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mercredi, 01 février 2012

Recuperare l’unità della coscienza contro la deriva del soggettivismo e delle “scienze umane"

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Recuperare l’unità della coscienza contro la deriva del soggettivismo e delle “scienze umane"

di Francesco Lamendola

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

La coscienza dell’uomo moderno si trova presa in trappola tra due forze apparentemente opposte: da un lato quella del soggettivismo, dell’individualismo e del nominalismo, che nega la possibilità di conoscere alcunché, e dunque - a maggior ragione - la coscienza, se non come semplice nome; e quella delle sedicenti “scienze umane”, e specialmente dello strutturalismo, le quali, in nome di una visione oggettivistica dei fatti interiori, ridotti a semplici prodotti di norme e divieti imposti dall’esterno, vorrebbe azzerare la coscienza individuale in quanto tale e farne un semplice prodotto di risulta.

Diciamo che si tratta di “forze” perché, penetrando nella cultura del cittadino medio e venendo continuamente enfatizzate dalla grande maggioranza degli intellettuali, specialmente filosofi e psicologi, esse sono entrate a far parte del nostro modo di pensare e di sentire e non si delineano più semplicemente come l’orizzonte culturale entro il quale pensiamo, agiamo e viviamo, ma come parte del nostro immaginario e del nostro stesso sentire, cioè come parte del nostro essere.

Presa in una simile tenaglia, la coscienza dell’uomo moderno si è notevolmente modificata rispetto a quella dell’uomo pre-moderno; e, se la prima di queste due forze ha avuto l’effetto di relativizzare al massimo i suoi legami con il mondo, la seconda ha prodotto quello di opprimerla sotto il peso di un destino ineluttabile, o all’opposto (ma sono le due facce di una stessa medaglia) di consegnarla, per reazione, al più disordinato relativismo e al più egoistico indifferentismo.

Il soggettivismo moderno incomincia con Kant e si afferma con l’idealismo di Fichte ed Hegel: inizia con la negazione della cosa in sé e della metafisica e culmina con la delirante dottrina secondo cui non è la realtà a creare il pensiero, ma il pensiero a creare la realtà. A partire da quel momento, la strada era aperta per ogni fumisteria solipsistica: le cose non sono quelle che sono perché possiedono una propria natura, ma perché attraverso di esse si manifesta l’Idea: Idea che, a dispetto della lettera maiuscola, non è affatto un dato metafisico, ma una sorta di manifestazione superomistica (ante-litteram) del pensiero medesimo.

E così via di questo passo: deducendo, l’una dall’altra, tutta una serie di conseguenze sempre più improbabili, l’idealismo se ne va dritto per la sua strada, costruendo un castello di affermazioni gratuite, che si arrampicano l’una sopra l’altra, per niente preoccupato che il primo soffio di vento possa far crollare un edificio così pericolosamente sbilanciato e del tutto privo di solide fondamenta.

Le scienze umane - le quali, già nella definizione, tradiscono la matrice positivista -, da parte loro, hanno largamente avvalorato l’idea che il comportamento dell’uomo non sia che il frutto di un condizionamento da parte della società o che sia il risultato di istinti sui quali egli ha uno scarso controllo, oppure l’una e l’altra cosa insieme: in ogni caso, quel che emerge è una realtà umana impoverita, compressa, alienata da se stessa, condannata o ad un conformismo avvilente o ad una rivolta velleitaria, in nome di una autenticità che, di fatto, non è mai esistita.

Nessuna meraviglia che, in una simile prospettiva, l’io dell’uomo moderno appaia frammentato, disgregato, dissolto: che cosa resta dell’uomo, una volta che gli siano state strappate via le varie maschere, se non il nulla?

E che cosa può giustificare da parte sua, una determinata scelta etica, se in nessun caso il soggetto sceglie liberamente, ma agisce sempre sotto la duplice, inesorabile tirannia delle istituzioni sociali e dei propri stessi, inconfessabili istinti?

Ci sembra meritevole di riflessione quanto scrive a questo proposito Giannino Piana nell’articolo «La coscienza nell’attuale contesto culturale» (in: «Credere», Edizioni Messaggero, Padova, n. 128, vol. 2 del 2002, pp. 7-10):

 

«La cultura moderna è contrassegnata, fin dall’inizio e in tutte le sue fasi, dalla riduzione del soggetto a individuo, alla mancanza di una visione “personalista” del soggetto, la sola in gradi di fare immediatamente spazio (interpretandola non come dato accidentale ma come fattore costitutivo) alla dimensione della relazione e sociale. Vi è chi - non a torto - tende a far risalire tale riduzione all’influsso del Nominalismo, cioè alla negazione che esso fa dell’esistenza di ogni dato oggettivo (a causa della impossibilità di pervenire all’elaborazione di concetti che abbiano una consistenza reale, che non siano meri nomi o semplici “flatus vocis”), perciò a una lettura radicalmente “singolare” della realtà e alla riconduzione dell’ordine esistente a una realtà onnipotente, cin significative ricadute tanto su piano etico che politico.

La definitiva soppressione del concetto di “natura” (e conseguentemente di diritto naturale”) coincide con la nascita del “diritto soggettivo” come unico referente della vita sociale:l’antropologia individualista non consente di fondare la società a partire dal’essenza del soggetto, ma ne impone l’accettazione unicamente come condizione per lo sviluppo delle istanze individuali; la mediazione dei diritti soggettivi, cioè la imitazione della loro area di estensione diviene pertanto la via che rende possibile a tutti l’accesso a una loro (sia pire parziale) fruizione. La visione pessimistica dell’uomo propria della Riforma accentua tale tendenza, identificando il diritto soggettivo con il luogo di concentrazione degli istinti individuali e dei desideri egocentrici. Le teorie contrattualiste - a partire da Hobbes - fanno proprio questo assunto, impegnandosi, mediante il “patto sociale”, nella costruzione di un ordine, che consenta il superamento del “bellum omnium contra omnes”, che renda in altri termini possibile l’articolarsi di una forma di convivenza ordinata e pacifica

Il presupposto individualistico trova poi ulteriore conferma (e grande consolidamento) con l’avvento dell’industrializzazione e con l‘affermarsi del sistema capitalista. L’egoismo intellettuale sembra costituire la molla da cui l’attività economica prende avvio, e la stessa scienza economica, che si sviluppa in tale contesto fa dei princìpi della proprietà privata e della massimizzazione della produttività e del profitto le leggi “naturali” che devono governare la vita economica. L’interesse generale non rientra direttamente negli obiettivi dell’economia, ma viene piuttosto concepito o come l’esito automatico del ibero mercato si pensi al teorema della “mano invisibile” che ridistribuisce quanto viene prodotto (A. Smith) - o con una variabile con cui fare i conti per ragioni puramente economiche, considerando cioè i riflessi negativi prodotti dall’eccesso di sperequazione in termini di disagio e di conflittualità sociale.

Questo insieme di fattori si riflette in una lettura radicalmente soggettivistica della coscienza: : essa, lungi dall’essere vista come fonte originaria di una identità - quella del soggetto - che prende senso e si costruisce in un tessuto di relazioni, risulta espressione di una individualità chiusa e autosufficiente; la necessità di fare i conti con istanze derivanti dalla presenza  dell’altro (e degli altri) ha infatti carattere  del tutto esteriore ed è motivata da ragioni meramente utilitariste. La coscienza non è soltanto l’ultimo criterio della verità, è il criterio unico (ed esclusivo) del suo esercizio. L’affermazione “decido secondo coscienza” rispecchia questa convinzione: il riferimento a un ordine oggettivo è ritenuto superfluo (e persino deviante), l’agire ha nell’individuo la sua sorgente e si esaurisce in esso; tutto il resto è legato esclusivamente a ragioni di convenzione sociale, ragioni che non intaccano  la soggettività delle scelte.

Questa spinta soggettivista si scontra peraltro - sta qui ilo carattere paradossale della situazione attuale - con l’opposta tendenza alla radicale oggettivazione della coscienza, provocata soprattutto dall’interpretazione (o dalle interpretazioni) che di essa ci forniscono le scienze umane. La psicologia, quella del profondo in particolare, pone l’accento sull’importanza che riveste il processo di formazione della personalità : la coscienza morale altro non è che l’introiezione del super-io sociale, l’assimilazione cioè di comandi e di divieti, che non hanno origine nell’interiorità del soggetto, ma sono il prodotto del condizionamento esercitato dal mondo esterno di cui il soggetto si appropria in nome del “principio di realtà”. A loro volta, le scienze sociali e culturali – basti qui ricordare l’antropologia d’ispirazione funzionalista - sottolineano la pesantezza degli influssi esercitati dalle strutture e dalle istituzioni della vita associata e, più in generale, dal costume dominante, cioè dagli stili di vita e dai modelli di comportamento, sulla condotta dei singoli; mentre gli stessi sviluppi elle scienze biologiche - si pensi alla fisiologia dei vari apparati e allo studio delle interazioni che tra essi si istituiscono - svelano la dipendenza dell’agire dell’uomo da dinamismi istintuali che producono forme di reazione immediata, difficilmente controllabili a livello razionale. La coscienza risulta così essere più il riflesso dell’insieme delle pressioni esercitate da un insieme di fattori - endogeni o esogeni - guidati, in ogni caso, da logiche deterministiche che una realtà dotata di consistenza originaria e autonoma, da cui prende forma il giudizio e la decisione morale. È come dire - ed è questa la posizione più radiale (e tuttavia, in tale ottica, coerente) espressa dallo strutturalismo - - che essa si riduce a eventi del tutto sovrastrutturale, a epifenomeno, la cui genesi e i cui caratteri distintivi vanno ricercati altrove; nel’influenza di un complesso intreccio di elementi, il peso di ciascuno dei quali è inoltre difficilmente valutabile. Al di là della convergenza attorno a questa visione, che svuota la coscienza della sua identità soggettiva, e pertanto la reifica, diverse sono le modalità descrittive che si danno di essa a seconda che si privilegi l’una o l’latra tecnica di approccio;  la tendenza elle scienze umane, guidate nella ricerca e nella elaborazione dei dati da inevitabili precomprensioni metascientifiche, è infatti quella di trasformarsi in ideologie totalizzanti, dando vita a un “conflitto delle interpretazioni” che ha come sbocco  la riduzione della coscienza alla realtà dell’inconscio op al riflesso condizionato dei modelli sociali  e culturali egemoni.

L’oggettivazione della coscienza comporta per ciò stesso la negazione della moralità: sottraendo all’uomo  quel principio interiore che dà senso autenticamente  umano all’agire e riducendolo alla risultante di condizionamenti indotti dalla pressione di fattori diversi (e in ogni caso decisivi), si perviene allo svuotamento  totale della soggettività umana, perciò all’ammissione dell’impossibilità  di attribuire contenuto etico alle scelte…»

 

Giannino Piana, dunque, dopo aver fatto una analisi a nostro avviso largamente condivisibile della situazione attuale, considera tuttavia “paradossale” la confluenza di soggettivismo e scienze umane  nell’espropriazione del senso di unità e di interiorità della coscienza che caratterizza la cultura moderna.

Ma è proprio vero che si tratta di un dato paradossale, ossia di un dato che scaturisce in maniera imprevista dall’azione reciproca delle forze in gioco? Vediamo.

Il nominalismo, che parte dalla negazione di una realtà conoscibile in se stessa, si sposa, come egli ben mette in evidenza, con l’utilitarismo sul piano etico  e con il liberalismo sul piano politico-sociale. Ora, tanto l’utilitarismo quanto il liberalismo sono ideologie dell’egoismo individuale: per esse l’individuo è tutto, la società non è altro che lo sfondo in cui egli si muove e che deve assicurargli il massimo della sicurezza e del soddisfacimento dei suoi “diritti”.

In particolare, il liberalismo è parente stretto di una ideologia politica che, a torto, si considera come radicalmente antitetica ad esso, l’anarchismo: in realtà, esse hanno in comune l’interesse esclusivo per i diritti del singolo, la diffidenza verso l’altro, il fatto di ritenere lo Stato come un male inevitabile, ma da ridurre al minimo (liberalismo) o da eliminare del tutto (anarchismo). Adam Smith e Max Stirner sono molto più simili di quanto non si creda e hanno più cose in comune di quante ve ne siano a dividerli.

Entrambe le ideologie negano un’etica che si basi sulla relazionalità dei soggetti e che rappresenti l’autentico compimento della coscienza individuale, ciò che fa dell’uomo una “persona” e non un atomo isolato o, come voleva Leibniz (ma anche Freud), una monade senza porte e senza finestre; ed entrambe tentano poi, goffamente, di reintrodurre in qualche modo, dalla finestra, ciò che avevano cacciato dalla porta: il liberalismo, tirando in ballo la stravagante teoria per cui il massimo dell’egoismo individuale produrrebbe anche, chissà come, il massimo del bene comune; l’anarchismo, sposandosi - ma solo a parole - con il suo esatto contrario, il comunismo, e dando vita al comunismo anarchico di Kropotkin e Malatesta.

In ogni caso, il nominalismo porta al soggettivismo e quest’ultimo porta all’accentuazione ipertrofica delle ragioni dell’ego, nello stesso tempo in cui tende a svalutare la presenza dell’altro o, addirittura, a vederla come un impedimento e un ostacolo: c’è un filo rosso che lega, con assoluta coerenza, l’affermazione di Freud, secondo cui il comandamento di amare il prossimo come se stessi è assurdo, perché irrealizzabile, e quella di Sartre, che vede negli altri la manifestazione del nostro particolare inferno.

Le scienze umane, poi, per il modo stesso in cui sono sorte e si sono affermate e per il contesto culturale che le ha prodotte, dominato dall’ideologia del Positivismo, hanno esasperato la componente esterna nella formazione della coscienza, fino a suggerire che, senza tale azione proveniente dalla società, gli uomini sarebbero più o meno privi di una coscienza originaria e, con essa, di un senso profondo ed autentico del bene e del male, riducendoli a oggetti passivi ed inermi davanti a delle forze molto più grandi di loro.

Preso fra un inconscio oscuro e minaccioso, che lo domina con i suoi impulsi tanto più potenti, quanto più ci si sforza di reprimerli, ed una pressione sociale continua, sistematica, soffocante, l’uomo finisce per ridursi alla condizione di un grottesco burattino, agitato da ogni vento e sbattuto di qua e di là, senza una volontà propria, senza una capacità di distinguere, e tanto meno di scegliere, fra il bene e il male: per cui egli agisce come capita, «non si sa come» (parafrasando Pirandello), in maniera bizzarra, capricciosa, imprevedibile.

Ed è logico che così avvenga: se la coscienza non esiste come dato originario, o se essa è per noi inattingibile, e - dunque - si riduce a una mera ipotesi indimostrabile, allora non bisogna aspettarsi alcuna coerenza, alcuna progettualità, alcuna logica nelle azioni umane: esse avvengono a capriccio, incomprensibilmente, sul filo dell’istinto o della nevrosi cui il conflitto permanente e insolubile tra Es e Super-Io ci tiene costantemente impegnati e lacerati.

Oppure si prenda il caso delle terapie psicologiche moderne (per distinguerle da quelle che sono sempre esistite, sia presso i popoli tribali, ad esempio con i riti d’iniziazione, sia presso il mondo classico, ad esempio con la catarsi provocata nel pubblico dalla tragedia greca): come è possibile che possano essere realmente d’aiuto all’uomo, se esse partono dall’assunto pregiudiziale che non vi sia alcuna anima da guarire, alcuna coscienza da ricostituire, ma soltanto delle funzioni psichiche da ripristinare, in base ad una valutazione arbitraria ed egoistica di ciò che è utile, e non di ciò che è vero, buono e giusto?

Ebbene, non ci sembra che la convergenza di soggettivismo e oggettivazione esasperata si possa definire un fatto paradossale, perché in essa vi è una logica piuttosto chiara e lineare: se il nominalismo sostiene che non possiamo conoscere nulla di reale e il suo naturale erede, il soggettivismo, afferma che dobbiamo agire in base al nostro interesse e non in base alla scelta tra il bene e il male, allora il soggettivismo estremo viene a completarsi naturalmente nelle dottrine dell’oggettivazione, secondo le quali possiamo misurare i fattori che agiscono su di noi, sia dall’interno che dall’esterno, ma non rispondere ad essi con una decisione della coscienza, poiché quest’ultima non è che una vuota parola che diamo, sostanzializzandola, alla rete di influssi che operano su noi sia dall’esterno, sia dall’interno.

Il punto estremo del nominalismo, la filosofia del linguaggio che riduce le cose a frasi logicamente consequenziali, si tocca con il punto estremo dell’oggettivismo, ossia quello strutturalismo che fa sparire il soggetto come sorgente di coscienza e volontà e lo riduce a passiva appendice di forze molto più grandi, che agiscono su di lui a senso unico.

Che sia andata smarrita l’unità della coscienza è un male, perché, con buona pace di certo agnosticismo e di certo relativismo etico, tale smarrimento ha accentuato il senso di solitudine, di impotenza e di frustrazione dell’uomo moderno e ha trasformato la sua vita sociale in un deserto popolato di incubi, di nemici da abbattere o di schiavi da sottomettere.

Quando capiremo che la rifondazione della coscienza, il recupero della sua unità e della sua originaria autonomia, sono i compiti più urgenti che ci dobbiamo dare per il prossimo futuro?

Quando capiremo che ogni altra preoccupazione, che ogni altra indagine, al confronto, sono qualcosa di simile alle dispute sul sesso degli angeli, mentre Costantinopoli stava per cadere?

00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, individualisme, solipsisme | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook