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vendredi, 03 décembre 2010

Il cuore di Mishima

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Il cuore di Mishima

di Marco Iacona

Ex: http://www.scandalizzareeundiritto.blogspot.com/ 

Yukio Mishima (ma è più corretto scrivere Mishima Yukio), è stato un personaggio – non solo persona, appunto, ma personaggio – capace di esprimere la grandezza e la pienezza del vivere in ogni gesto o frase e per tutti i momenti che hanno composto i quarantacinque anni della sua breve vita (l’ultima sua frase prima del suicidio: «la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.»). A quarant’anni esatti dalla morte (25 novembre 1970), lo ricordiamo come uno degli intellettuali, scrittori e uomini d’azione (personaggio, dunque, assolutamente novecentesco), capaci di dare un senso ben preciso al cosiddetto “secolo breve”.
 
 In Mishima c’è un pezzo – anche piccolo – di ogni personalità che ha arricchito gli anni del nostro passato. Lui è innanzitutto il D’Annunzio d’oriente (poeta, prosatore, acceso patriota, esteta, uomo dalla forte personalità che “confonde” vita ed epica), ma è anche un uomo pronto al sacrificio per il rispetto dei principi e politicamente non-etichettabile come Che Guevara; Mishima è un uomo destinato a suscitate scandalo ed essere, contemporaneamente, venerato dai propri sostenitori come Lawrence d’Arabia l’avventuriero, ma anche profondamente influenzato da una cultura che non è quella del proprio paese (il Giappone) come il grande Akira Kurosawa (e come lui non amatissimo in patria); infine un uomo segnato da un destino tragico e contraddistinto da un’esistenza inquieta come Drieu La Rochelle e Camus: un uomo nato e poi vissuto con un deficit di libertà (all’interno del Giappone crebbe peraltro con un’educazione molto rigida), ma che questa stessa ricercò dappertutto, nelle lettere, nei costumi e nell’amore per una patria sottoposta a rigide imposizioni di politica internazionale.
 
 Come tutti i (veri) grandi intellettuali del Novecento – viene in mente anche il nostro Pasolini – Mishima subisce l’influenza di “correnti” di pensiero opposte le une alle altre, c’è tanta modernità – nella forma di una “antichità riadattata” – ma tanta tradizione nelle sue prose che risulta davvero difficile produrre le giuste coordinate per un “pensiero” eternamente sfuggente. Conservatore anzi tradizionalista? Senz’altro, data la venerazione per il Giappone imperiale. Decadente? Anche, come decadenti furono gli scrittori che esibirono “moralità” proprie e chiusero un’epoca fra estetiche nietzscheane e pulsioni romantiche. Mishima è autore d’inarrivabile profondità e narratore schietto, senza censure “ideologiche” ai limiti della sfacciataggine, un Rimbaud dei nostri tempi.
 
Al momento del suicidio – con la cerimonia del seppuku – davanti alle televisioni, con migliaia di curiosi e in straordinario “fortuito” anticipo sulla scoperta del potere “condizionante” dei media, lui che parla con poetica delicatezza di omosessualità e frigidità citando Freud e Fromm, in Italia si litiga - molto più “banalmente” - sulla legge sul divorzio e si dibatte sui progetti per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina (!); lui bisessuale dichiarato anticipa gli “outing” di artisti e intellettuali del terzo Millennio, anticipa le preoccupazioni che un gesto compiuto davanti a milioni di spettatori possa influire sul comportamento di altrettanti concittadini e sulle elite del proprio paese, e anticipa il “gusto” per i riflettori accesi sulla cultura giapponese. La “morte in diretta” in Italia sarebbe arrivata “soltanto” undici anni dopo nel 1981 con le sofferenze di Alfredino Rampi all’interno di un pozzo poco lontano da Roma, la “mania” per il Giappone – un certo tipo di Giappone spesso però caricaturale – sarebbe arrivata grazie alla cultura di Manga e Anime dal 1978 in poi. Il cinema Giapponese invece era già noto in Italia dai primi anni Cinquanta, ma ben poca cosa forse.
 
In un’Italia bacchettona sfiorata appena dalle novità del Sessantotto (il Sessantotto che è anche quello del suicidio di Jan Palach però), un paese nel quale in pochi vanno oltre un americanismo da “buon padre di famiglia”, Mishima è un autore che dà fastidio. Nonostante le candidature al premio Nobel, alcuni quotidiani italiani non ne citano il nome quando danno la notizia del gesto estremo (nel titolo si parla solo di un celebre scrittore; la “Stampa” titola: “Uno scrittore di Tokio”…); a far notizia è il “fanatismo” dei protagonisti nonché la stranezza degli accadimenti. Punto. Molti cadono vittima della “cattiva” fama di Mishima compresa quella del “militarista”: lo scrittore ha fondato due anni prima un corpo paramilitare privato l’“associazione degli scudi” del quale è naturalmente il comandante, e peraltro ha deciso di morire con un gesto da “onesto” avanguardista, dando prova che il protestare contro la rinuncia del Giappone alle proprie tradizioni non è mera chiacchiera giornalistica (si ripassi il suo “Sole e acciaio” per capire meglio).
È il rigore mishimiano a dar fastidio ancora oggi a chi ritiene che il “disprezzo per la morte” degli uomini del Sol-levante sia solo il cattivo ricordo degli anni della seconda guerra mondiale. Ed è l’idea che la guerra, dopo venticinque anni (e con la capitolazione definitiva del Giappone), non sia definitivamente finita a “terrorizzare” gli osservatori, e con essa il doppio pensiero che l’«assoluta inefficienza delle forza armate giapponesi ad assicurare la difesa del paese» e «la vigente Costituzione imposta al Giappone dagli accordi di Yalta e Potsdam», sia un’intollerabile ferita per un paese dalle eccellenti tradizioni militari. Una “maledizione” che Mishima si porta addosso da decenni. La maledizione del “fascista”, militarista e ultranazionalista, la maledizione che colpisce chi decide di non rassegnarsi ai verdetti della seconda guerra mondiale: quanti nomi si potrebbero fare in proposito… Quella “malattia della politica” che Mishima ha cercato di scansare per decenni (si definiva un antipolitico), torna dunque nella vita dello scrittore sotto la forma di una condanna senza appello anche nel post-mortem. Lui si batte per il ritorno del Giappone allo “spirito tradizionale” - quello che fu dei samurai - e per il ripristino delle condizioni di difesa dell’Imperatore che incarna lo spirito della nazione (prima di morire Mishima urla: «Tenno Heika Bazan!» - Viva l’Imperatore!), ma per gli “osservatori” invece è solo un tipo “fascista”, un nazionalista come “tanti” negli anni caldi del ritorno alle contrapposizioni ideologiche. Se a ciò aggiungiamo l’amore mishimiano per la Grecia classica e il teatro tradizionale giapponese (passioni indigeste per chi è accecato dal sol dell’avvenire), la cura maniacale del corpo (dagli anni Cinquanta Mishima si dedica al culturismo e al Kendò e la sua immagine diventa icona della bellezza fisica maschile), e l’importanza data ai valori dello stile, del gusto e dell’azione non è arduo pensare che il destino dell’autore di “Neve di primavera” fosse rigidamente scritto fin dai primi anni.
 
Come Céline, come Pound come altri (compreso il nostro D’Annunzio), l’approccio a Mishima è ancora oggi schizofrenico... Fascista illeggibile per qualche “anima bella”, ma in realtà scrittore amatissimo dalle donne e dagli uomini in egual misura (e ciò lo rende ancora una volta unico), e dalle capacità narrative paragonabili a quelle di un Dostoevskij (edito peraltro in Italia anche da Feltrinelli). Il rapporto – letterario – fra Mishima  e le donne è un capitolo a se stante della biografia dello scrittore tokyoto; anche nei suoi lavori meno recenti o più commerciali come “Musica” o la “Leonessa” la donna assume un ruolo da protagonista sconosciuto a gran parte della letteratura moderna. Donna non come “parte” di un universo maschile ma come protagonista “alla pari” soprattutto nei rapporti d’amore. Eccola la “cifra mishimiana”: l’andare oltre lo schema occidentale – capitalistico-borghese – che tipicizza il rapporto maschio/femmina per aprire nuovi capitoli attraverso l’analisi delle proprie tradizioni, attraverso la fitta indagine psicologica. Dopotutto, anche questo è l’autore che seppe riversare in autentici capolavori - e quasi da subito - come “Confessioni di una maschera” il proprio disagio esistenziale per la cosiddetta normalità; si trovasse al di “dentro”, nel suo animo, o al di “fuori” dell’essere umano, cioè nella società.
 
È quasi scontato in cauda ricordare che fra i suoi ammiratori ci fosse Marguerite Yourcenar capace di percepirne, così come fece per Julius Evola, una cifra “trascendente”, un quid  di eccezionalità. Ancora oggi però c’è l'intellettuale sconosciuto a chi ha gli occhi bendati dal pregiudizio... Caduti i muri, i veti e le censure, siamo sicuri cadrà anche la barriera che impedisce di entrare nell’universo di Yukio Mishima, nell’universo delle "confessioni" di chi strappò al secondo Novecento la grigia maschera del conformismo.
Maia

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