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vendredi, 20 mai 2016

Malaparte e la disgregazione della modernità

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Malaparte e la disgregazione della modernità

di Luca Leonello Rimbotti

Ex: http://www.ariannaeditrice.it

Paragonando le due rivoluzioni del secolo XX – fascismo e comunismo – che vedeva correre parallelamente come nemiche diverse ma simili dell’Occidente liberale, un giorno Malaparte scrisse che quei due fenomeni politici erano appostati dalla stessa parte soprattutto nella lotta che avrebbe condotto alla “disgregazione della modernità”: la differenza stava nel fatto che il fascismo – rivoluzione costruttiva – avrebbe sostituito il vuoto della modernità con la ricchezza della tradizione nazionale italiana, mentre il comunismo – rivoluzione distruttiva – avrebbe finito presto o tardi col soccombere al nichilismo collettivista. Si trattava insomma di dar vita a forme di lotta che, negando le derive moderne, operassero un franco, rivoluzionario ritorno all’origine, secondo quel sentimento della tradizione popolare che Malaparte da giovane - quando ancora si chiamava Suckert – attribuiva all’anima profonda degli italiani. Si sarebbe così giunti, secondo le parole di Malaparte, a innescare “la storicissima funzione di restaurazione dell’antichissimo ordine classico dei nostri valori nazionali”. Se la modernità andava disgregando l’identità del popolo e la sua stessa natura, ciò che occorreva era pertanto una volontà che disgregasse la modernità, secondo il principio nietzscheano di combattere il nichilismo con dosi ancora maggiori di nichilismo. In altre parole: sovvertire la sovversione, e così facendo restaurare, raddrizzare, rettificare ciò che la modernità ha distrutto, invertito, distorto. Il Malaparte che ancora oggi ha parole infiammate da spendere, e che anzi proprio oggi dimostra di possedere un’attualità viva, non è certo il reporter scandaloso, il narratore irriverente o il mattatore bellimbusto: ma è proprio il militante sovversivo, quell’intellettuale di milizia che nella prima metà degli anni Venti proclamò un’originalissima rivolta degli umili in nome dell’arcaica tradizione di popolo, un’insurrezione reazionaria, insomma, o meglio una rivoluzione conservatrice in piena regola. Nel far questo, Malaparte fece allora comprendere a molti in Italia – ed oggi di nuovo lo ricorda – che parlare di rivoluzione, di potere, di politica significa essenzialmente parlare di cultura e di origini. E che agitare il vessillo della ribellione contro i grandi manipolatori – i più classici “nemici del popolo”, all’opera un secolo fa non meno di oggi – significa mettere in gioco l’identità, giocarsi cioè la testa e il destino di una nazione.

Curzio-Malaparte_6004.jpegQuando – si era nel 1921 – Malaparte scrisse il dirompente libro “Viva Caporetto!”, poi intitolato “La rivolta dei santi maledetti”, che rileggeva dalle fondamenta la fenomenologia di quella drammatica sconfitta, fece un’operazione di vera rottura ideologica, spingendo la provocazione ben oltre gli steccati della polemica antiborghese, osando toccare il nervo sensibile del superficiale orgoglio nazionale allora egemone in Italia: della rovinosa rotta dell’ottobre 1917 (che il generale Cadorna e molti osservatori attribuirono a un insieme di renitenza e insubordinazione di masse di fanti che in realtà erano abbrutiti dall’inumana vita di trincea) egli fece il simbolo di una rivolta politica in piena regola. Una volta vista non dall’ottica degli alti comandi e dei “bravi cittadini”, ma da quella del fantaccino analfabeta, quella sconfitta, che era un tabù rimosso dall’ipocrita mentalità borghese, diventava un atto politico e la massa dei disfattisti assurgeva a sua volta al rango di soggetto politico. Dando vita, come ha scritto Mario Isnenghi, a qualcosa di inedito e di potenzialmente incendiario, cioè “una interpretazione rivoluzionaria della prima guerra mondiale, della storia delle masse e della psicologia collettiva dentro la guerra”.

Il popolo in divisa che sparava alle spalle agli ufficiali macellai, che liquidava il carabiniere messo dietro le prime linee a sospingere i fanti all’assalto, questo popolo sovversivo diventava nelle pagine di Malaparte una sorta di eroe povero e disperato, veniva paragonato a un Cristo eroico e sanguinante, ma potente di istinti e in grado di insorgere contro l’ingiustizia della classe dirigente liberale. Una massa di uomini che aveva trovato a suo modo la via della rivoluzione. Anche se (e qui si appuntava la critica di Malaparte, che non era né un socialcomunista né un populista, ma un tradizionalista che rivendicava la via gerarchico-guerriera) a questo popolo allo sbando mancò un capo, un’aristocrazia di ufficiali che volgesse quella protesta in proposta e indirizzasse l’atto inconsulto della ribellione verso una consapevole iniziativa propriamente politica. Ciò che, in seguito, Malaparte vide avverarsi con lo squadrismo, formato in gran parte da ex-combattenti, arditi e trinceristi: il popolo delle trincee che, tornato dalla guerra, fa la sua rivoluzione armata contro le classi dirigenti. Erano questi i “fanti vendicatori”: un tipo di rivoluzionario barbarico e radicale, al quale l’idea insurrezionalista di Malaparte affidava il compito di aprire la strada alla rivoluzione italiana.

italie,lettres,lettres italiennes,littérature,littérature italienne,curzio malaparteLa critica feroce di Malaparte si indirizzava soprattutto verso la morale filistea del borghesismo, quel mondo ipocrita fatto di patriottismo bolso e da operetta, comitati di gentiluomini, patronesse inanellate, tutti gonfi di retorica, con le loro “marcie di umanitarismo e di decadentismo patriottico”, con la loro schizzinosa paura per il popolo vero e i suoi bisogni: questa marmaglia, diceva Malaparte, in fondo odiava i fanti veri, quelli che “non volevano più farsi ammazzare pel loro umanitarismo sportivo”. In questo ritratto di una classe dirigente degenere, obnubilata di retorica e falsi ideali, ognuno riconosce facilmente la classe dirigente degenere di oggi, che è la stessa, radical-chic e impudente, umanitaria per divertimento e per interesse, ieri con i comitati patriottici, oggi con le onlus dedite al business della tratta di carne umana: la morale è la stessa, e lo stesso è l’inganno. Soppesiamo bene quanta verità è contenuta nell’espressione malapartiana di “umanitarismo sportivo” delle oligarchie borghesi, e paragoniamo la casta al potere allora con quella di oggi.

Noi troviamo in questi attacchi di Malaparte un significato preciso: la modernità incarnata dallo spirito liberalborghese vive di ipocrisia, di inganno e di sopruso mascherati di buone intenzioni, mentre il popolo genuino, quello antico e ancora barbarico, conserva dentro di sé i valori intatti dell’identità e della verità. Questo concetto di “primitivismo” e di “barbarie”, del quale Malaparte vedeva circonfuso il popolo rimasto politicamente vergine e non ancora imbrattato dalla modernità, rimase a lungo un modello di virtù attivistica. La celebre “Italia barbara”, rivendicata dal giovane intellettuale e sindacalista pratese ancora nel 1925, doveva essere il modello di una comunità libera e matura, non vittima delle mode d’importazione, ma adulta quanto basta per accettare se stessa lasciando perdere il massimo fra i provincialismi: la scimmiottatura dei modelli stranieri, intrisi di modernità distruttiva. In questo quadro, il nemico da cui guardarsi era la “società settentrionale”, come la chiamava Malaparte alludendo al mondo anglo-sassone: “Noialtri italiani rappresentiamo in Europa un elemento vivo di opposizione al trionfante spirito delle nazioni settentrionali: abbiamo da difendere una civiltà antichissima, che si fa forte di tutti i valori dello spirito, contro una nuova, eretica e falsa, che si fa forte di tutti i valori fisici, materiali, meccanici”. Il dualismo così concepito era chiaro: tradizione sana contro modernità degenerata. Non si trattava allora certo di fare i bacchettoni, i retrogradi o di rifiutare la tecnica o il progresso in sé, beninteso. Si trattava di considerare il progresso uno strumento e non il fine. E dunque: “Né il rinnegare la nostra particolare tradizione, per andar dietro alle nuove ideologie, ci potrebbe aiutare a metterci alla pari delle nazioni dominanti. La modernità anglosassone non è fatta per noi: l’assimilarla ci condurrebbe fatalmente a un’irreparabile decadenza”. Qualcuno potrebbe oggi dubitare della validità e dell’attualità di tali parole profetiche, pronunciate niente meno che novanta anni fa?

bm_5953_1777762.jpgSi trattava di difendere un patrimonio che era prezioso per davvero: l’identità del popolo, che non è parola, non è retorica né slogan, ma vita e sostanza di un soggetto antropologico portatore di valori operanti lungo un arco di tempo pressoché incalcolabile. La minaccia avvertita da Malaparte era la violenza assimilatrice del mondo moderno, con la sua universale capacità di appiattire e annullare le diversificazioni culturali. Nel 1922, in uno studio sul sindacalismo italiano rimasto allora famoso, Malaparte lanciava un avvertimento del quale soltanto oggi, dinanzi all’enormità dell’aggressione che stanno subendo non solo gli italiani, ma tutti gli europei, possiamo valutare le tremende implicazioni: “In casa nostra ci è consentito di far soltanto degli innesti, non delle seminagioni. La semenza straniera non può essere buttata sul nostro terreno: la pianta che ne nasce non si confà al nostro clima. Bisogna a un certo punto bruciarla e tagliarne le radici”. L’essersi piegati senza resistenza ai diktat ideologici del liberalcapitalismo d’importazione anglosassone, il non aver ascoltato profezie come questa di Malaparte – che da un secolo in qua si levarono un po’ dappertutto in Europa – sta costando ai popoli europei la finale uscita di scena dalla storia, annegati nella degenerazione morale e nell’azzeramento della politica volute dalle agenzie progressiste cosmopolite.

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