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jeudi, 21 août 2008

Europa degli eroi - Europa dei mercanti

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Claudio Bonvecchio,

Europa degli eroi Europa dei mercanti

 

Settimo Sigillo, Roma 2004, pag. 94, euro 10.

Già il titolo di questo lavoro di Claudio Bonvecchio, professore di Filosofia Politica presso l’Università dell’Insubria e prolifico autore di saggi sul mito e sul simbolico, pone il lettore di fronte ad un’opzione. Europa degli eroi o Europa dei mercanti? L’interrogativo, che riprende la distinzione resa famosa da Werner Sombart, richiede una risposta perentoria e definitiva. L’autore non esita a darla, ponendosi dalla parte di chi crede in un risveglio europeo dal torpore del cosmopolitismo e del globalismo, che sembra aver precipitato il continente in una desolazione fino ad oggi sconosciuta. Ma cos’è l’Europa? Da buon studioso di simbolica politica, Bonvecchio utilizza strumenti a lui familiari per delinearne i contorni: è il mito, di cui viene ribadita l’efficacia conoscitiva e quella caratteristica di immediatezza che manca all’approccio logico-discorsivo, a venire riproposto quale chiave di lettura. Ed il mito racconta dell’unione fra la lunare Europa ed il solare Zeus, da cui nasceranno tre figli, Sarpedonte, Minosse e Radamanto, fondatore di città il primo, sovrani e legislatori i secondi. Un’unione che rappresenta, simbolicamente, una perfetta totalità, ove le diversità si armonizzano tra loro e il cui frutto richiama l’armonia e l’equilibrio. Funzione dell’Europa, racconta il mito, è l’essere punto di riferimento e appianatrice di conflitti e controversie. Ma l’Europa, e lo dimostrano i doni nuziali ricevuti da Zeus (un cane, un gigante, una lancia), è sempre bisognosa di difesa e ha nella vulnerabilità il suo tallone d’Achille. L’esegesi mitica termina quindi con un interrogativo irrisolto: da chi deve difendersi l’Europa? Da qualcun altro o da se stessa?

Per rispondere, Bonvecchio passa dalla fase mitica, alla base del sorgere dell’Europa, a quella del tramonto e della decadenza europea; si entra così nella storia che l’Europa sta vivendo: un presente, sotto gli occhi di tutti, in cui essa si abbrutisce in mancanza di punti di riferimento trascendenti, sostituiti dal culto del  profitto e del consumo. Un presente che la vede, nello scacchiere globale, assolutamente incapace di recitare un ruolo che non sia di comparsa. Non meno impietosa la diagnosi rispetto alle forme politiche che alimentano questa deriva: dalla statualità, frutto della modernità che ha finito per divorare se stessa, alla democrazia formale che si nutre di un egualitarismo acritico, produttivo di forme di raccolta del consenso sempre meno partecipative e sempre più funzionali ai poteri economici. L’Europa deve, quindi, la sua vulnerabilità all’incapacità di ritrovarsi: all’aver permesso che alla comunità, fondata sull’appartenenza e l’adesione a valori che trascendevano l’individuo, seguisse la società, in cui si sta insieme per interesse e l’individuo rimane solo con la propria sete di guadagno. Anche qui si recuperano le categorie rese famose da Tönnies per riproporle in una dimensione contemporanea e assolutamente attuale. A Bonvecchio, infatti, l’Europa dell’euro sembra il modello perfetto di una società di tipo geo-economico: c’è una banca, una moneta, persino un parlamento ma nessuna traccia di identità, nessuna radice nella quale rispecchiarsi. Eppure, afferma Bonvecchio, i possibili riferimenti identitari ci sarebbero e vanno cercati nella propria storia: ma a frenarne il riemergere ci pensa un senso di colpa e di timore che l’eredità della seconda guerra mondiale continua ad alimentare. Tutto ciò ha impedito all’Europa di resistere al modello etico, oltre che economico-politico, americano, che dimostra tutta la sua aggressività e l’incapacità di considerare il diverso da sé. A questo modello massificante ed omologante viene contrapposta la vocazione universalista di cui il Vecchio Continente è storicamente portatore.

Qui va fatta una precisazione. L’universalismo cui si riferisce Bonvecchio non può dissociarsi dall’idea di imperialità. E l’impero è concepito come l’unica forma politica e simbolica capace di unire le differenze, al tempo stesso preservandole. È inutile ricordare ai lettori di Diorama lo stesso riferimento presente nel de Benoist de L’impero interiore, che pure non perde occasione per criticare il concetto moderno di universalismo, considerato una corruzione dell’oggettività e un  grimaldello ideologico al servizio del pensiero dominante per annullare le identità e qualunque espressione di appartenenza in nome dell’astrazione più assoluta (si veda, da ultimo, il suo saggio Oltre i diritti dell’uomo). Ne sono figli la teorizzazione dei diritti umani, nonché l’idea dell’esportibilità di modelli politici quali la democrazia liberale. L’universalismo di Bonvecchio non può concepirsi se non in relazione al pluralismo culturale (si veda, a tal proposito, il volume di Chiodi, Europa. Universalità e pluralismo delle culture): esso è connesso all’idea di un’Europa quale casa comune, legata dalla spiritualità e dal sacro prima e dalla cultura poi, munita di una lingua, il latino, che oltre ad essere uno strumento di comunicazione era soprattutto l’espressione di un modo di vivere, pensare e ragionare essenzialmente europei. Questo riferimento al latino permette il raffronto con un'altra lingua, quella inglese, che pure oggi viene propugnata quale lingua universale, ma che qui viene liquidata come la lingua del commercio e della pratica del mercato, incapace di imprimere nell’anima di chi la adopera qualunque idea di appartenenza comune. L’inglese è infatti la lingua del particolarismo individualistico, di quel cosmopolitismo che per Bonvecchio è la vera malattia dell’Europa. È il cosmopolitismo a determinare il declino del Vecchio Continente: il suo momento centrale è individuato nella Rivoluzione Francese, che sostituirà alla centralità del sistema simbolico europeo, espressione di valori condivisi, il particolarismo ideologico ed il funzionalismo dello stato nazionale ad esso asservito. La chiave di volta non sarà più l’uomo, ma il denaro: l’Europa sceglierà i mercanti. Il frutto di questo processo sarà l’affermazione di un’identità cosmopolita che si pensa politicamente nella nazione ma economicamente nel mercato internazionale e mondiale: una contraddizione solo apparente, alimentata dal prevalere dell’economico sul politico, che sfocerà nei due conflitti mondiali che hanno messo in ginocchio l’Europa. La globalizzazione rappresenta, a tal proposito, la moderna forma di asservimento alla signoria del mercato, capace di avvalersi della formidabile gamma di apparati tecnici, sociali e amministrativi che deresponsabilizzano l’uomo e concorrono ad un’omologazione mortificante e massificante. Qualunque differenza e specificità viene stritolata in nome di una totalità virtuale, basata su valori troppo astratti per essere coesivi.

Come se ne esce? Bonvecchio non ha dubbi: l’Europa ha nella sua storia le armi dello spirito e della cultura che le permetterebbero, se solo volesse, di resistere. Si tratta di “passare al bosco”; l’espressione di Jünger, che la ha adottata ne Il trattato del ribelle, ben si presta alla scelta che spetta all’uomo europeo: ritrovare l’originaria partecipazione alla comunità che passa per un recupero della dignità perduta. Si devono scegliere gli eroi: viene tracciato così un’itinerario di ribellione, che da individuale si fa collettivo, e che passa per la riscoperta delle proprie radici spirituali, che affondano nel Sacro e nelle molteplici forme in cui esso si esprime, e che continua nella scelta politica di una grande Europa, imperiale, capace di riscoprire la ricchezza che proviene dall’essere differenti nell’unità. L’ultimo passo è il recupero di un’economia sociale piegata alle leggi del politico: il modello non può essere quello liberista, causa dello squilibrio che costringe l’uomo all’interno della schiavitù del mercato e della tirannia del consumo.

Volutamente provocatorio, al limite dell’utopico come lo stesso autore non ha remore ad ammettere, il testo di Bonvecchio non fa sconti al ‘politicamente corretto’. Questo ne rappresenta indubbiamente un punto di forza, a cui si accompagna una vis argomentativa altrettanto efficace, che permette più di uno spunto di riflessione. Segnaleremmo, tra questi, la riaffermazione della centralità e dell’efficacia del mito in un tempo che, di fronte ad interrogativi sempre più inquietanti,  sconta una paurosa carenza di risposte e in cui il pensiero è quasi costretto a presentarsi quale ‘debole’. Ma, soprattutto, il riferimento all’impero come forma politica ancora praticabile: già Carl Schmitt aveva rimarcato ne Le categorie del politico il carattere storico dello stato moderno, il cui declino era inevitabile; l’Europa degli stati e dei governi, quella di Bruxelles, finisce per essere l’espressione di una burocrazia e di una tecnocrazia economica e finanziaria che sfuggono ad ogni controllo e si avvalgono di un’assoluta deresponsabilizzazione. Si può convenire quindi, con Claudio Bonvecchio come con Alain de Benoist, che il modello imperiale rimane l’unica alternativa praticabile per una Europa delle culture e dei popoli.

Fabio Pagano          

00:05 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, tradition | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

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