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mardi, 23 novembre 2010

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet

La storia documentata di questo popolo risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente

Gianluca Padovan

Ex: http://www.rinascita.eu/ 

Tibet.jpgIn questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.


Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa, avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero, abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al paleolitico superiore e al neolitico.


La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni, nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.


Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione: “Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria, terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2


L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3


Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi. La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione, nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte, recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari insieme ai loro beni e al loro seguito».4


Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo Tibetano”.5

 
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet, nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche, religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi; quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana. Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6

 
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi, tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere danneggiati”.8


Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.


18 Novembre 2010 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=4991

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