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dimanche, 30 octobre 2011

Dittatura dell'economia e società mercantilistica

Stefano Vaj

Dittatura dell'economia e società mercantilistica

 

Predominio della sotto funzione mercantile – Determinismo economico - Lo spirito di calcolo - La priorità del benessere economico individuale - La decadenza dello Stato

 

3-hanson.jpgLa società in cui viviamo la nostra esistenza conosce oggi come carattere qualificante quella situazione di unidimensionalità che si è convenuto chiamare “dittatura dell'economia” e che può essere ricondotta all'ipertrofia patologica di una funzione sociale nel quadro di un predominio culturale degli ideali bor­ghesi. Caratteristica a sua volta distintiva di questa ipertrofia nell'insieme dei suoi effetti secondari, è la tendenza a fagocitare successivamente le varie espressioni della realtà umana. Nietzsche scriveva già, in una pagina di Aurora: “La nostra epoca che parla molto di economia è ben soffocante; essa soffoca lo spirito”.

Non è nuovo del resto come le classi politiche di tutte le nazioni europee pongano oggi al centro del proprio interessamento il problema dei consumi, in vista della creazione di un'immensa classe media ipergarantita comprendente tutta la popolazione ed unificata dal livello di vita. La cultura, in questo mo­dello sociale, deve necessariamente spogliarsi di quei caratteri che possono ostacolarne la distribuzione consumistica generalizzata, mentre la politica viene ridotta alla gestione. È superfluo sottolineare il carattere estraneo all'autentica civiltà europea di questa centralità del fatto economico nella sfera sociale.

Le tre funzioni sociali millenarie delle culture indoeuropee, funzione politi­co-sacrale, funzione guerriera, funzione produttiva, presupponevano infatti un ordinamento gerarchico tra le stesse; ordinamento che in particolare compor­tava un predominio dei valori inerenti alle prime due funzioni. Ora, non sol­tanto la funzione produttiva si trova oggi dominata da una delle sue sottofun­zioni, l'economia, ma quest'ultima è ancora a sua volta dominata dalla sua sot­tofunzione mercantile. Così che tutto l'organismo sociale è patologicamente sottomesso ai valori espressi dalla funzione mercantile.

Il liberalismo, storicamente, non ha altro significato che l'aver gettato le basi teoriche per questa usurpazione della sovranità da parte del dato economi­co. Ideologicamente esso si configura, similmente al marxismo stesso, come uno degli svariati riduzionismi contemporanei. Gli uomini all'interno della specula­zione neoliberale moderna non possono essere compresi, se non ridotti a fattori astratti che intervengono su un mercato: clienti, consumatori, unità di mano d'opera, ecc...

Le specificità culturali, etniche, politiche, umane, tutto ciò che si oppone all'intercambiabilità, costituiscono altrettante “anomalie provvisorie” in vista del progetto da realizzare: il mercato mondiale, senza frontiere, senza razze, senza singolarità. Quello che Julius Evola chiamava americanismo, la fine della storia in una visione commerciale planetaria, costituisce probabilmente oggi la principale minaccia, in quanto questa utopia è ancora più estremista di quella dell'egualitarismo “comunista”, e più realizzabile perché più pragmatica. Si può dire sotto questo aspetto che la società americana è più democratica di quanto l'Unione Sovietica non sia comunista, e che questo democratismo mon­dialista, nella sua versione europea, costituisce per noi veramente l'ultimo fla­gello.

La nostra quindi è la “società dei mercanti”, ma non bisogna pensare che sia particolarmente basata sullo scambio ed il commercio. Quando noi parliamo oggi di “società dei mercanti” ci riferiamo non solo e non tanto a strutture socio-economiche, ma a una mentalità collettiva , un insieme di valori che carat­terizza oltre all'economica tutte le altre istituzioni. I valori del “mercante”, utili ed indispensabili al suo solo livello, determinano il comportamento di tutte le sfere sociali e dello Stato stesso.

Non intendiamo con questo lanciare anatemi contro il denaro ed il profitto e non siamo certo moralizzatori in preda all'odio per l'economia, o fautori di un nuovo riduzionismo opposto pregiudizialmente alla funzione mercantile in quanto tale.

Noi sosteniamo semplicemente che i valori e la funzione economica sono da accettarsi, ma in quanto subordinati ad altri valori; e significativo è anche come il privilegiare sistematicamente l'economia ed il benessere individuale porti a breve termine, oltre che all'instaurazione di un sistema inumano ed alla deculturalizzazione dei popoli, persino ad una cattiva gestione economica.

“società dei mercanti” significa quindi società dove i valori non sono che mercantilistici. A scopo di chiarezza possiamo, con Guillaume Faye, Segretario del Dipartimento Studi e Ricerche del G.R.E.C.E., classificare schematica­mente in tre grandi partizioni i principi che di questi valori si fanno ispiratori: la mentalità determinista, lo spirito di calcolo, la sistematica priorità del benessere economico individuale.

La mentalità determinista è utile solo in campo economico, in quanto serve a massimizzare gli utili con l'agganciare la propria attività, come variabile di­pendente, ad alcune regole e funzioni: curve dei prezzi, leggi di mercato, con­giunture, andamento monetario, ecc... Ma, adottata dall'insieme complesso di una società tende inevitabilmente a diventare un alibi per non agire, per non rischiare. Quando l'insieme dell'economia nazionale e, ancora peggio il potere politico, si sottomettono e si lasciano condurre da sistemi teorici deterministici costruiti all'uopo, rinunciando ad osare e a ricercare soluzioni creativamente, la società si “gestisce” solo a breve termine, e resta irrimediabilmente sotto l'e­gemonia di previsioni economiche pseudoscientifiche ritenute ineluttabili (la mondializzazione della concorrenza internazionale, l'industrializzazione pro­gressiva del terzo mondo, la necessaria evoluzione verso la “crescita zero”, ecc). Tutto ciò mentre paradossalmente non si tiene conto delle più elementari tra le evoluzioni politiche a medio termine: per esempio l'oligopolio dei deten­tori del petrolio.

Le nazioni mercantilistiche rinunciano così alla loro libertà politica e le gestioni liberali degli stati non sanno andare che nel senso di ciò che esse cre­dono essere meccanicamente determinato, in quanto razionalmente formulato, dimenticando che alla fine è l'uomo a stabilire le regole del gioco. Nel secolo della prospettiva, della previsione statistica e informatica, ci si lascia andare all'immediato e si è più ciechi dei monarchi dei secoli passati. Si procede come se le evoluzioni sociali, demografiche, geopolitiche non avessero alcun effetto. Così la società mercantilistica, sottomessa alle evoluzioni ed alle volontà esterne, per il fatto di credere al determinismo storico, rende i popoli europei oggetti della storia .

 

Un'altra chiave interpretativa della mentalità mercantilistica è lo spirito di calcolo, anch'esso adatto alla funzione mercantile ma inapplicabile alla totalità dei comportamenti collettivi. Lo spirito di calcolo non afferma, come potrebbe sembrare, che il denaro è diventato la norma generale, ma più semplicemente che ciò che non si può misurare non “conta”più, ha solo una “realtà” par­ziale. Egemonia quindi del quantificabile sul qualificabile, sostituzione sistema­tica del meccanico all'organico che applicano a tutto l'unica griglia del costo economico teorico. Si pretende di “calcolare”tutto: si programmano le ore di lavoro, il tempo libero, i salari, la frequenza dei rapporti sessuali, i consumi, la produzione artistica. In infortunistica si calcola persino un preciso “costo della vita umana”, legato alla produttività ipotetica unitaria media lungo l'arco della esistenza personale.

Ma tutto ciò che sfugge al calcolo dei costi, ovvero a nostro avviso le cose più importanti, è trascurato. Gli aspetti non quantificabili economicamente della vita umana e dei fatti socioculturali, come le conseguenze sociali dello sradicamento dovuto ai movimenti migratori, diventano indecifrabili e vengono quindi ritenuti insignificanti. L'individuo “calcola” la propria esistenza ma, perdendo di vista le sue radici, non ha più il senso della propria identità. Gli stati non prendono in considerazione che gli aspetti “calcolabili” della loro azione. Una regione muore di anemia culturale? Che importa, se per il turismo di massa il suo tasso di crescita è positivo.

Questa superficialità appartiene principalmente a quella “gestione tecno­cratica”, che costituisce la grottesca caricatura mercantilistica della funzione sovrana, e che tende ad assimilare le nazioni a grandi società anonime (vera definizione delle società per azioni) di cui i governi costituiscono il consiglio di amministrazione. In questa ottica, ogni politica estera che non ha lo scopo di procurare sbocchi commerciali immediati, ad esempio la difesa, non ha senso. Persino l'economia vi si trova danneggiata in quanto questo mercantilismo a breve termine non è certo in grado di sostituire una vera politica economica.

Terzo aspetto infine della società mercantilistica è, come dicevamo, la prio­rità sistematica del benessere economico individuale che ingenera direttamente un “ deperimento politico dello stato” attraverso la sua trasformazione in stato-­provvidenza, stato dolcemente tirranico. Arnold Gehlen, definisce la “dittatura del benessere individuale” come la situazione in cui l'individuo, costretto a entrare nel sistema provvidenzialista dello stato, vede la sua personalità disinte­grarsi nell'accerchiamento consumistico, in cui perde ogni padronanza del pro­prio destino. Il neoliberalismo opera così un doppio riduzionismo: da una parte lo stato e la società non sono ritenuti dover rispondere ad altro che ai bisogni economici della gente; d'altro lato questi sono ricondotti esclusivamente al “tenore di vita” individuale - cosa peraltro già molto diversa dal concetto di “qualità della vita”. E da qui discende anche la preminenza, in seno alla fun­zione economica stessa del “sociale” e del “consumistico” sulla produzione e sull'innovazione creatrice.

In questo quadro emerge chiaramente quindi come, per un liberale, la sola ineguaglianza tra i popoli e tra gli uomini è la differenza circa il potere di ac­quisto: per cui sarà sufficiente, per raggiungere l'“égalité”, diffondere nel mondo l'idea mercantilistica. Ed ecco riconciliarsi l'umanitarismo universalista e gli “affari”, la giustizia e gli interessi, “Bible and business”, secondo una frequente espressione di Jimmy Carter. Il fatto che i particolarismi culturali, etnici, linguistici siano degli ostacoli per questo tipo di società spiega il motivo per cui l'ideologia moralizzatrice dei liberalismi politici spinga all'internaziona­lismo, alla mescolanza dei popoli e delle culture, all'integrazione razziale ed alle diverse forme di centralismo antiregionalista.

La società mercantilistica ed il modello americano minacciano dunque tutte le culture della terra. In Europa ed in Giappone la cultura è stata ridotta ap­punto a un way of life , che è l'esatto opposto di uno stile di vita. La personalità dell'uomo è “cosificata”, ovvero assorbita dai beni economici posseduti, che soli strutturano la sua individualità; si cambia di “personaggio” quando cam­bia la moda e non si è più caratterizzati né dalle origini (commercializzate nel folklore ) né dalle opere, ma solo dal consumo. Nel sistema contemporaneo i tipi dominanti sono il consumatore, l'assicurato, l'assistito, neppure il produttore o l'imprenditore, giacché il mercantilismo diffonde un tipo di valori per cui ven­dere e consumare appare più importante che produrre. E non vi è niente di più livellatore che la funzione del consumo: il produttore, o l'imprenditore, si dif­ferenzia per le sue azioni, mette in gioco delle capacità personali; il consumo invece è l'attività passiva , la non attività per eccellenza, a cui tutti possono in­differentemente accedere.

Ma un'economia di consumo non può alla fine che risultare inumana per­ché l'uomo è un essere attivo, un costruttore. Fanno in questo senso sorridere amaramente le accuse di sapore biblico di certa sinistra culturale sull'essere e l'avere, sulla “maledizione del danaro” e sulla “volontà di potenza” della civiltà europea. La società contemporanea, pur conservando a tratti una vitali cancerogena e decadente, per noi solo preoccupante, non afferma assoluta­mente nessuna volontà, né a livello di destino globale, come neppure sul mero piano di una vera strategia economica.

Stefano Vaj

 

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