans le capital de grandes sociétés américaines ou européennes et l’affirmation de plus en plus marquée des grands pays du Sud, les pétromonarchies du Golfe et le groupe Bric (Brésil, Inde, Chine et Afrique du Sud) comme acteurs majeurs de la scène mondiale au point que se pose la question de la pérennité de l’hégémonie planétaire des Etats-Unis et de la viabilité des structures internationales tant financières que politiques mises en place dans la foulée de la Deuxième Guerre Mondiale (1939-1945), notamment le Conseil de sécurité de l’ONU, le Fonds Monétaire International et la Banque Mondiale, ainsi que le G7, le regroupement des sept pays les plus industrialisés de la planète crée après la première crise du pétrole (1973).
L’Inde, via le groupe Mittal, en s’emparant du premier groupe sidérurgique européen (Sacelor-Arcelor), la Chine, en devenant actionnaire du plus gros fonds d’investissement américain, Blackstone, à hauteur de dix pour cent sans droit de vote, pour une valeur de trois milliards de dollars, parallèlement à la mainmise de la Bourse de Dubaï et de Qatar Investment Autority (QIA) sur la moitié de London Stock Exchange et la prise de participation en 2006 de la banque publique russe VTB de 5% du capital du consortium aéronautique franco-allemand EADS, ont démontré leur vitalité et leur ambition de redéfinir les contours de la nouvelle économie mondiale en voie de constitution.
I-La recomposition de la carte bancaire américaine
Ce bouleversement a conduit les dirigeants de la finance internationale sinon à pactiser avec leurs rivaux potentiels, à tout le moins à modérer leurs prétentions du fait de la conjonction de quatre facteurs cumulatifs.
l’affaiblissement de l’économie américaine du fait des coûts de la guerre d’Irak et d’Afghanistan, estimé par le prix Nobel américain de l’économie Joseph Stiglitz à près de trois mille milliards de dollars (1),
la gestion spéculative des prêts immobiliers américains et la cascade des pertes connexes qui s’en est ensuivie de l’ordre de 945 milliards de dollars selon un rapport du FMI (2) dont vingt milliards de dollars pour les banques françaises (Crédit agricole, Société générale, Dexia (6,5 milliards d’euro ainsi que les filiales de la CNCE (caisse nationale des caisses d’epargne) Natexis-Nexity (6 milliards d’euros)
le pactole constitué par les états pétroliers du fait du renchérissement du prix du brut, estimé fin 2007, à 3.355 milliards de dollars,
le matelas aménagé par les banques centrales étrangères en bons de trésor américain, de l’ordre de 2.500 milliards de dollars.
Dans ce contexte économique chahuté, les capitaux étrangers ont ainsi opéré une percée remarquée dans un système bancaire américain en pleine recomposition, n’épargnant pas même certains des fleurons de Wall Street. Si JP Morgan a réussi à tirer son épingle du jeu, il n’en est pas de même de trois autres grandes banques d’investissement, Merryl Lynch et Lehman Brothers et Morgan Stanley.
Confirmant son rôle de prédateur de la finance, JP Morgan s’est ainsi hissé au premier rang des banques américaines, s’emparant coup sur coup en 2008 de la banque Bear Stearns et de Washington Mutual Bank, la plus importante caisse d’épargne du pays, devenant ainsi la plus grosse banque américaine avec des dépôts de l’ordre par 900 milliards de dollars, dont 188 milliards repris à Washington Mutual. Mais les trois autres grandes banques d’investissement de Wall Street, -Merryl Lynch et Lehman Brothers et Morgan Stanley-, ont fait les frais de cette gestion hasardeuse de prêts immobiliers aléatoires, de même que le plus grand groupe d’assurance américain AIG, repêché de justesse avant naufrage par le gouvernement américain.
Lehman Brothers, à la suite d’une dépréciation de près de 25 milliards de dollars de ses actifs, a été conduite à se placer sous la protection du chapitre 11 de la législation financière américaine qui aménage la protection des entreprises en faillite, alors que Morgan Stanley, pour échapper à un sort funeste, faisait alliance avec Mitsubishi UJF, cédant 20 pour cent de ses parts au géant asiatique pour neuf milliards de dollars. Merryl Lynch a été, elle, rachetée purement et simplement par la Bank of America.
Troisième banque d’investissement du pays et sans doute l’une des plus touchée par la crise financière avec près de 40 milliards de dollars de dépréciations depuis le début de la crise, Merryl Lynch avait dû solliciter l’aide du Koweït et de la Corée du sud pour 6,5 milliards de dollars d’actions préférentielles, leur cédant 25% de participation. Elle a même dû céder 8 milliards d’actifs complémenaires après des pertes abyssales au deuxième trimestre 2008 (de l’ordre de 4,89 milliards de dollars). Déjà plombée par 9,75 milliards de dépréciations supplémentaires, elle a été contrainte de céder une nouvelle fois des actifs dont sa part dans Bloomberg et dans Financial Data Services, avant d’être rachetée par Bank of America.
Pour sa part, Citigroup, qui était jusqu’à la crise la première banque des Etats-Unis, a dû solliciter le concours des Fonds Souverains du Koweït et de Singapour pour combler les pertes de l’ordre de 14,5 milliards de dollars résultant d’investissements malheureux dans des produits liés aux crédits « subprimes ». Le Prince saoudien Walid Ben Talal, déjà actionnaire de l’établissement, et la famille dirigeante d’Abou Dhabi avec une prise de participation au capital de l’ordre de 7,5 milliards, ont participé à cette opération de renflouage. Au total, la banque a été alimentée à hauteur de 22 milliards de fonds originaires d’Asie et du Moyen-Orient, en 2008. Toutefois, cette jonglerie financière va coûter cher à Citigroup qui va devoir payer 1,7 milliards de dollars par an pour rémunérer les différents investisseurs ayant participé à ses deux recapitalisations d’urgence. La première recapitalisation de 7,5 milliards de dollars, annoncée en novembre 2007, était rémunérée à 11%, soit 825 millions de dollars par an. La seconde, de 12,5 milliards de dollars, à 9 %, soit 875 millions de dollars par an.
Dans le cas de la deuxième opération, les obligations sont non cessibles pendant les sept premières années. Si aucun des investisseurs ne les convertit en actions pendant cette période, elles auront donc coûté plus de 6,1 milliards de dollars à Citigroup. De son côté, Wells Fargo a absorbé le 3 octobre sa concurrente Wachovia pour un montant de 15,1 milliards de dollars (10,86 milliards d’euros). Wachovia, 4eme banque des Etats-Unis, était affligée de 42 milliards de ses dettes. Indice d’une aggravation de la crise qui a déjà jeté à la rue près de 700.000 foyers américains, les banques américaines manifestent désormais des réticences à se lancer dans des opérations de sauvetage faute de garanties financières de l’Etat lequel ne souhaite plus s’impliquer davantage, après le financement de la faillite de treize établissements depuis le début de la crise.
La bourrasque n’a pas épargné non plus l’Europe où deux banques anglaises ont été nationalisées, Northern Rock et Bradford et Bingley, un fonds britannique spécialisé dans l’immobilier, de même qu’une banque belgo néerlandaise Fortis, première banque belge, seconde banque néerlandaise, premier employeur privé en Belgique. Fortis avait racheté il y a un an tout juste, la banque ABN, pour la somme de 24 milliards d’euros, lors que la France et la Belgique s’employaient à renflouer à hauteur de 6,5 milliards d’euros DEXIA, la banque de financement des collectivités locales, et que NATEXIS, filiale de la Caisse d’Epargne Française, était place sous observation.
Le plus étonnant est que cet apport massif d’argent provenant de pays situés dans la sphère suspectée de connivence avec l’Islam radical tranche avec le tollé suscité à l’occasion de l’acquisition par Dubaï Port Authority (DPA) de la compagnie des ferries britanniques P/O. La société de Dubaï se proposait de racheter pour 6,8 milliards de dollars les activités portuaires du britannique P&O, qui avait compétence pour gérer une dizaine de ports américains, notamment des terminaux portuaires de marchandise, du pétrole et de passagers aux Etats-Unis (Nouvelle-Orléans, Miami, New York).
Elle s’est heurtée au veto américain au nom d’impératifs de sécurité liés à la guerre contre le terrorisme, alors que Doubaï est un allié fidèle de longue date des Etats-Unis. Un sort identique avait d’ailleurs été réservé à la tentative faite en juin 2005 par une société chinoise cotée en bourse CNOOC, mais contrôlée à 70 % par l’État chinois, d’acquérir pour 18,5 milliards de dollars, la compagnie pétrolière américaine UNOCAL, surenchérissant de plus de 1,5 milliards de dollars sur l’américain Chevron Texaco. Les parlementaires américains s’ y opposèrent aussi au motif qu’une telle opération compromettrait la sécurité de l’approvisionnement en énergie des Etats-Unis de la part d’un pays concurrent, se réclamant de surcroît de l’idéologie marxiste.
En un an le climat psychologique des affaires a radicalement changé sur le plan international lorsque l’on songe à l’ironie mordante qui a accompagné le raid de l’indien Mittal sur Arcelor ou le veto opposé par l’administration américaine à l’acquisition de l’Emirat de Doubaï d’installations portuaires aux Etats-Unis. Tout le monde jongle désormais avec aisance avec les sigles des Fonds souverains, alors qu’il y a peu le prénom de l’investisseur indien Lackhmi Mittal était régulièrement écorché par les commentateurs les plus avisés qui lui prêtaient les plus noirs desseins.
Toutefois, comme un signe de la persistance d’une certaine morgue impériale, les investissements arabes ou asiatiques ne s’accompagnent pas des droits inhérents à la qualité d’actionnaire, notamment la participation au pouvoir décisionnel. Ainsi la Chine dans la foulée de son investissement dans le Fonds américain Blackstone s’est engagée, par écrit, à ne pas disposer d’un droit de vote malgré une mise de trois milliards de dollars. Un engagement, inique, au regard des canons de l’orthodoxie libérale, inconcevable pour tout investissement occidental dans une entreprise du tiers monde.
La raison de ce changement se résume par cette simple équation : la dépendance énergétique des pays développés est désormais plus manifeste que dans le passé et se heurte aux besoins croissants en la matière des pays émergents d’Asie, une concurrence qui explique et éclaire d’un jour nouveau les guerres d’Afghanistan (2001) et d’Irak (2003) ainsi que le tout dernier conflit du Caucase entre la Géorgie et la Russie, en Août 2008.
Si la Russie tend à l’autosuffisance, la dépendance énergétique des pays occidentaux est flagrante. Produisant 25 pour cent du pétrole, ils en consomment 45 pour cent, alors que les réserves d’hydrocarbures sont concentrées en Asie (65 pour cent pour le pétrole et 45 pour cent pour le gaz). Le Moyen orient détient les deux tiers des réserves de pétrole et un tiers de celles du gaz, dont la Russie détient un autre tiers. Dans cette configuration, la part des compagnies étrangères atteint 91,5 en Guinée équatoriale, 80,9 en Argentine, 75,8 en Indonésie, 73 pour cent en Angola, mais zéro pour cent en Arabie saoudite et au Koweït. (3).
II-Les objectifs de la Chine
La Chine s’accommode toutefois -mais pour combien de temps ?- des clauses restrictives de sauvegarde car elle paraît davantage soucieuse de rechercher, non un gain immédiat, mais un objectif à long terme :
Une diversification des investissements en vue d’amplifier profit et productivité dans la gestion des réserves. La prise de participation de la Chine dans Blackstone, premier investissement chinois d’ampleur dans une entreprise américaine d’envergure, va en effet provoquer un changement radical dans la gestion des réserves de change. Son objectif est de diversifier ses habituels placements en bons du Trésor américains, dont la Chine est le deuxième créancier après le Japon. Des investissements sûrs mais à rentabilité limitée alors que les fonds offrent des rendements plus élevés, même s’ils sont plus risqués, via des rachats d’entreprises.
Bras armé financier de la Chine, la Société d’investissement d’Etat (SIE) va devoir gérer 200 milliards de dollars, soit un sixième des 1200 milliards accumulés par la Chine grâce à ses excédents. Blackstone qui possède des actifs de trente milliards de dollars est son premier investissement. Pékin a décidé de s’inspirer des expériences réussies à l’étranger par la holding financière de Singapour, Temasek, qui sert de modèle à la SIE, avec pour ambition d’amplifier les profits et la productivité dans la gestion de réserves.
Une revalorisation progressive et mécanique du Yuan, sans procéder à une réévaluation formelle de la monnaie nationale chinoise. Au delà de l’aspect spectaculaire de l’investissement chinois dans Blackstone, les sorties de capitaux permettront ainsi une appréciation mécanique progressive du yuan sans procéder à une réévaluation directe de la monnaie chinoise, tant il est vrai qu’une réévaluation n’est pas dans l’intérêt de la Chine car elle pourrait mettre à mal sa compétitivité prix et donc hypothéquer en partie la croissance basée sur les exportations.
Enfin, dernier et non le moindre des objectifs, l’acquisition d’une expertise financière haut de gamme au contact des gestionnaires occidentaux. La participation de la Chine à de fonds occidentaux lui permettra d’accéder à la gestion sophistiquée en matière d’instruments financiers. Créer des partenariats avec des investisseurs financiers étrangers équivaut à un transfert de technologies dans l’industrie que la Chine a promu pour son développement économique.
La Chine, grande exportatrice de produits manufacturés qui jouit d’un yuan sous-évalué disposait en 2007 de 1.330 milliards de dollars résultant de ses excédents commerciaux, un stock en hausse de 41,6% sur un an. Outre la firme américaine Blackstone, la Chine, via China Investment Corp (CIC), a doté Chinalco de 120 milliards de dollars pour rafler Rio Tinto, deuxième groupe minier mondial, tandis que le Government of Singapore Investment Corp. (GIC), l’un des deux fonds souverains de Singapour, réduisait, en 2007, de 25% ses achats d’obligations d’Etat américaines pour les diriger vers les banques privées d’Amérique.
A ces considérations économiques, s’ajoute un facteur politique de premier plan : la concurrence entre la Chine et l’Europe en Afrique a conduit onze pays africains producteurs de matières premières à remettre à plat les contrats qui les lient aux compagnies exploitantes depuis les années 1990.
Tel est le cas du Liberia (contrat du fer avec Mittal), de la Tanzanie (Aluminium), de la Zambie et de l’Afrique du sud (platine et diamant) notamment. Emboîtant le pas aux producteurs du pétrole, les Etats africains entendent mettre à profit l’envolée des prix des matières premières pour procéder à des ajustements de prix davantage conformes aux lois du marché. Dans ce combat spectaculaire sur « la vérité des prix », le plus en pointe se trouve être Joseph Kabila, Président de la République Démocratique du Congo, un pays jadis en faillite sous le règne de Joseph Désiré Mobutu, le protégé des Américains et des Français, aujourd’hui un nouvel eldorado. Dans un geste d’une audace inouïe, Kabila a remis en cause pas moins de soixante et un (61) contrats miniers. Cette nouvelle donne placerait la Chine en meilleure posture dans la bataille pour le contrôle des sources d’énergie et expliquerait sa discrétion dans sa percée capitalistique, en faisant un facteur majeur de recomposition de la géo-économie mondiale (4).
III- Les Fonds Souverains ou Sovereign Wealth Fund
Les Fonds souverains se caractérisent par le fait que les capitaux sont détenus par les Etats. Leur objectif est de préparer l’après pétrole et de faire fructifier les excédents budgétaires à partir de prises de participations dans des entreprises du monde entier. Les financiers occidentaux en tirent argument que de telles structures nourrissent des interrogations quant à une éventuelle tentative d’exercer une influence politique dans des entreprises et structures étrangères. Mais la réciproque n’est pas vraie. les Etats-Unis à l’origine des guerres préventives du XXI me siècle, se préoccupent rarement des craintes ou des réticences que leur prise de participation dans les entreprises des pays émergents, et, d’une manière générale, leur comportement unilatéraliste, suscitent dans le tiers-monde.
Pourtant ces fonds ne sont pas inconnus des spécialistes de la finance et leur existence est ancienne. Le premier a été crée, en 1956, par un administrateur colonial britannique depuis les îles Kiribati, au sud d’Hawaï. Soucieux de préparer l’après phosphate dont le pays était riche, celui-ci créa une taxe sur les exportations d’engrais afin de servir des revenus futurs lorsque la ressource serait épuisée. Sage précaution : le fonds des Kiribati gère aujourd’hui un demi milliard de dollars, près de neuf fois le PIB local. Les diamants du Botswana alimentent le Fonds Pula, à hauteur de 6,8 milliards de dollars et le cuivre du Chili abonde pour l’essentiel le fonds ESSF, pour quelque 10 milliards.
Le premier choc pétrolier de 1973 va donner l’impulsion à la constitution des premiers fonds souverains dans les pétromonarchies du Golfe en vue de recycler les « pétrodollars ». La zone asiatique (Chine, Inde, Japon, Corée du sud, Hong-Kong, Singapour, Bruneï) s’y lancera à son tour dans les années 2000 avec la montée en puissance des « économies émergentes ». Une quarantaine de Fonds opèrent de nos jours dans le Monde, notamment le fonds koweitien, un pionnier dans le monde arabe (1953), le Temasek Holdings (Sinagpour) et le Abu Dhabi Investment Authority (1990), l’Iran Oil Stabilisation Fund et le Qatar Investment Authority (5) .
IV- Les acquisitions prestigieuses
Ces fonds souverains viennent à la rescousse d’une industrie bancaire déstabilisée par la crise des subprimes, ces crédits immobiliers à risque américains qui ont déjà coûté 80 milliards de dollars aux banques (54,3 milliards d’euros). Ces fonds géraient en 2007 un pactole estimé à 3.355 milliards de dollars avec une projection de l’ordre de 12.000-15.000 milliards dollars, leur surface financière à l’horizon 2015. S’ils devancent largement les Hedge Funds (2.000 milliards), ils se situent loin derrière les assureurs (15.200 milliards), les fonds d’investissement (21.700 milliards) et les fonds de pension (22.600 milliards de dollars).
Qu’ils soient de Dubaï, du Qatar, de Chine ou de Singapour, les “Fonds souverains” ont profité de la crise financière pour réaliser de spectaculaires prises de participation dans des structures aussi diverses que la célèbre firme de construction automobile italienne Ferrari, dont le Fonds d’Abou Dhabi en détient 5 pour cent du capital, le distributeur britannique Sainsbury, ou encore, la chaîne française de parfumerie « Marionnaud » ses 1300 boutiques de parfums et de cosmétiques, racheté par As Watson, propriété du milliardaire chinois Li Ka-Shing pour 900 millions d’euros. Même une vénérable institution telle que la bourse de Londres n’échappe pas non plus à leur appétit : C’est ainsi que la Bourse de Doubaï et la Qatar Investment Autority (QIA) ont conjointement acquis la moitié de London Stock Exchange, la bourse de Londres. La QIA, qui contrôle la Bourse de Dubaï, créée en 2000, gère déjà 40 milliards de dollars d’actifs.
Son ambition est de mettre sur pied une bourse de dimension internationale et à forte croissance hors de Doubaï, plaque tournante du commerce régionale qui ne dispose toutefois pas de ressources pétrolières. En réplique, la bourse de New York (NYSE/Euronext) a pris, en juin 2008, 25 pour cent de la bourse de Doha New York (NYSE/Euronext) pour une valeur de 160 millions d’euro en vue de la gestion pendant cinq ans d’un portefeuille de titres dont la cotation représente 1 milliard 400 millions d’euros. Le Qatar conservera 75% du capital ainsi que 8 des 11 sièges du conseil d’administration de la bourse de Doha.
A- Aux Etats-Unis : Deux fleurons du parc immobilier new yorkais sont, d’ores et déjà, tombés dans l‘escarcelle de ces fonds :
Le General Motors Building, construit en 1968 et qui abrite l’Apple Store de la Cinquième Avenue, a été vendu, en juin 2008, pour 2,8 milliards de dollars à un fonds américain, Boston Properties, allié à des investisseurs de Doubaï, du Koweït et du Qatar. Le vendeur, le magnat new-yorkais de l’immobilier Harry Macklowe, s’était retrouvé lourdement endetté après avoir acquis en 2007 sept immeubles pour 7 milliards de dollars en empruntant la quasi-totalité de la somme, à un moment où le marché était encore florissant. La crise immobilière a encore alourdi sa dette
Le Chrysler Building, fleuron de l’architecture Art Déco, construit entre 1928 et 1930, et qui fut brièvement la tour la plus haute du monde, avant d’être détrôné par l’Empire State Building, a été racheté à hauteur de 75% par un fonds souverain d’Abou Dhabi pour 800 millions de dollars (514 millions d’euros), selon la presse américaine.
B- En Europe, l’Agence d’investissement du gouvernement de Singapour (GIC) va investir 11 milliards de francs suisses (6,6 milliards d’euros) dans UBS, pour l’aider à surmonter à une crise financière susceptible de lui valoir, en 2007, les premières pertes de son histoire,
C- En France : BNP Paribas passe pour compter parmi ses actionnaires ultra minoritaires des fonds saoudiens, koweïtiens et des Emirats arabes unis, et la firme pétrolière Total envisage pour se diversifier vers le nucléaire d’ouvrir son capital aux pétromonarchies du Golfe tandis que, de son côté, Qatari Diar (un fonds d’investissement possédé à 100 % par Qatar Investment Authority, le fonds souverain du Qatar) est engagé dans des négociations exclusive avec Cegelec (ancienne filiale d’Alcatel), pour le rachat de ce poids lourd spécialisé dans les services liés à l’énergie, à l’électricité et la rénovation des caténaires ferroviaires au Maroc. Qatari Diar est très présent sur le plan international, au Maroc, en Egypte et dans tout le Moyen-Orient, mais aussi en Grande-Bretagne, dans l’immobilier, comme dans le quartier de Canary Wharf à Londres (6).
Dans l’hôtellerie haut de gamme, le seul palace parisien détenu par des Français est « Le Fouquet’s » du groupe Barrière situé au coin des Champs Elysées et de l’Avenue George V, où Nicolas Sarkozy a passé sa célèbre « nuit du Fouquet’s », offrant sa première réception suivant son élection présidentielle à ses amis de la haute finance, y passant sa première nuit de Président de la République en compagnie de son épouse d’alors Cécilia Siganer. Tout le reste est aux mains de capitaux étrangers.
Le Ritz, joyau de l’hôtellerie de luxe française, est la propriété de Mohamad al-Fayed, le papa de Dodi, l’ami de la princesse Diana avec laquelle il a trouvé la mort dans un accident de la circulation à Paris. M. Al-Fayed est le beau-frère de Adnane Kashooggi, important marchand d’armes saoudien impliqué dans le scandale de l’Irangate, la vente prohibée d’armes américaines à l’Iran sous l’administration Reagan dans les années 1980.
Le George V est la propriété du prince saoudien Walid ben Talal qui y a investi pour sa rénovation 200 millions de dollars. La gestion de l’établissement a été confiée au groupe canadien « Four Seasons ». Al Walid est également actionnaire à hauteur de 5 pour cent d’une autre chaîne hôtelière canadienne « Fairmont ». C’est par le biais de cette société qu’il a racheté en 2007 le Savoy de Londres.
Le Plaza Athénée et le Meurice sont gérés par le groupe anglais Dorchester Group, propriété de l’agence d’investissement de Brunei.
Le Vendôme est la propriété du joaillier libanais Robert Mouawad, fournisseur de la famille royale saoudienne.
Propriétaire du « Carlton Tower » à Londres. le groupe Jumeirah international, propriété de la famille régnante de Dubaï al-Maktoum s’est porté acquéreur de « l’Intercontinental de Paris » pour une valeur de 300 millions de dollars. En compétition sur cette affaire avec le prince saoudien, la transaction a été depuis lors suspendue. Le groupe Jumeirah pourrait visait en compensation le Crillon, le célèbre hôtel de la place de la concorde, et le prince al-Walid se consoler avec le Martinez de Cannes.
V- Le nouveau recyclage des pétrodollars
La hausse du baril de 25 dollars en 2002 à 135 dollars en juin 2008 a généré un gigantesque transfert d’argent des pays consommateurs vers les pays producteurs, de l’ordre de 1 000 milliards de dollars passés ainsi des consommateurs d’énergie (Japon, Europe, Etats-Unis) vers l’Arabie saoudite, la Russie, les Emirats, l’Angola, l’Algérie, le Venezuela. Lors du premier boom pétrolier, peu de pays, en dehors de la Norvège, avaient mis à profit cette manne pétrolière pour impulser leur décollage. Puissant facteur de corruption des élites, le premier choc pétrolier de 1973 a transformé précocement les pétromonarchies en état rentier, développant jusqu’à la caricature une boulimie consumériste d’acquisition ostentatoire de produits au luxe tapageur, constituant un terreau à l’islamisme.
Durant le dernier quart du XX me siècle, les pays arabes ont investi près de 1.500 milliards de dollars pour des achats massifs d’équipements militaires sans pouvoir se doter ni de la capacité spatiale, ni de la capacité nucléaire, ni de la capacité de projection militaire, trois éléments qui conditionnent la puissance militaire. Générateurs de juteuses de rétro commissions, les contrats d’armement ont paru parfois sans rapport avec les besoins réels des pays concernés ou de leur capacité technologique.
C’est ainsi que l’aviation saoudienne a longtemps été tenue par les pilotes pakistanais et la protection de l’espace aérien libyen confié aux techniciens nord-coréens et Syriens. Pis, à deux reprises, l’arsenal de deux pays arabes a été complètement détruit par leurs propres fournisseurs, celui de la Libye par la France lors de la guerre du Tchad (1984-1987), celui de l’Irak, par la coalition occidentale en 1990, consécutif à l’invasion du Koweït par l’Irakien Saddam Hussein. Si l’extravagance est réduite mais non bannie, les premiers placements de la période 2007 2008 paraissent davantage judicieux.
Ainsi le roi Abdallah d’Arabie saoudite a décidé de créer un million d’emplois en construisant six villes économiques pour y attirer des industries diversifiées (7). King Abdullah City, sur la mer Rouge, au nord de Djeddah, devait être achevée fin 2008, avec un port et toutes les infrastructures y afférentes pour attirer 2 500 entreprises et leurs cadres. Le coût de ce projet est estimé à près de 400 milliards de dollars. Au vu de la précédente expérience, le premier boom pétrolier où la dilapidation et la gabegie étaient de pratique courante, le nouveau pactole pétrolier paraît mieux géré. Le souci de préserver les ressources des générations futures est plus présent, mais le handicap majeur dont pâtit le Monde arabe est son absence de seuil critique du fait de sa balkanisation et sa mise sous tutelle américaine, deux éléments qui obèrent son développement par des projets à dimension régionale.
VI- La « sharia compliance » ou la rivalité entre la City et Wall Street
La concurrence est vive entre les grandes places financières internationales en vue d’absorber les surplus des recettes pétrolières notamment entre la City de Londres et Wall Street (New York), notamment les pétrodollars en provenance des pétromonarchies estimés à 1.500 milliards de dollars en 2007. Prenant de vitesse leurs rivaux, les Anglais ont lancé des émissions d’obligations d’Etat « Sharia compliance », conforme à la législation islamique qui prohibe le prêt à intérêt.
Le nouvel ordre international tant célébré depuis l’effondrement du bloc communiste, c’est à dire depuis l’effondrement du monde bipolaire au début des années 1990, reposait sur le « consensus de Washington », une notion inventée en 1989 par l’économiste John Williamson visant à substituer aux régulations keynésiennes en vigueur depuis le krach boursier de 1929, les six nouveaux paramètres de la Mondialisation, à savoir : rigueur monétaire, rigueur budgétaire, libre-échange, privatisations, déréglementation et relance par l’investissement privé. De gré ou de force, sous l’égide du Fonds Monétaire International (FMI), des politiques d’« ajustements structurels » ont été imposées à bon nombre de pays en développement en vue de leur adaptation aux nouvelles règles du jeu, ainsi qu’à l’Union Européenne, via le « Consensus de Bruxelles ».
La version élitiste européenne du « consensus de Washington » est en fait un « consensus de Washington » aggravé, car il en reprend toutes les dispositions néolibérales, mais les met en œuvre dans toute leur radicalité avec l’acharnement à systématiser les privatisations ou la politique agricole commune malgré les pénuries, ainsi que l’imposition d’un « critère de convergence » de la zone euro en matière de déficits publics, fixant la limite à 3% du PIB en ce qui concerne le déficit annuel et de 60% du PIB pour le déficit cumulé.
Mais pour louables que soient les intentions de ce théoricien américain, cette politique ultra-libérale de transparence n’a pas pour autant prévenu les faillites frauduleuses retentissantes (Enron pour les Etats-Unis et Vivendi pour la France), les délits d’initiés (scandale de la firme aéronautique franco-allemande EADS) ou encore les évaporations de recettes, comme ce fut le cas avec la firme pétrolière américaine Halliburton pour ses marchés avec l’Irak ou la crise des subprimes, dont la dernière illustration aura été, au mépris du principe de la libre entreprise, la mise sous contrôle fédéral, l’été 2008, de trois banques de refinancement du crédit immobilier, la première en juillet, la banque californienne Indymac, les deux autres, Fannie Mae et Freddie Mac, en septembre.
L’un des premiers prêteurs hypothécaires américains, Indymac a essuyé des pertes de l’ordre de 98 pour cent de ses actifs estimés à 32 milliards de dollars, signant par là la plus grosse faillite depuis 24 ans dans le secteur bancaire américain. Fannie et Freddie, rouage essentiel de l’industrie du logement aux Etats-Unis, possèdent ou garantissent près de la moitié des 12.000 milliards de dollars de crédits immobiliers résidentiels en cours aux Etats-Unis.
Le « consensus de Washington » a surtout sécrété, en contrepoint, un système planétaire articulé autour de la criminalité transnationale. Les commentateurs occidentaux se sont longtemps montrés discrets sur ce sujet, plus prompts à dénoncer le péril islamiste ou le péril jaune, après avoir tant dénoncé le péril rouge. Selon le Fonds Monétaire International, cité par le journal Le Monde en date du 23 Mai 2006, de 700 à 1.750 milliards d’euros circuleraient ainsi entre les banques, les paradis fiscaux et places financières, malgré le durcissement des législations et l’accroissement des contrôles. C’est dire l’importance des montants en jeu et partant des enjeux eux mêmes. Paradis fiscaux, zones offshore, flux monétaires, capitaux errants et budgets aberrants…
Ces termes innocents évoquent au premier abord une douceur de vivre dans une société marquée par l’abondance financière, la flexibilité économique et l’évasion fiscale. C’est en fait la face hideuse de la mondialisation, nouveau dogme de la libre entreprise, avec son cortège de chômage, d’exclusion, de corruption, en un mot tous les ingrédients qui gangrènent la vie politique, sapent les fondements des puissances grandes et petites et font planer le risque de perversion des grandes et vieilles démocraties. Sur les 57 paradis fiscaux ou pays à NEO aberrants recensés à travers le monde, 38 enclaves présentent cette singulière caractéristique de ne pas disposer, ou de ne pas rendre disponible, de données chiffrées sur leurs dépôts bancaires étrangers.
Parmi ces enclaves, citons Aruba, ancienne dépendance néerlandaise des Caraïbes jusqu’en 1996 et l’île malaisienne de Labuan dans le Pacifique qui abrite tout de même 21 banques et onze “trust companies”. Généralement situés à proximité des zones du narcotrafic mondial, les pays NEO sont ainsi appelés car ils disposent dans leur balance de paiement d’une rubrique NEO ((Net Errors and omissions) qui permet par un artifice comptable, en prétextant les erreurs statistiques résultant des désordres administratifs, de dissimuler le grave dysfonctionnement de leur commerce
Mais s’il est sain de dénoncer les périls extérieurs, il serait tout aussi salubre de dénoncer aussi ses propres périls intérieurs : Trafic de drogue, trafic d’armes, prostitution, jeux clandestins, racket constituent les principales sources de capitaux illicites et ces divers trafics, parfois tolérés sinon encouragés par les états, génèrent annuellement mille cinq cent milliards de dollars (1.500 milliards), soit le budget des 20 pays de la Ligue arabe. Ce que manque souvent de faire les états occidentaux uniquement obnubilés pour le moment par le « terrorisme islamique ». Le plus cocasse dans cette affaire est que les fonds souverains, bien que musulmans en ce qui concerne ceux des pétro-monarchies, n’ont pas hésité à voler au secours de grands établissements américains en difficulté lors de la crise des subprimes, sans que les bénéficiaires des prêts aient manifesté la moindre réticence à leur égard.
VII- La contradiction majeure du capitalisme occidental : de l’Ultralibéralisme, au patriotisme économique, au protectionnisme financier, à l’interventionnisme étatique.
L’engouement pour les Fonds Souverains a été aussi soudain qu’étonnant. Le phénomène ne saurait s’expliquer par leur nouveauté puisque ces investisseurs institutionnels existent depuis trente ans, mais par la nécessité de provisionner de prestigieux établissements en difficulté du fait d’une gestion hasardeuse. Toutefois l’admission des Fonds s’est faite comme à contre cœur, -contre mauvaise fortune bon cœur-, conséquence de l’évolution des rapports de force au sein des grands opérateurs financiers, notamment l’affaiblissement des Etats-Unis dont le pouvoir est désormais relatif dans la gestion des affaires du Monde et non plus absolu comme ce fut le cas durant la décennie 1990-2000, une période où ils régnaient en « Maîtres du Monde » du nouvel ordre international consécutif à l’effondrement du bloc soviétique.
Spectaculaire mais non triomphale, l’entrée des Fonds Souverains au sein du cénacle de la finance internationale ne se fait pas par la grande porte, mais par la porte cochère, sous les fourches caudines des grands maîtres des affaires. Les conditions imposées à la Chine pour son entrée dans le capital de Blackstone, l’éviction de l’Emirat de Doubaï dans la gestion des ports américains, le discret montage réalisé par la France pour disposer d’une minorité de blocage au sein des Chantiers de l’Atlantique en témoignent (8). Curieusement ces préventions et restrictions ne s’appliquent pas aux fonds de la sphère occidentale. Ainsi le conglomérat norvégien GPFG dispose d’une gamme de 4000 sociétés pour ses interventions sur le marché financier mondial, sans la moindre contrainte autre que les lois du marché et de la libre concurrence.
Le comportement frileux tant des Américains que des Européens a révélé, par contrecoup, l’inanité des grands principes que les Occidentaux ont forgés pour assurer leur domination économique mondiale. Le principe de la liberté du commerce et de l’industrie, le principe de la Liberté de navigation, à l’origine de l’expansion occidentale, sont désormais brandis par les pays du Sud pour conquérir les marchés des grands pays industrialisés, lesquels sont condamnés à livrer, à coups d’arguments protectionnistes (la protection de l’emploi, la stabilité du tissu social), un combat d’arrière-garde pour contenir cette poussée.
Ni les Européens ni les Américains n’avaient ce genre de préoccupations lorsqu’il s’agissait par la colonisation (forme primitive de délocalisation), de conquérir physiquement les marchés extérieurs pour en faire des marchés captifs, en contraignant les populations autochtones à adopter le mode de vie et les habitudes de consommation des pays occidentaux. Pour rappel : La guerre de l’opium menée par les Anglais contre la Chine au XIX me siècle, pour l’obliger à s’ouvrir aux produits anglais, avait été précisément menée à l’époque au nom du principe de la liberté et du commerce, avec son habillage moral « le fardeau de l’homme blanc » porteur de la civilisation face à la barbarie des peuples basanés.
Le basculement stratégique de la géo-économie mondiale s’est répercuté sur le plan diplomatique avec, pour la première fois dans les annales diplomatiques internationales, un sommet sino-africain à Pékin, en janvier 2007, et, un autre sommet Inde-Afrique dépassant le clivage traditionnel entre pays anglophones (Commonwealth) et francophones (Organisation de la francophonie), concrétisant la percée majeure effectuée tant sur le plan diplomatique qu’économique par la Chine et l’Inde dans l’ancienne chasse gardée des anciennes puissances coloniales européennes. Ce basculement s’est accompagné sur le plan médiatique, par la rupture du monopole du récit médiatique détenu par les occidentaux depuis l’invention de la communication moderne. Pour la première fois dans l’histoire, le monopole du récit médiatique longtemps la propriété exclusive des pays occidentaux est battu en brèche par les pays du sud.
La chaîne transfrontalière arabe Al-Jazira, leader incontesté de l’information dans la sphère arabo-musulmane, a accentué sa suprématie avec le lancement en novembre 2006 d’une chaîne anglophone dans l’espace anglo-saxon, en vue de se placer à l’égal des grandes chaînes occidentales. Il en ressort de ce double constat que le monopole de la décision stratégique, récupéré depuis l’effondrement du bloc soviétique par le noyau atlantiste -la fameuse communauté internationale constituée essentiellement des Etats-Unis, de l’Union européenne et leurs alliés anglo-saxons Canada et Australie-, pourrait céder la place, dans un avenir prévisible, à un nouveau multilatéralisme ou encore à un « monde apolaire »
Des voix, de plus en plus nombreuses, s’élèvent pour aménager une meilleure représentativité des divers continents dans les forums internationaux, notamment le Conseil de sécurité de l’ONU où l’Alliance atlantique est représentée par trois sièges avec Droit de veto (Etats-Unis, France, Royaume Uni) , alors que l’Asie, qui représente la moitié de la population de la planète et trois puissances nucléaires (Chine, Inde, Pakistan), n’est représentée que par un seul siège et que le monde musulman, gros détenteurs de capitaux pétroliers, et l’Afrique, gros détenteurs de réserves de matières premières, de même que l’Amérique latine n’ont pas voix au chapitre
VIII- Le message subliminal des pays occidentaux au reste du Monde : Oui aux capitaux exotiques, non à l’immigration basanée
Ce changement s’est aussi accompagné, paradoxalement, de la multiplication des mesures restrictives à caractère protectionniste au sein des pays occidentaux en contradiction avec la philosophie de la Mondialisation. Il en est ainsi de l’édification d’un mur de séparation à la Frontière entre le Mexique et les Etats-Unis et du dispositif présenté par la France pour tarir l’immigration au sein de l’Union européenne (plan Hortefeux) et de la controverse à propos de la « sharia compliance ». Tout se passe comme si le message subliminal des pays occidentaux au reste du monde se résumait en cette formule : Oui aux capitaux exotiques, non à l’immigration basanée.
La Finance islamique est estimée à 750 milliards de dollars (473 milliards d’euros) et atteindrait mille milliards de dollars en 2010, selon les estimations de la Kuwait Finance House, la plus grande banque d’investissement dans les pays du Golfe (9). Le Center for Security Policy, organisme réputé de lobby international, a lancé une intense campagne visant à dissuader les institutions internationales de recourir à la législation islamique pour la gestion de ces fonds, pointant du doigt leur origine géographique, en clair la sphère musulmane. Le CSP avait mené une victorieuse campagne en faveur de Boeing contre Airbus dans le contrat visant à la fourniture à l’armée de l’air américaine des 179 avions ravitailleurs de nouvelle génération, un marché de 35 milliards de dollars.
Faisant droit aux revendications de Boeing soutenu par le Center For Security Policy, la Cour des comptes des Etats-Unis (GOP) a ainsi appuyé le 18 juin 2008 le recours de Boeing contre la désignation de Northrop Grumman et son partenaire européen EADS. La charge du Center for Security policy, qui amalgame sans doute volontairement, Finance islamique et Islam radical, constitue-t-elle un combat d’arrière-garde ou, au contraire, augure-t-elle d’une nouvelle croisade contre un nouvel axe du mal, financier celui là ? Certains commentateurs n’hésitent pas à comparer cette nouvelle bataille à la guerre froide culturelle menée par la CIA contre l’idéologie communiste à l’époque de la rivalité soviéto-américaine (1945-1990), et, en procédant à un amalgame entre Finance islamique et Islam radical, à récupérer les sommes faramineuses des fonds souverains tout en les gérant à l’américaine pour préserver un modèle économique et sociétal ainsi qu’un savoir-faire financier conforme au schéma américain.
Le Center for Security Policy fait partie de la kyrielle d’organisations gravitant autour de l’AIPACC, la principale formation du lobby juif aux Etats-Unis. Proche du Likoud, droite israélienne, il participe d’une trilogie qui a propulsé la thématique du péril islamique dans le discours officiel politique et médiatique américain comme substitut au « péril rouge » à la suite de l’effondrement du bloc communiste. Les deux autres formations sont le WINEP (Washington Institute For Near Policy) et le JINSA (Jewish Intitute For National Security). Vingt deux membres de ses formations font partie des cercles dirigeants de l’administration Buh jr : Richard Cheney, vice-président, John Bolton, ancien ambassadeur à l’ONU, et Douglas Feith, ancien sous secrétaire à la défense, pour JINSA, Paul Wolfowitz, Président de la Banque Mondiale, Richard Perle, ancien sous secrétaire à la défense pour WINEP, l’influente organisation présidée par Martin Indyk, américano-australien, ancien ambassadeur des Etats-Unis en Israël (10).
Relayant leurs thèses, l’ancien secrétaire d’Etat Henry Kissinger a préconisé la constitution d’un cartel des pays industrialisés face aux pays producteurs de pétrole afin de juguler la hausse des prix du brut… comme si le G7 n’avait pas la maîtrise des principaux rouages de l’économie mondiale. Jugée malvenue au moment où la faillite bancaire américaine avait atteint un seuil excédant la totalité de la dette publique des cinquante pays d’Afrique, la déclaration Kissinger, rapportée par le Herald Tribune le 20 septembre dernier, a suscité un véritable tollé au sein des pays du tiers monde particulièrement agacés par le rôle prescripteur que s’arrogent les Etats-Unis dans leur prétention à régenter le Monde et à le sinistrer du fait de la cupidité de leurs opérateurs financiers et l’égotisme de leurs politologues.
Survenant dans la foulée de la mise en route du processus de neutralisation à distance de la balistique iranienne avec la signature du pacte de déploiement de missiles intercepteurs en Pologne, en Tchéquie et en Israël à la faveur du conflit de Géorgie, en Août 2008, la déclaration Kissinger a placé le Golfe arabo-persique sous vive tension et les alliés américains de la zone sur la défensive. Les pétromonarchies qui ont volé au secours de l’économie américaine dans un premier temps, ont depuis lors reconsidéré leur position percevant l’appel à la constitution d’un cartel anti-OPEP comme une forme de chantage déguisé, privilégiant désormais, en une sorte de réplique oblique, les placements sur les marchés asiatiques.
Le coût réel de la crise immobilière 2007-2008 dans toutes ses segmentations (banque, assurance et immobilier, industrie) et connexions géographiques (Europe, Asie, Amérique) est estimé à mille cinq cent milliards de dollars (1.500) que l’administration néo conservatrice américaine s’est appliquée à juguler à la fin du mandat de George Bush afin que le désastre économique de son hyper libéralisme ne grève un bilan militaire affligeant, faisant de George Bush le pire président des Etats-Unis de l’histoire contemporaine.
Nullement découragé par une première rebuffade qui augure mal de sa place dans l’histoire, George Bush Jr s’est en effet employé à injecter, début octobre, à un mois de la fin de son mandat, 700 milliards de dollars (500 milliards d’euros), pour le rachat des titres problématiques, un plan qui s’ajoute au renflouement des entreprises défaillantes, précédemment décidés (200 milliards de dollars pour les géants du prêt immobilier Fannie Mae et Freddie Mac et 85 milliards pour le colosse de l’assurance AIG). Près de mille milliards de dollars devront au total sortir de la poche du contribuable américain pour éponger les mauvaises dettes des institutions financière dans ce qui apparaît comme étant la plus grosse intervention gouvernementale depuis la Grande Dépression des années 1930.
Le sauvetage des établissements de crédit, au mépris des règles de l’orthodoxie libérale, justifiée certes par l’état de l’économie américaine, constitue une trahison de la doctrine Bush, à proprement parler un reniement qui retentit comme un camouflet. Mais la plus grande crise économique de l’époque contemporaine a confirmé, par là même, l’hypocrisie du dogme de la libre entreprise, qui se révèle être, en fin de compte, un principe sélectif et élitiste de l’interventionnisme de l’état visant exclusivement à « privatiser les gains et à socialiser les pertes », c’est-à-dire à faire supporter les pertes des spéculateurs capitalistes par la collectivité nationale des contribuables.
Il n’est pas indifférent de noter à ce propos le comportement contradictoire de Nicolas Sarkozy, un boulimique de la réglementation à tout crin qui se révèle être d’une étonnante pudeur face à la pratique des « parachutes dorés », préférant confier au MEDEF, le soin de réglementer la pratique de « super bonus » que la corporation du patronat français s’octroie à elle même. Au lecteur de prolonger sa réflexion sur ce point par de salutaires méditations sur les fondements moraux du corpus doctrinal des principes universels qui gouvernent le monde sous le leadership occidental depuis des siècles.
Quoiqu’il en soit, le constat est irréfutable : l’injection massive des capitaux de renflouage en provenance des états concurrents et non amis des économies occidentales (Chine, Inde et Japon pour l’Asie ainsi que la Russie et le Moyen-orient) aura marqué « peut être le début de la fin de l’empire américain », selon le constat dressé par Nouriel Roubini, professeur d’économie à l’Université de New York (11) et, à défaut d’une « guerre décisive », c’est-à-dire une guerre qui modifierait radicalement la donne à l’exemple de la défaite napoléonienne de Waterloo (1815) ou de la vitrification nucléaire de Hiroshima et Nagasaki (Japon, Août 1945), selon la définition de l’inventeur de ce concept, le théoricien de la stratégie moderne, Carl Von Clausewitz, les avatars militaires des Etats-Unis en Afghanistan et en Irak et la faillite du néo-capitalisme de l’ère post-soviétique signent, en toute hypothèse, la fin de cinq siècles de domination absolue de l’Occident sur le reste de la planète.
Références :
1- Selon le Pentagone, 527 milliards de dollars ont été alloués, de septembre 2001 à fin décembre 2007, à la “guerre contre le terrorisme”, dont 406 milliards à la guerre en Irak. D’après un rapport du Bureau du budget du Congrès publié en octobre 2007, auquel se réfère le journal Le Monde en date du 18 juin, le Congrès a déjà autorisé. 602 milliards de dollars de dépenses pour les opérations militaires en Irak et en Afghanistan, dont 70 % pour l’Irak seul. Le budget américain consacré à la défense représente environ 4,2 % du PIB (cf Le journal le Monde en date du 18 juin 2008)
2-cf« Non aux scénarios catastrophes » in Le Monde du 21 Mars 2008 par Eric le Boucher et Le Monde du 8 avril 2008.
3-Rapport sur l’investissement dans le Monde 2007 de la Conférence des Nations-Unies sur le commerce et le développement (CNUCED), cf supplément Le Monde Economie, dossier matières premières 16 septembre 2008
4- cf « La République Démocratique du Congo tente d’empêcher le pillage de ses ressources : Manœuvres spéculatives dans un Katanga en pleine reconstruction », Colette Braeckmann in « Le Monde diplomatique » juillet 2008 ainsi que l’étude de Raf Custers, chercheur à l’International Peace Information Service (IPIS) d’Anvers-Belgique, « l’Afrique révise ses contrats miniers » paru dans le même périodique français à la même date.
5- Les principaux fonds d’investissements souverains, selon le classement établi par la Deutsche Bank en septembre 2007 1 - EMIRATS ARABES UNIS : Abu Dhabi Investment Authority (ADIA), 875 milliards de dollars (594 milliards de dollars d’euros), créé en 1976. 2 - SINGAPOUR : Government of Singapore Investment Corporation (GIC), 330 milliards de dollars, a été créé en 1981. 3 - NORVÈGE : Government Pension Fund Global (GPFG), 322 milliards de dollars, créé en 1990. 4 - ARABIE SAOUDITE:divers fonds, pour 300 milliards de dollars. 5 - KOWEIT : Kuwait Investment Authority (KIA), 250 milliards de dollars, créé en 1953. 6 - CHINE : China Investment Company Ltd (CIC), 200 milliards de dollars, créé en 2007. Autres fonds souverains, (capitaux sous mandat en milliards de dollars) Russie (141), Qatar (50), Australie (49), Algérie (43) Etats-Unis (40), Brunei (30), Corée du Sud (20), Kazakhstan (19), Malaisie (18), Venezuela (16) … pour un montant total de 2.123 milliards de dollars
6) cf Libération 16 juin 2008 « Le français Cegelec pourrait tomber dans le giron du Qatar » par CATHERINE MAUSSION : Cegelec compte 26 000 salariés, présents dans une trentaine de pays, et affiche 3 milliards d’euros de chiffres d’affaires, soit juste un petit milliard de moins que la médiatique Alcatel, son ancienne maison mère. Née en 1913 et baptisée de son patronyme actuel en 1989, acquise par Alcatel puis par Alsthom (1998), il sera cédé en 2001, à deux fonds : CDC Entreprises, filiale de la Caisse des dépôts et le britannique Charterhouse. Le montant de la transaction Qatar-Cegelec tourne autour de 1,6 milliards de dollars.
7)- cf le Monde 14 juin 2006 : Le nouveau recyclage des pétrodollars par Eric le Boucher
8)-Le gouvernement français a décidé d’acheter 9% du capital des chantiers Aker Yards de Saint-Nazaire, plus connus sous leur nom d’origine des Chantiers de l’Atlantique, dans le but de constituer « une minorité de blocage », en commun avec Alsthom qui possède lui, 25% de Aker Yards France. L’objectif est double : éviter une délocalisation de l’unique joyau dans la construction navale française et empêcher que le groupe coréen, STX, qui contrôle 40% de la maison mère norvégienne Aker Yards, ne vienne dépecer les chantiers français et délocaliser la charge de travail vers l’Asie. L’opération a été annoncée par un communiqué de l’Elysée sans aviser la direction d’Aker Yards en Norvège. Comme si traiter avec un actionnaire qui n’a que 40% du capital dispensait de négocier avec le patron opérationnel. Cf à ce propos « la participation de l’Etat Sarkozy, chef de chantier…naval Par Hervé Nathan, rédacteur en chef de Marianne 2 -16 juin 2008.
9- « Le Halal en quête d’une norme industrielle », par Carla Power, Cf Courrier International N°925 du 24 au 31 juillet 2008
10- « Des avocats influents pour la cause d’Israël », par Joel Beinin, politologue américain, cf le supplément bimestriel du Monde diplomatique « Manière de Voir » N° 101 « Demain l’Amérique » –Octobre Novembre 2008
11-« Nouriel Roubini, l’économiste qui a prévu la crise » de Stephen Mihn (New York Times) repris dans Le Courrier International N° 933- 14-24septembre 2008
Source : renenaba.blog.fr
00:35 Publié dans Economie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : géo-économie, géopolitique, banques, finances, globalisation, impérialisme, néo-impérialisme | | del.icio.us | | Digg | Facebook