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mardi, 13 avril 2010

Contro lo spirito di gravità

Contro lo spirito di gravità

di Adriano Scianca

   

“Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini avrà spostato tutte le pietre di confine”

Friedrich Nietzsche

Così parlò Zarathustra, III, “Dello spirito di gravità”

 

frohliche_wissenschaft.jpgVivere è sempre scegliersi dei modelli: esempi che incarnino ciò che vogliamo essere e che ci indichino la rotta. Il nostro modello è da sempre l’ardito. In questa scelta c’è certamente la gratitudine e l’ammirazione verso persone in carne ed ossa che, nella Grande Guerra e nel periodo immediatamente successivo, hanno dato anima e corpo alla Nazione. Ma c’è anche e soprattutto la percezione nitida che c’è qualcosa, nella mentalità ardita, che ancora oggi ci parla, che si innalza sopra le contingenze, che illustra un metodo e uno stile ancora oggi attualissimo.

 

L’ardito, infatti, è un volontario, uno che combatte per fede e non per costrizione. E’ l’uomo che avanza, che si stacca dal gregge e fa un passo avanti donando se stesso. Egli fa della creatività in battaglia e del coraggio le sue armi predilette. Il suo compito è essere avanguardia, entrare lì dove nessuno è mai entrato, inoltrarsi nel territorio nemico. Creare vie, tracciare percorsi, sfondare le linee nemiche. Andare avanti nella boscaglia e creare un passaggio laddove altre truppe successive creeranno strade e accampamenti. Per fare questo, l’ardito deve muoversi con libertà. Per questo gli si concede l’armamento leggero, privo dei fardelli che ostacolano l’avanzata. L’ardito non ha zavorre, per questo può inerpicarsi verso territori sconosciuti.

 

Il messaggio è chiaro: per creare, avanzare, conquistare occorre liberarsi dei fardelli. Fardelli che oggi sono innanzitutto zavorre mentali che inibiscono il corretto procedere. Vediamone alcune.

 

Zavorra numero uno: l’agorafobia. Ovvero la paura della piazza, del “fuori”. E’ il ghetto interiorizzato, l’idea che alla fine il nostro posto nel mondo siano veramente, se non le fogne, per lo meno gli scantinati, i sottoscala, gli sgabuzzini. Posti bui e umidi, dove tuttavia è rassicurante dimorare perché in essi si evita il confronto con la realtà, lo scontro con i fatti. Ci si parla addosso e per questo ci si convince di avere argomenti invincibili senza darsi la pena di mettersi veramente alla prova. Se non che la storia si fa lì fuori. l’unico campo di battaglia che conta è il mondo.

 

Zavorra numero due: l’antagonismo. L’idea, direttamente discendente dall’agorafobia di cui sopra, per cui esistiamo noi ed esiste il mondo e fra i due schieramenti si immagina una lotta senza quartiere. In questa visione noi siamo i puri e il mondo è l’impuro. O si è “servi del sistema” o si è “contro il sistema”. Logiche vecchie, estremismo inacidito. Rileggere Foucault: il sistema è un gioco di flussi (di persone, materiali, informazioni, denaro) che va, a sua volta, giocato. Bisogna essere dentro e cavalcare l’onda. E per quanto sia importante avere propri spazi – veri o metaforici – ciò che conta è essere al centro dello spazio comune. Dominare, ad esempio, l’informazione mainstream, non fare sterile e mal verificata “controinformazione” stile anni ’90.

 

Zavorra numero tre: l’ideologia. Con questo termine designiamo ogni schema teorico che tenda a imbrigliare la realtà in gabbie rigide che ne umilino la complessità e la varietà. Di tipica filiazione monoteista, le ideologie mancano di elasticità e sono le nemiche giurate di ogni pragmatismo. Si oppone alle ideologie la “visione del mondo”, che già nella definizione conserva un qualcosa di intuitivo, di non logicizzato. La visione del mondo è il grimaldello che apre le porte del presente esattamente come l’ideologia è lo schema che le chiude. Il fascismo ebbe una visione del mondo e nessuna ideologia. Il neofascismo – costretto dalle contingenze a pensare il fascismo molto più che a viverlo – ha più spesso fatto il contrario. Magari in buona fede. Ma un’ideologia in buona fede non diventa per questo più utile. Es. urlare a ogni piè sospinto “socializzazione!” è ideologico, è una soluzione pronta buona per ragionamenti sloganistici; inverare lo spirito del Manifesto di Verona nel presente alla luce delle mutate condizioni socioeconomiche è rivoluzionario.

 

Zavorra numero quattro: il viaggio mentale. Molte deviazioni, rispetto a quello che è il nostro percorso genuino, avvengono per meccanismi mentali più o meno inconsapevoli basati su processi di rimozione o transfert. In questo modo si possono spiegare alcuni dei più frequenti sbandamenti neofascisti, dall’infatuazione per la sinistra (per cui da fascisti si diventa “fascisti di sinistra” per approdare infine alla sinistra tout court e talvolta persino all’antifascismo) fino al complesso del “beduino liberatore” (quello per cui si cerca spasmodicamente un “bastione rivoluzionario” esotico destinato a propagare la rivolta per tutto il globo, anche per conto di chi è troppo impegnato a farsi i suoi viaggi mentali per pensare da sé al suo destino).

 

Zavorra numero cinque: il monologhismo. Il monologo, si sa, è il contrario del dialogo. Chi concepisce il relazionarsi agli altri nei soli termini del monologo è entrato in un circolo vizioso completamente autoreferenziale. E lo fa perché sente come irrimediabilmente debole la sua identità. Entrando in contatto con l’altro da sé potrebbe cedere, quindi si chiude a riccio. Chi è saldo nelle proprie convinzioni e nel proprio sentimento del mondo è invece consapevole di poter discutere anche con il diavolo. Perché anche il dialogo,in realtà, è una prova di forza: chi è debole viene soggiogato, chi è forte rimane se stesso.

 

Zavorra numero sei: le idee che immobilizzano. Al di là degli atteggiamenti ci sono in effetti contenuti specifici che fungono da fardello incapacitante. Tutti i moralismi, tutti i passatismi, tutti i clericalismi, ogni idea di matrice reattiva, ogni proposta formulata in termini di “valori”, qualsiasi giudizio bacchettone privo di prospettive in positivo: tutto ciò paralizza il pensiero e l’azione. Per sconfiggere lo spirito di gravità occorre riconquistare una visione chiara, lineare di ciò che siamo. Bisogna ripulire tutte le incrostazioni, raddrizzare tutte le deviazioni, potare tutti i parassiti. Per procedere con sicurezza bisogna prima ritrovare il nord.

 

Essere di Estremocentroalto, nonostante i fraintendimenti in buona o cattiva fede, non significa semplicemente sposare una formula accattivante e ingenuamente “futurista”. Significa, invece, cominciare a ragionare in controtendenza rispetto a quanto descritto sopra. Significa allenare se stessi ad un pensiero – e ad un’azione – che non dia nulla per scontato, che rimetta in discussione i pregiudizi. Esistono meccanismi mentali che vanno spezzati. Estremocentroalto è la riconquista di uno sguardo sulla realtà sgombro da nubi. E’ come se il mondo ci apparisse per la prima volta davanti agli occhi, in una visione scintillante di potenzialità da cogliere, in estrema libertà.

 

L’ottocento è sempre più morto.

Il novecento pure.

Noi continuiamo a sentirci benissimo.

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