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samedi, 11 mai 2013

Le guerre per l’acqua in Africa

Le guerre per l’acqua in Africa

Secondo un rapporto di Archivio Disarmo, nel continente nero il rischio di “idroconflitti” è particolarmente “grave”

Francesca Dessì

L’acqua è la fonte della vita. Come la maggior parte delle risorse naturali, è oggetto del contendere e alimenta dissapori e ostilità. È soprannominata, non a caso, “l’oro blu”. Per lei sono state combattute tante guerre e ce ne saranno altre nel prossimo futuro. È quanto emerge in un rapporto intitolato “I conflitti per l’acqua. Le aree e i caratteri più significativi dei conflitti per l’acqua in Africa”, pubblicato ieri dall’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo. Nel continente nero, il rischio di “idroconflitti”, si legge nel documento, “è particolarmente grave, dato che ogni Paese africano condivide almeno un fiume e quindici Stati ne condividono cinque o più determinando un contesto geopolitico nel quale risulta inevitabile la presenza di attriti. (…)Se più Paesi fanno riferimento alla stessa fonte idrica, l'uso condiviso di questa risorsa può generare competizione e discordia”. L’esempio più eclatante è il Nilo, che bagna l’Egitto, il Sudan, il Sud Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea, il Kenya, l’Uganda, la Tanzania, il Ruanda, il Burundi e la Repubblica democratica del Congo. La gestione comune dell’acqua e l’interdipendenza idrologica delle nazioni e dei popoli si ripercuotono “oltre confine”. Il rapporto fa alcuni esempi: “La ritenzione d’acqua a monte dei fiumi limita i flussi a valle, l’inquinamento può essere trasportato in altri Paesi e la presenza di dighe, oltre a impedire il flusso naturale dell’acqua, può causare il deposito di limo nei bacini idrici artificiali, impedendo che questo prezioso fertilizzante naturale raggiunga le pianure a valle”.


Pertanto, si legge sempre nel documento, “la divergenza di potere economico e politico degli Stati che condividono lo stesso bacino genera relazioni asimmetriche nelle quali tendono a prelevare gli interessi dei Paesi più forti ( vedi l’Egitto, ndr) che si riflettono nella scelta delle modalità di uso della risorsa e di disciplina dei conflitti”.


In Africa c’è poi il problema dei cicli di siccità che si tramutano in stragi di carestie. Come si evince dallo studio di Archivio Disarmo “la carenza d’acqua è un problema della vita di tutti i giorni per gran parte della popolazione. In molti Paesi, vista la scarsità delle risorse idriche, l’irrigazione agricola dipende esclusivamente dalle condizioni climatiche”.


Secondo un rapporto pubblicato venerdì scorso dalla Fao, la carestia ha ucciso 260mila persone in Somalia tra il 2010 e il 2012. Circa la metà era costituita da bambini sotto i cinque anni. Dati allarmanti che non tengono conto dell’intera regione del Corno d’Africa, colpita da una delle più drammatiche crisi di siccità degli ultimi vent’anni, e di quella del Sahel.
“Con la domanda crescente e una storia di cattiva gestione delle risorse di molti governi africani” precisa il rapporto di Archivio Disarmo “i conflitti sembrano quasi inevitabili, alimentati, oltre che dalla ineguale distribuzione delle risorse idriche tra i Paesi, anche, a livello locale, dalla privatizzazione delle risorse idriche, dall’inquinamento massiccio delle falde acquifere dovuto allo sfruttamento del suolo da parte delle multinazionali del petrolio e dal rancore delle molte persone sfollate a causa delle dighe lungo i fiumi”. È il caso del Delta del Niger, la regione meridionale della Nigeria, dove le fuoriuscite di petrolio dagli oleodotti e la pratica di “gas flaring” (un processo in cui il gas che fuoriesce dai giacimenti viene bruciato a cielo aperto) hanno devastato l’ecosistema fluviale, distrutto la pesca e reso imbevibile l’acqua. Per quanto riguarda le dighe, l’esempio più lampante è quella dell’Etiopia, dove il governo di Addisd Abeba sta sfrattando migliaia di indigeni dalle loro terre nella valle dell’Omo per la costruzione della mega-diga, che si chiama Gilgel Gibe III, e per la vendita delle terre fertili alle multinazionali.

Secondo lo studio di Archivio Disarmo, i conflitti possono essere generati “anche per l’utilizzo della falde freatiche, che contengono oltre il 90% dell’acqua dolce allo stato liquido a livello mondiale, quando queste si snodano sotto dei confini statali. Queste riserve oggi sono oggetto di uno sfruttamento sempre più intenso nelle zone aride del mondo”. Si fa l’esempio, nel rapporto, del più grande sistema acquifero detto “Arenaria nubiana” che attraversa un’area di oltre due milioni di chilometri quadrati compresi tra Ciad, Egitto, Libia e Sudan. “Esso contiene grandi quantità di acque sotterranee dolci non rinnovabili perché risalenti a migliaia di anni fa durante climi molto più umidi”.


“I principali conflitti e le contese per l'acqua in Africa - prosegue lo studio - hanno inevitabilmente luogo nelle aree dei bacini dei principali fiumi del continente. (…) Di solito al primo stadio della disputa uno dei Paesi beneficiari delle fonti idriche comuni intraprende un’azione unilaterale di sfruttamento con progetti che intervengono sui corsi d'acqua: ciò causa la protesta degli altri Paesi che vedono intaccate le loro risorse idriche e possono far seguire vere e proprie condizioni di ostilità, mentre nell’ultima fase i Paesi in conflitto riprendono i contatti diplomatici e si sforzano di trovare lente e complesse risoluzioni”.
L’esempio più naturale è forse quello del Nilo. Uno dei fiumi più lunghi al mondo ( al secondo posto, dopo il Rio delle Amazzoni), che ha dato la vita all’Egitto con le sue piene periodiche. Eppure il Nilo nasce in Sudan, dall’unione delle acque del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco, che a loro volta nascono rispettivamente dal Lago Tana in Etiopia e dal Lago Vittoria, le cui acque attraversano i confini di Kenya, Uganda, Tanzania. Ognuno di questi Paesi ha il diritto sovrano di poter gestire le acque del fiume, costruendo dighe o altri progetti. Ma non sulla carta, in quanto violerebbero gli accordi internazionali sulle acque del Nilo, del tutto favorevoli all’Egitto.


Il primo accordo sulle acque del Nilo è stato firmato nel 1929 da Egitto e Gran Bretagna, che agiva in nome delle sue colonie dell’Africa orientale. È poi stato in parte rinegoziato nel 1959, poco prima dell’inizio dei lavori per la grande diga di Assuan, da Egitto e Sudan ormai indipendenti, dando ai due Stati rispettivamente 55,5 e 18,5 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno. Ma tutti gli altri Paesi non hanno partecipato alla spartizione. E ormai da anni chiedono, in particolare Tanzania e Etiopia, di poter riaprire la partita negoziale per stabilire delle quote più eque di utilizzo delle acque.
 


07 Maggio 2013 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=20724

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