vendredi, 11 mars 2011
Il soldato di Jünger è l'uomo-massa in rivolta contro la massificazione, cioè contro se stesso
di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
È altamente significativo il fatto che un evento epocale e lacerante come la prima guerra mondiale abbia trovato, nell’ambito della letteratura, solo pochi scrittori capaci di penetrare l’essenza di ciò che essa aveva in se stessa di nuovo, di tragicamente nuovo, rispetto a tutte le guerre precedenti: vale a dire la massificazione e l’industrializzazione del massacro.
Fra i non molti che se ne resero conto, spicca il nome di Ernst Jünger, uno dei maggiori nella pleiade della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” fiorita nei primi decenni del Novecento, che ha rappresentato tale carattere di novità in alcuni libri divenuti giustamente famosi, da «In Stahlgewittern», del 1920 («Nelle tempeste d’acciaio», Parma, Guanda, 1995), a «Der Kampf als inneres», del 1922 (La lotta come esperienza interiore»); da «Sturm», del 1923 («Il tenente Sturm», Parma, Guanda, 2000), a «Das Waldchen 125», del 1925 («Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918», Parma, Guanda, 1999).
Da questi romanzi e saggi emerge con lucidità e prepotenza una nuova figura antropologica, quella del “soldato”, peraltro con caratteristiche radicalmente diverse da quelle “classiche”: più un pirata e un avventuriero, che un disciplinato esecutore di ordini superiori; più un anarca che un borghese, anzi, decisamente un anti-borghese, forgiato dal ferro e dal fuoco e darwinianamente sopravvissuto alle “tempeste d’acciaio” proprio per accendere la fiaccola della rivoluzione nella stagnante società del cosiddetto ordine costituito.
Jünger delinea questa nuova figura con l’entusiasmo e con la compartecipazione di chi ne ha fatto l‘esperienza diretta (fu ufficiale di complemento nelle trincee a partire dal 1915, dopo essersi arruolato romanticamente nella Legione Straniera francese) e, al tempo stesso, con il tono profetico che lo contraddistinguerà, poco dopo - negli anni del primo dopoguerra - quando sposterà le sue simpatie su di una nuova figura antropologica, quella dell’”operaio”; per poi approdare, definitivamente, a quella del “ribelle”, di colui che “passa al bosco” e rifiuta radicalmente le tranquille certezze del mondo borghese, per “vivere pericolosamente” in una sorta di guerra privata contro ogni tentativo di ingabbiarlo, di ammaestrarlo, di ammansirlo e, in ultima analisi, di manipolarlo.
Nemmeno Jünger, però, riesce a sottrarsi alle premesse irrazionalistiche, vitalistiche, confusamente nietzschiane, che fanno velo alla rigorosa imparzialità della sua analisi e finisce per caricare la figura del “soldato” di valenze romantiche, nel senso più ampio del termine, che poco o niente hanno a che fare con la realtà storica della prima guerra mondiale; e, soprattutto, per cercare una scorciatoia ideologica che gli consenta di sottrarre quella figura, a lui così cara, al destino della massificazione e della nullificazione della sua volontà individuale, per restituirle - ma, ahimé, solo in maniera astratta e velleitaria - quella capacità decisionale che contrassegna, per definizione, qualsiasi “eroe” letterario: categoria - quest’ultima - alla quale anche il “soldato” appartiene.
In altre parole, Jünger tenta di delineare la figura di un combattente che, slanciandosi contro le linee nemiche per “sfondarle” o “penetrarle” (psicanalisti freudiani, sbizzarritevi!), con una sorta di furore eroico che è anche, al tempo stesso, decisamente erotico, si fa protagonista di un vero e proprio surrogato dell’atto sessuale.
Sarebbe troppo semplice insistere sul velleitarismo, nonché sulla natura eminentemente letteraria, nel senso di “straniante”, di un simile atteggiamento, che, come nel caso dei Futuristi, celebra la “bellezza” della lotta per se stessa e finisce per cadere in un eccesso di estetismo, vagamente spruzzato di superomismo e, naturalmente, del più crudo darwinismo.
Più interessante, invece, della chiave di lettura psicologica e più fruttuosa come ipotesi di lavoro, ci sembra essere quella specificamente ideologica: non potendo sottrarsi ad una spietata quanto cieca gerarchia, che lo afferra e lo scaraventa in un sanguinoso, delirante bagno di anonimità, il “soldato” jüngheriano si prende la sua rivincita individualistica, facendo proprio quel modello gerarchico e quella impersonalità tecnologica, ma vivendoli, con orgoglio, dall’interno, illudendosi così di mutare i termini della propria condizione di totale impotenza decisionale e di radicale e assoluta sottomissione ad un tale apparato anonimo e distruttivo.
Eric J. Leed, nel suo pregevole studio «Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale» (titolo originale: «No Man’s Land. Combat and Identity in World War I», Cambridge University Press, 1979; traduzione italiana di Rinaldo Falcioni, Bologna, Il Mulino, 1985, 2004 pp. 200-212 passim), ha colto nel segno, a nostro avviso, allorché ha evidenziato il carattere illusorio e, al tempo stesso, auto-consolatorio, della identificazione jüngheriana fra il “soldato” e la guerra:
«Man mano che gli uomini esperivano la guerra come estraniazione dal proprio “agire”, come perdita di controllo, come svilimento delle loro potenzialità, la loro autonomia smarrita e le loro energie represse furono investite in un’astrazione: “la Guerra”, il meccanismo autonomo di macello. Ma alcuni combattenti, e in prima file Ernst Jünger, non poterono rassegnarsi allo statuto di individui qualsiasi, sofferenti passivi dello strapotere del materiale. Essi tentarono dunque di recuperare la loro potenza perduta tramite un’identificazione proprio con quel meccanismo autonomo della “Guerra” che tiranneggiava le “masse”. Nel caso di Jünger» l’identificazione personale con la tecnologia autonoma divenne fonte di potere e autorità personali; tramite questa identificazione egli fu in grado di acquisire lo statuto di esecutore di un potere sovrapersonale, un potere che concedeva a coloro che si identificavano in esso una rinnovata, anche se “amorale”, capacità d’azione. È in quest’ottica che bisogna leggere l’affermazione di Jünger secondo cui la prima guerra mondiale produsse una nuova “Gestalt”, un “uomo tecnologico” che era tanto “duro”, “insensibile”, e “imperturbabile” quanto la stessa macchina da guerra.
In base a queste identificazioni la guerra in generale, e in particolare l’immagine della guerra come realtà industriale, “tecnologica”, acquista sovente un profondo significato soggettivo. Nei libri di guerra di Jünger è evidente che la “macchina” assomma tutte le altre caratteristiche della figura d’”autorità” in grado d’impartire sofferenze e punizioni, rimanendo ad esse impermeabile – la figura del padre, lo stato, la divinità. La posizione politica post-bellica di Jünger, il suo “conservatorismo radicale”, trae le mosse da un’esperienza di guerra in cui egli apprese, una volta di più, che l’individuo non acquisisce la sua capacità di azione e la sua autonomia tramite la ribellione contro quelle figure, bensì tramite l’identificazione con esse. […]
Per Jünger la guerra fu un’esperienza che liberò i figli della borghesia dalle loro origini sociali, rivoltandoli contro i loro genitori borghesi. […]
Al pari di tutti gli altri, Jünger esperì la guerra autentica come umiliazione, come tremenda rassegnazione; il nemico era scomparso dietro una maschera macchinica che impediva ogni confronto od osservazione. I successivi anni di guerra avrebbero solo intensificato le contraddizioni implicite in questa esperienza iniziale: la guerra non era la prova delle capacità e delle volontà individuali, bensì la soppressione di ogni valore connesso all’individuo. […]
Qui l’offensiva è l’atto che risolve tutte le inibizioni: essa permette a coloro che marciscono nelle trincee e nelle buche di granata di comportarsi finalmente come pirati e tagliaborse svincolati da ogni morale o coscienza. L’immagine di violenza sistematica nei confronti di un paese pingue e pacifico in compagnia di altri “armati di tutto punto” è necessariamente legata allo strapotere inibitore del fuoco d’artiglieria, al sistema di trincea, alle condizioni di immobilismo della guerra: sono proprio queste realtà, queste condizioni che creano le condizioni immaginarie dello straripamento di una feroce soldatesca in territori vergini. […]
Nei primi lavori di Jünger si può chiaramente cogliere - nell’idea dell’assalto di tipo militare e sociale - la sovrapposizione fra mondo sociale e mondo militare. È evidente che l’esperienza di guerra non è, almeno non a livello mentale, un’esperienza discreta, creatrice di nuove strategie psichiche; piuttosto, con i materiali dell’esperienza di guerra, Jünger semplifica e intensifica un tipo di conflitto psichico prettamente tradizionale. Da un lato stanno tutte le realtà restrittive e inibitorie - la tecnologia, la borghesia, la figura del padre - che servono a proteggere e a difendere un territorio amico e pacifico; dall’altro stanno le creazioni della realtà e della fantasia - il pirata predone, le truppe d’assalto, gli assassini segreti della coscienza borghese, giovani che erano a un tempo “costretti a sacrificare se stessi” e armati “dei massimi strumenti di potenza”. […]
In tutti questi frangenti, il personaggio del soldato è contrassegnato da un’elevata tensione ormai abituale: in termini patologici, questo carattere è basato su di una stasi, un equilibrio teso, che fomenta in continuazione fantasie di scarica, di liberazione. Qualora si voglia ricostruire il percorso che nell’opera di Jünger lega l’esperienza di guerra ad un’ideologia del tutto ambivalente, che combina totalitarismo e rivoluzione, si deve partire dalla situazione di fatto esistente della guerra di trincea. Proprio da questa situazione in cui le scariche pulsionali e la mobilità dei singoli combattenti erano inibite dalla tecnologia, risultò una mostruosa stasi fisica; ma nel particolare caso di Jünger, questa stasi assunse il carattere di una fissazione sulla tecnologia, approdando quest’ultima allo statuto di genitrice di una generazione intera.»
Se, dunque, la guerra moderna rappresenta l’estremo punto d’arrivo, da un lato, della industrializzazione, della gerarchizzazione e dell’anonimato dei modelli sociali e, dall’altro, della loro mistificazione ideologica (perché solo così si potrebbe ottenere il consenso nei confronti di una macchina di distruzione di tale apocalittico orrore), Jünger ha visto giusto nell’individuarne i legami di contiguità, logica e produttiva, con i meccanismi economici, sociali e politici che caratterizzano la modernità in quanto tale, anche in tempo di “pace”: che altro non è se non la tregua in attesa del riaccendersi d’un conflitto permanente.
Lo provano, fra l’altro, le evidenti analogie, riscontrate già nelle retrovie dei campi di battaglia, fra le nevrosi caratteristiche della società in tempo di pace e quelle che insorgevano nei soldati alle prese con l’esperienza diretta della guerra: nevrosi da gas, nevrosi da trincea, nevrosi da bombardamento e via di seguito.
Perfino la loro ripartizione per classi sociali riproduceva fedelmente la “distribuzione” del disagio mentale in tempo di pace: gli attacchi di ansia generalizzata, infatti, erano più diffusi tra gli ufficiali, provenienti dalle classi superiori; mentre le nevrosi “specifiche”, ad esempio quelle da gas (dopo che ebbe inizio la guerra chimica con l’attacco tedesco ad Ypres, in Belgio, nel 1915, mediante un aggressivo chimico passato alla storia, appunto, con il nome di “iprite”) erano più diffuse fra i soldati di truppa, provenienti dal proletariato.
Non aveva visto giusto, invece, Jünger - a nostro avviso - allorché confondeva lo slancio aggressivo del “soldato” con una forma di affermazione dell’individuo, addirittura dell’individuo eccezionale (al punto da teorizzare che la tattica della cosiddetta “difesa elastica”, adottata dallo Stato Maggiore dell’esercito per limitare il numero delle perdite e per facilitare l’azione manovrata di contrattacco sui fianchi, era contraria allo spirito del soldato, secondo lui naturalmente offensivo), perché non sapeva o non voleva riconoscere il carattere coercitivo della macchina militare da cui il singolo soldato totalmente dipendeva, ridotto in condizioni d’irrimediabile eteronomia.
Perciò la rivolta del “soldato” contro la massificazione era, in fondo, l’inconscia rivolta dell’uomo massificato contro se stesso: contro quella proiezione illusoria di se stesso che vestiva l’uniforme di un altro colore ed era perciò identificata con il “nemico”.
Non seppe o non volle vedere che il soldato, in una guerra moderna, cioè totale, è null’altro che un ingranaggio, anonimo e perciò sostituibile a volontà, della macchina-esercito; così come non saprà o non vorrà vedere che l’operaio, nella società moderna, altro non è che un ingranaggio, altrettanto anonimo e intercambiabile, della macchina-industria.
Molto più lucido e molto più coerente con le sue premesse individualistiche, conservatrici e tuttavia, o proprio per questo, irriducibilmente antiborghesi, è stato, secondo noi, l’ultimo Jünger, quello del Waldgänger, ossia dell’anarca che “passa al bosco” (una rivisitazione, in fondo, del “masnadiere” di schilleriana memoria) e riesce così, pur dovendo vivere nell’era dei Titani, a difendere almeno l’essenziale della propria individualità, del proprio spirito critico, della propria volontà di non sottomettersi ad un sistema omologante, che tutto abbraccia e che tutto livella con l’inesorabile efficienza produttiva della Tecnica.
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00:05 Publié dans Littérature, Militaria, Philosophie, Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : militaria, philosophie, littérature, littérature allemande, lettres, lettres allemandes, allemagne, ernst jünger, weimar, première guerre mondiale, histoire | | del.icio.us | | Digg | Facebook
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