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samedi, 29 octobre 2011

Note sul potere culturale e sul gramscismo

 

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Stefano Vaj

Note sul potere culturale e sul gramscismo

Le radici di un dibattito Augustin Cochin, Antonio Gramsci e le cause delle rivoluzioni La struttura del potere culturale nella società.

Le radici di un dibattito

Negli ultimi tempi ha ripreso vigore in Europa il dibattito sui nuovi modi di fare politica. Due sono a nostro avviso i fattori che stimolano oggi questo dibattito. Da un lato il definitivo fallimento dei grandi progetti del dopoguerra di trasformazione della società e delle loro espressioni parlamentari e armate: in occidente le opposizioni pare vadano oggi al potere solo quando sono ormai indistinguibili dalle forze di governo e completamente recuperate alla difesa dei regimi politici vigenti. Dall'altro la realtà sempre più vistosa dello svuotamento della politica, come è comunemente intesa, svuotamento non solo in termine di reale potere decisionale, ma addirittura in termini di incidenza sociale.

Rimandando ad una prossima occasione un'analisi globale dei due fenomeni, delle loro cause e delle loro conseguenze sul piano strategico nei confronti di clii si situa al di fuori del sistema oggi dominante, va notato subito come essi abbiano contribuito a rilanciare il tema del cosiddetto « potere culturale », che si presenta oggi come assolutamente centrale nella politologia più avanzata.

Il prendere coscienza dell'importanza di questo argomento e una sua minimrivisitazione in termini storici e analitici risultano del resto preliminari indispensabili all'articolazione del discorso sulla politica — sia in termini scientifici che di progetto — che si andrà sempre più sviluppando dalle pagine della rivista.

Augustin Cochin, Antonio Gramsci e le cause delle rivoluzioni

Vale innanzitutto la pena di limitare il discorso al periodo politico moderno, quello cioè caratterizzato dal situarsi della politica sul piano dello scontro interno tra le ideologie nate dal mito egualitario e progressista. Ciò perché, allargare il discorso ad ogni epoca ed area culturale, lo renderebbe tanto generico da divenire insignificante. Ristretto in tal modo il campo, vanno citati, ad un primo livello, gli scrittori controrivoluzionari dell'ottocento francese. Lo shock creato dal crollo verticale di tutto un ordine costituito, shock ancora operante a distanza di decenni per autori sentimentalmente e dottrinariamente legati all'ancien régime ed alla ideologia della Restaurazione, spingeva di per sé alla ricerca dei sintomi, dei presupposti, dei meccanismi della grande ondata rivoluzionaria che aveva bruscamente posto termine al regno di Luigi XVI.

Sono poi autori come Tocqueville, Taine, e soprattutto Augustin Cochin ad approfondire questa linea di indagine, arrivando a disegnare a proposito della rivoluzione del 1789 un modello di analisi storica che è stato proprio negli ultimi anni grandemente rivalutato per finezza interpretativa e capacità di penetrazione. Cochin, morto a trentanove anni, volontario nella prima guerra mondiale, senza aver potuto completare la sua monumentale opera sulla rivoluzione francese, ha fatto comunque in tempo a rivelarsi il più grande storico circa idee rivoluzionarie e del percorso da esse compiuto nella società francese.

Nei suoi scritti non troviamo tanto una banale e scolastica constatazione del ruolo assunto dal movimento illuminista nell'elaborazione delle dottrine che poi incarnerà più o meno fedelmente lo stato rivoluzionario, quanto riscontriamo invece una puntuale e minuziosa ricostruzione del ruolo preciso, operante ed attivo assunto dal potere culturale illuminista — quindi dal libero-pensiero, dai club, dalle società di pensiero, dalle accademie, dalle logge — ‘ nella costruzione di un contropotere radicato nella società e in grado di sostituire le vecchie istituzioni. Ricostruzione comunque che non si fa per nulla precorritrice delle moderne teorie sulla « storia occulta », e che resta strettamente legata al dato obiettivo. Né vi erano in realtà per questi autori necessità particolari di immaginare complotti o di sconfinare nel campo dell'illazione, dal momento che i fatti in questione erano ben noti anche al tempo in cui si svolgevano, così come le società segrete erano ben poco segrete e circa le idee rivoluzionarie si discuteva pubblicamente nelle università e nei salotti, essendo il regime politico assai poco in grado, per il suo ritardo storico, di reagire efficacemente alle une ed alle altre.

La rivoluzione francese perde in quest'ottica il suo carattere apparente di fulmine a ciel sereno, di esplosione maturata in pochi anni o in pochi mesi e acquista l'aspetto di un evento preparato, reso possibile e attuato da una strategia di conquista della società che, senz'altro inconsapevole del suo sbocco e probabilmente incosciente ed implicita in larga parte, arrivò a far crollare un regime monarchico-nobiliare sclerotizzato e chiuso alla circolazione delle élites, largamente infiltrato e in preda alla cattiva coscienza, nonché ormai completamente isolato dalla base sociale. Il che venne reso realizzabile dalla possibilità che questa strategia aprì di rimettere in discussione lo stesso principio di legittimazione dell'ordine politico vigente, quindi, a termine, di sostituirlo.

Di fronte alla vittoria di un'altra rivoluzione, quella fascista in Italia, sarà tra gli altri un autore di orientamento e cultura molto diversi ad accostarsi ancora alla questione della meccanica rivoluzionaria: Antonio Gramsci. Soltanto che, mentre per quanto riguarda la rivoluzione francese l'analisi del ruolo assunto dal potere culturale veniva fatta meramente in base ad un interesse prima polemico, come negli ideologi della Restaurazione, poi essenzialmente storiografico, Gramsci, coerentemente con la sua formazione marxista, tenta di fare di questa analisi una teoria della prassi, con risultati indubbiamente interessanti e stimolanti. Scrittore abbastanza noioso, politico ingenuo e nel complesso fallito, Gramsci sembra sostenere la teoria della centralità degli intellettuali nel processo rivoluzionario quasi per ragioni di rivincita personale nei confronti degli altri dirigenti comunisti, e resta inoltre ampiamente dominato in tutta la sua produzione teorica da influenze relativamente contingenti. Ciò nonostante i suoi scritti sono abbastanza originali e spesso abita in essi una notevole lucidità.

In realtà l'artefice de L'Ordine nuovo comincia ad occuparsi seriamente del problema di cui trattiamo a partire dall'inizio della sua carcerazione, (una condanna a vent'anni di prigione irrogatagli nel periodo successivo allo scioglimento e alla forzata clandestinità del partito comunista). Limitato nella sua libertà di azione dalla detenzione, politicamente sempre più isolato anche nell'area marxista, Gramsci ha, nel periodo dall'imprigionamento alla morte, il tempo e il modo di tentare, nei Quaderni del carcere, una riflessione globale sulla travolgente affermazione della rivoluzione fascista e sulle ragioni della sconfitta socialista degli anni venti. Com'è possibile, si chiede l'autore, che la coscienza degli uomini si trovi in ritardo rispetto a ciò che la coscienza di classe dovrebbe loro dettare? A proposito della risposta che Gramsci si dà, va tenuto conto innanzitutto che nell'esperienza storica di allora rientrava ormai la rivoluzione russa e la pratica di movimenti totalitari come il futurismo ed il fascismo. Ciò rende sotto certi aspetti postmarxista la concezione gramsciana dei mutamenti sociopolitici e ne aumenta l'interesse.

Gramsci distingue la « società politica » (l'apparato dello stato e dei partiti) dalla « società civile » in senso hegeliano, cioè l'intero corpo sociale a prescindere dalle istituzioni e dagli apparati politici, « società civile » di cui invece fanno parte le istituzioni culturali. L'ideologia collettiva, fondamento del consenso sociale e della stabilità egemonica della società politica, si elabora nella società civile. Questa ideologia collettiva implicita, basata su valori ammessi dalla maggioranza dei consociati, costituisce il mezzo tramite il quale lo stato « organizza il consenso » — e comprende la cultura, i costumi, le idee, le tradizioni, la mentalità corrente. Lo stato per mantenersi durevolmente deve non soltanto conservare un potere coercitivo, ma altresì continuare a gestire un potere culturale diffuso e potente, secondo un modello che ha portato gli autori neomarxisti a formalizzare la distinzione tra « apparati repressivi » e « apparati ideologici » dello stato.

 

Ed è questo potere culturale a innervare e a formare al tempo stesso l'in­frastruttura reale, il fondamento su cui poggiano le società esistenti. Da qui l'essenzialità della sostituzione dell'«egemonia culturale proletaria » all'egemonia borghese, attraverso un lungo lavoro ideologico nella società civile.

 

Sostituiti i valori socialisti ai vecchi valori, attraverso un lavoro di metodica sovversione degli spiriti, i regimi politici perderanno la loro legittimazione e la loro forza reale situata a livello dell'arretratezza della coscienza popolare e saranno facile preda di un attacco diretto dalla forze rivoluzionarie. A condurre questa lotta vengono chiamati individui proletarizzati o spontaneamente espressi dal seno della classe operaia; intellettuali che sono definiti organici perché deputati ad omogeneizzare, a dare conoscenza di sé, a rappresentare le forze vive della produzione. Questa avanguardia legata al proletariato, prende così nella teoria il ruolo di soggetto della storia pur continuando ad essere soltanto l'espressione dell'evoluzione storica intesa secondo la dialettica marxista, il che è esattamente ciò che intende l'intelligenza marxista italiana quando parla oggi di Gramsci come del teorico o perlomeno del riscopritore della soggettività storica. Con il suo lavoro di termite, tale avanguardia aprirà la strada e creerà i presupposti per il riscatto definitivo dal sistema capitalistico.

Nel delineare le modalità concrete di azione di questa avanguardia metapolitica, Gramsci resta abbastanza nel vago, si ispira direttamente alla prassi dell'area politico-culturale fascista e prefascista, o dà indirizzi propagandistici tanto banali da apparire ovvi. È però tanto intelligente da intuire che l'eventuale postfascismo europeo sarà il terreno ideale per mettere in opera questo tentativo di instaurare l'egemonia della « cultura della classe operaia ».

Benché le tesi gramsciane contraddicano le concezioni marxiste e liberali ortodosse, secondo le quali l'infrastruttura sociale sarebbe economica, esse sono state realmente alla base dei più consistenti sforzi politici operati dai partiti comunisti occidentali nel dopoguerra, tesi a fare pienamente leva sul primato morale delle forze marxiste nella lotta al fascismo. E probabilmente sono state anche alla base dei relativi successi da questi riportati. Successi comunque vanificati dalla mancata percezione della progressiva trasformazione del sistema e del panorama sociale, dalla tara cioè costituita dal trovarsi sempre in « ritardo di una guerra ».

La struttura del potere culturale nella società

Benché rappresenti un progresso nell'analisi e nella comprensione del concetto di potere culturale, e in qualche modo una sorta di razionalizzazione dell'avvento della rivoluzione fascista (di cui comunque Gramsci non capisce il significato e la portata), l'analisi gramsciana paga un pesante pedaggio al suo contesto marxista in termini di schematismo, di meccanicisno e di adesione dogmatica a categorie politiche assai poco verificate come lo stesso concetto di « classe », presentandosi così in gran parte superata. Il teorico comunista resta inoltre legato al pregiudizio razionalista di poter trovare una volta per tutte la « chiave », le « regole » del divenire storico, mentre là caratteristica precipua della storicità quale attributo specificamente umano, è invece proprio il fatto che non soltanto le società e le culture si trasformano eternamente, ma mutano eternamente anche le leggi che governano questo divenire; per cui l'evoluzione storica è si deducibile — nel senso che è giustificabile e se ne possono spiegare le ragioni —, ma solo a posteriori.

Ritornando alla questione che qui ci interessa, potremmo dire che ciò che fonda in realtà una data società, localizzata storicamente nel tempo e culturalmente nello spazio, è la sua concezione globale del mondo, che comunque resta tra l'altro inevitabilmente legata, come invece non coglieva Gramsci, alla sua percezione del mondo (Weltsich) e radicata a livello biologico e della « costituzione mentale » di quel particolare popolo. Questa concezione globale del mondo può essere definita come la risultante, la somma vettoriale delle particolari « concezioni del mondo » presenti in essa; e di essa, l'«infrastruttura culturale » in senso stretto non è che una componente. Componente che ha però la particolarità di dar luogo ad un « clima ideologico » e ad un sistema di valori politici con o senza consenso attivo (il fatto che oggi in Italia nessuno sia presumibilmente disposto a farsi uccidere per la democrazia, non cambia ad esempio il fatto che la democrazia sia oggi un valore politico dominante), e che genera comunque un certo tipo di istituzioni e di rapporti sociali ed economici.

A loro volta, queste istituzioni e questi rapporti «producono » la società politica: tipo di partiti, classe politica, costituzione reale dello stato. A differenza di Gramsci, che non vedeva che due livelli, due termini legati tra loro in modo statico, se ne scoprono così tre: una infrastruttura culturale, una mediostruttura istituzionale, economico-sociale, giuridico-militare e una sovrastruttura « politica » nel senso corrente e superficiale del termine, assimilabile alla «società politica » gramsciana. Partizione che però è valida soltanto tenendo poi presente che società civile e società politica non sono due realtà tra loro indipendenti e dialetticamente contrapponibili, e che la seconda non è altro che un momento, un'estrinsecazione della prima, così come il potere politico èanch'esso un potere di tipo culturale, dando al termine un senso ampio, antropologico, anzi è una parte del potere culturale all'interno di una società.

 

Non ha quindi molto senso la tesi gramsciana secondo la quale il leninismo in Russia ha potuto trionfare in quanto non esisteva nel paese per arretratezza storica una « società civile »; ciò è altrettanto assurdo quanto il sostenere che il fascismo in Italia vinse perché non esisteva il popolo. In realtà invece la rivoluzione russa e proprio un esempio tipico del processo di costruzione di un contropotere sociale da parte di un'avanguardia mirante a sostituirsi ad un potere costituito. Quanto vi è di specificamente russo in questa rivoluzione, anche come rivolta ad un regime progressivamente occidentalizzato, ne è una riconferma.

Le influenze tra i tre livelli precedentemente individuati si presentano infine come reciproche: esistono cioè fenomeni di retroazione facilmente riscontrabili. Ma è altrettanto vero che le influenze realmente determinanti, rilevanti e a lungo termine sono quelle dirette dal basso verso l'alto. D'altro canto, passando dalle «infrastrutture » alle «sovrastrutture », per continuare ad usare questo linguaggio, si passa da realtà di lunga durata e portata a meri epifenomeni sociali.

Il «regime» politico, per esempio, ha soprattutto oggi un carattere più «spettacolare» e cotitingente che istituzionale. La sua influenza in quanto tale sui costumi e sul politico stesso è in realtà ancora più tenue di quanto si creda, mentre aumenta sempre più il suo aspetto di sottoprodotto ad utilità decrescente del sistema di cui è espressione.

Gramsci insiste sulla conquista del « potere culturale » come preambolo alla manomissione della « società politica ». Noi possiamo andare più lontano: la lotta « culturale » in senso ampio, la conquista eversiva degli spiriti e della società non costituiscono soltanto una « fase preparatoria » della « conquista dello stato », né esistono due fasi distinte di questo tipo. Ciò in quanto l'azione tesa alla « conquista dello stato » è esattamente un momento, e nemmeno quello finale, della lotta « culturale » e metapolitica; fa cioè parte di questa.

 Stefano Vaj