Talebani, movimenti tribali, narcotrafficanti, immigrati caucasici e sauditi affiliati di Al Qa’ida, indipendentisti del Kashmir, fondamentalisti indù, naxaliti, Tigri tamil. La mappa del terrorismo nell’Asia del Sud descrive un’inquietante continuità nell’intero asse tra le colline afgane dello Waziristan fino al Bangladesh, passando per le valli dell’Indo e del Gange a ridosso dell’Himalaia, e poi giù a Sud nelle foreste del Deccan, e ancor più giù col separatismo induista nello Shri Lanka.
Il territorio che è forse la culla più antica della civiltà globale è oggi l’epicentro di movimenti di guerriglia di vario orientamento religioso e politico, non senza significativi legami con attori occidentali. Situazioni apparentemente non paragonabili tra loro se non nell’ampiezza delle fondamenta storiche e delle persone coinvolte. Sono decine di migliaia i militanti in ciascuna delle entità citate, formati in centinaia di centri di addestramento. E, a prescindere dall’ideologia che ne istituisce i diversi collanti, sono quasi sempre mobilitati da obiettivi materiali.
Il nodo irrisolto delle rivendicazioni di frontiera tra India e Pakistan. Il controllo del territorio e dei traffici di droga e armi nelle colline tra Afganistan e Pakistan. Il cosiddetto “corridoio rosso” delle foreste tra il Bengala e il Sudest dell’India, rivendicato dai maoisti alleati dalle tribù locali, contro le mire del governo e delle multinazionali del ferro. Che si tratti di Maometto o Krishna, Shiva o Mao, l’oggetto della ribellione trova sempre riscontro in tensioni politico-territoriali decennali, se non addirittura secolari.
Le responsabuilità del divisivo retaggio coloniale britannico rappresentano un dato scontato presso gli storici.
Meno evidente è il riprodursi di ambigue presenze europee e americane dietro ai sempre più frequenti fatti di sangue, a cominciare dai servizi d’intelligence. L’esempio recente più clamoroso è quello del 49nne David Coleman Headley, statunitense che all’anagrafe di Islamabad risulta Daood Gilani.
Si trova in una prigione degli Stati Uniti con l’accusa di aver architettato l’assalto a Mumbai nel 2008 e l’attentato a Pune tre mesi fa, costati la vita complessivamente a oltre duecento persone, in circostanze a tutt’oggi largamente misteriose, a cominciare dal movente - se non nell’esito di aver rallentato la ripresa del dialogo di pace indo-pakistano.
La matrice degli attacchi era islamica, si è detto e documentato, ma la vittima più illustre è stato il capo dell’antiterrorismo di Delhi Hemant Karkare, che stava indagando sui servizi deviati e il fondamentalismo indù.
E le stranezze continuano con la stessa storia personale di Headley, che non è quella dell’invasato islamico, bensì di un ex collaboratore della Drug Enforcement Agency per l’Asia del Sud, nonché, si sospetta, della Cia. Un doppiogiochista come troppi nell’area, del quale l’India ha chiesto invano l’estradizione. E che non ha potuto finora neppure interrogare.
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