samedi, 22 septembre 2012
William Morris, l'arte e il lavoro
di Alberto Melotto
Fonte: megachip [scheda fonte]
“La parola rivoluzione, che noi socialisti siamo così spesso costretti ad usare, suona in modo sinistro alle orecchie della maggior parte della gente, anche se noi ci affanniamo a spiegare che essa non significa necessariamente un cambiamento che si attuerà all’insegna di tumulti e di ogni specie di violenza, così come non potrà significare un cambiamento che si produrrà automaticamente e contro la pubblica opinione ad opera di un gruppo di uomini riusciti in qualche modo a impadronirsi momentaneamente dell’esecutivo. Anche quando spieghiamo che usiamo la parola rivoluzione nel suo senso etimologico, intendendo per essa un cambiamento nelle basi della società, la gente ha paura all’idea di un mutamento tanto vasto che ci supplica di dire riforma e non rivoluzione”. (William Morris)
Signore e signori, ecco a voi William Morris. Artigiano produttore di oggetti di arredamento, poeta, romanziere, affiliato alla confraternita artistica dei preraffaelliti, socialista utopista e profetico. Di rado nell’opera di uno studioso engagé di fine ‘800 si riscontrano, lucidamente evidenziati e confutati, gli snodi e le contraddizioni del movimento operaio novecentesco: il fallimento del modello del socialismo autoritario, l’acquiescenza socialdemocratica verso la rigidità di ruoli voluta dal potere borghese.
Inoltre, Morris sviluppò temi che i posteri non osarono nemmeno affrontare, senza dubbio per timore di sembrare ingenui, naif, poco allineati: la volontà di creare un mondo dove il lavoro sia gioia e creazione artistica, la critica disinvolta allo strapotere della scienza e della tecnologia, la rivalutazione dell’ambiente naturale, l’altra grande vittima, insieme all’uomo, del degrado e dello sfruttamento capitalistico.
Un suo grande ammiratore, Oscar Wilde, raccontava una confidenza fattagli dallo stesso Morris:
“Ho tentato di rendere ogni mio lavoratore un artista, e quando dico un artista intendo dire un uomo”.
Nato in un ambiente benestante, Morris trovò nella cittadella universitaria di Oxford il luogo ideale per lasciarsi affascinare da una miriade di diversi interessi culturali e artistici, e forse proprio per questo motivo non concluse nessun corso regolare di studi. Oltre al socialismo cristiano di Charles Kingsley, poi temporaneamente abbandonato in favore del radicalismo borghese di marca liberale, troviamo l’influsso determinante di John Ruskin, che gli instilla l’amore per l’architettura.
1. Il lavoro – valorizzazione delle capacità umane, non più strumento di oppressione
In Lavoro utile e inutile fatica, Morris mostra di voler sgombrare il tavolo da tutta una serie di luoghi comuni riguardanti il lavoro, prima di procedere nella direzione del teorizzare una nuova concezione sull’argomento.
È sbagliato, dice Morris, affermare entusiasticamente che ogni lavoro è una benedizione in sé. Congratularsi con il fortunato lavoratore per la sua operosità fa comodo soprattutto a coloro che vivono alle spalle degli altri. Non tutta la popolazione, infatti, è dedita ad attività lavorative, al contrario sussistono enormi differenze al riguardo.
Vi sono i ricchi, gli aristocratici:
“che non fanno alcun lavoro: sappiamo tutti che consumano moltissimo senza produrre nulla. Ne consegue che debbono evidentemente essere mantenuti a spese di coloro che lavorano, proprio come i mendicanti, e sono un puro fardello per la comunità”.
Vi è poi l’alta borghesia, la classe che Marx avrebbe definito come “proprietaria dei mezzi di produzione”, la quale è impegnata in una forsennata e feroce gara, in patria e all’estero, per l’accumulo della ricchezza, con l’unico fine di potersi astrarre dal lavoro, e divenire così improduttivi, come sono da secolo gli aristocratici.
Dopo la massa degli impiegati e dei soldati, ecco i lavoratori manuali, obbligati, e questo diviene il punto focale del ragionamento di Morris, a produrre:
“articoli lussuosi e stravaganti la cui domanda è legata all’esistenza delle classi ricche e improduttive, oggetti che chi conduce una vita degna e non corrotta non si sognerebbe neppure di volere”.
Morris sostiene dunque che il gusto della sua epoca per gli oggetti della vita quotidiana – mobilio, tendaggi – appare stravolto, avvelenato dai nefasti meccanismi di sfruttamento economico dell’uomo sull’uomo. Questa adulterazione del gusto si diffonde in ogni parte della società, poiché i poveri producono per uso personale dei manufatti che sono ridicole imitazioni del lusso dei ricchi. Tale deformità nel modo di concepire e di conseguenza guardare alle cose che prodotte proviene dalla disarmonica strutturazione del corpo sociale: una classe oziosa di improduttivi che si fa mantenere da un gran numero di schiavi.
Quali caratteristiche dovrebbe, invece, possedere il lavoro per donare speranza all’uomo, invece che causargli pena e sofferenza? Dovrebbe garantirgli la speranza del riposo: per quanto possa essere piacevole, esso comporta tuttavia una certa sofferenza animale nel mettere in moto le proprie energie. Il riposo dovrebbe essere abbastanza lungo, più lungo dello stretto necessario al recupero delle forze, e dovrebbe essere libero da preoccupazioni e da ansie.
Vi è poi la speranza del piacere del lavoro in sé: concetto, questo, rivoluzionario al massimo grado; Morris afferma risolutamente che l’uomo che lavora davvero utilizza le energie della mente e dell’animo oltre a quelle del corpo:
“la memoria e l’immaginazione lo aiutano nel lavoro. Non solo i suoi pensieri, ma anche i pensieri degli uomini delle trascorse età guidano le sue mani, egli crea in quanto parte della razza umana”.
La dimensione della creatività viene valutata come componente fondamentale nel dar corpo e significato all’atto del faticare, dare sfogo alle proprie capacità creative potrà dunque, donare quel piacere che sarà una soddisfazione quotidiana, una quotidiana ricompensa, nella società socialista. In una società di questo tipo, non si assisterà più al fenomeno dello spreco, da Morris certamente detestato: ovvero la produzione di sordidi surrogati per la povera gente che non può permettersi merce di buona qualità, e la produzione di oggetti pacchiani di lusso per i ricchi. Nella concezione di Morris, lo spreco è il volto perverso e malato della ricchezza di pochi, il profitto nato da uno stimolo produttivo insensato e privo di vere ragioni che non siano l’avidità.
2. Le opzioni di fondo – compromesso socialdemocratico, comunismo e anarchia
Eclettico come soltanto certe figure vittoriane seppero essere, simili ai grandi del rinascimento, William Morris non fu soltanto uomo di pensiero, ma fin dalla gioventù seppe coniugare la passione per l’arte (considerata a torto dal grande pubblico) minore, con una mentalità imprenditoriale decisamente controcorrente, sia dal punto di vista estetico che affaristico.
Nel 1861, all’età di 27 anni, fondò, nelle sue stesse parole, “una specie di ditta per la produzione di oggetti di arredamento”, alla quale si aggiunse col tempo una piccola ma originale casa editrice. La ditta Morris si dimostrò fedele al suo afflato iniziale, ovvero contribuire all’emancipazione economica e sociale dei suoi dipendenti. Gli operai poterono godere di un migliore salario e partecipare attivamente alla fase creativa. Tale volontà non era del tutto sconosciuta in terra d’Inghilterra, nella prima metà del secolo l’industriale Richard Owen aveva fondato dei laboratori dove i lavoratori potevano partecipare ai guadagni relativi ai frutti delle loro fatiche. L’iniziativa di Owen naufragò tristemente perchè i prodotti non incontrarono i gusti del pubblico.
Tornando a Morris, va detto che egli non si illudeva che iniziative come quella da lui portata avanti potessero influenzare la gran parte dell’avida classe imprenditoriale inglese. Lungi dal concedersi ad un paternalismo dickensiano, Morris riponeva le sue speranze in un’avvenire solcato da un cambiamento radicale nella struttura della società. Per questo avversava strenuamente ogni forma di compromesso socialdemocratico.
Morris seppe riconoscere quelle che sarebbero divenute le linee portanti, i binari della dialettica politica inglese per almeno un secolo a venire: una classe operaia poco interessata all’idea di un cambiamento strutturale di regime in senso socialista, ma attenta ad ottenere relativi miglioramenti in seno al luogo di lavoro (migliori salari, più sicurezza) e più garanzie sul piano della cittadinanza (sanità e istruzione pubblica, pensione). Questo compromesso socialdemocratico, inibitore del conflitto fra le diverse classi e portatore di pace sociale, veniva demandato dai lavoratori in primo luogo all’efficiente azione dei sindacati, delle Trade Unions, che seppero orientare fin da subito le politiche del Labour Party.
È cosa nota che una forte percentuale dei delegati del Labour venivano concessi per Statuto ai rappresentanti delle Trade Unions. Il nostro autore non nascose mai il suo dissenso, venato di disprezzo, per quelli che definiva come dei “palliativi”. Egli non era certo così insensibile da mostrarsi disinteressato a dei miglioramenti immediati nelle condizioni di vita delle classi più umili, ma temeva fortemente che queste limitate riforme venissero percepite come l’obiettivo finale. Questo apparente slancio avrebbe, in realtà, lasciati inalterati i rapporti di subordinazione, anzi di schiavitù, esistenti nella rigida società capitalistica inglese:
“Il fatto di dare a moltissimi, o anche pochi, poveri, una vita un po’ meno disagiata, un po’ meno miserabile dell’attuale, non è certo in sé un bene da poco: ma sarebbe un grave male se incidesse negativamente sugl sforzi dell’intera classe lavoratrice per la conquista di una vera società di eguali … quel che mi chiedo è se la terribile organizzazione della società civile commerciale non stia giocando al gatto col topo con noi socialisti; se la società dell’ineguaglianza non stia accettando il marchingegno pseudosocialista e non lo stia adoperando allo scopo di mantenere quella società in una condizione in qualche modo ridimensionata ma sicura”.
Il nostro compito, scrisse nell’articolo A che punto siamo?, è quello di formare i socialisti, di creare i presupposti di una coscienza sociale nuova, una coscienza sociale liberata dall’idea stessa di sfruttamento e di dominio. Fare a meno dei padroni. La sua coerenza lo portò in questo senso ad opporsi all’idea di mandare rappresentanti socialisti nel parlamento di Sua Maestà. Così, quando la Social-Democratic Federation, della quale era membro, nonché tesoriere, si espresse in massa per la partecipazione alle contese elettorali, egli favorì una scissione interna alla Federazione, che portò alla creazione della Socialist League, nel 1884. Testimonianza ricca di pungente sarcasmo di questa divisione è la lettera che Engels scrisse a Bernstein, e della quale riportiamo un passaggio:
“I dimissionari erano Aveling, Bax e Morris, i soli uomini onesti fra gli intellettuali, ma anche i tre più inetti, dal punto di vista pratico (due poeti e un filosofo), che per quanto si cerchi sia dato trovare”.
Certo le parole di Engels si debbono attribuire a un diffuso pregiudizio anti-umanista nella sinistra dell’epoca, resta da dimostrare che il tecnicismo positivista abbia saputo raggiungere risultati pratici di rilievo, a giudicare del disastro organizzativo della Russia di Stalin, Kruscev e Breznev ciò non sembra vero.
Non fermarsi fino alla piena realizzazione del socialismo, questa l’aspirazione di Morris, la realizzazione del comunismo. Con questo vocabolo egli intende porre l’accento sul diritto della popolazione ad accedere all’uso dei beni comuni, ovvero le risorse naturali come la terra. Anche sotto questo aspetto possiamo riscontrare la vicinanza del pensiero di Morris al corrente dibattito in seno al filone del pensiero decrescista, Latouche in primis. Tali beni comuni, non devono essere posseduti da singoli individui:
“In caso contrario, i proprietari dei mezzi di produzione saranno necessariamente i padroni di coloro che non possiedono abbastanza da liberarsi dal bisogno di pagare con una parte del proprio lavoro l’uso dei mezzi di produzione medesimi. I padroni o proprietari dei mezzi di produzione possiedono quindi praticamente i lavoratori: molto praticamente perché possono imporgli il genere di vita che devono condurre .. quindi le risorse della natura e la ricchezza usata per la produzione di ulteriore ricchezza, tutto insomma, dovrebbe essere messo in comune“.
Quanto ai meccanismi regolatori di questa futura società comunista, Morris si dimostra giustamente restio a fornire indicazioni troppo precise; in lui il desiderio di portare alla partecipazione diretta le masse popolari è così forte e convinto da non lasciar spazio a rigide direttive. Si può solo prevedere come quella società non sarà.
Non verrà abolita qualsiasi forma di autorità, con buona pace dell’ala anarchica più intransigente. L’esercizio di una qualche autorità è pur necessario, ma d’altra parte, i vincoli della futura società comunista saranno volontari. Una volta stabilite alcune grandi linee di principio, si lascerà grande spazio alla:
“varietà di temperamenti, capacità e desideri che esiste fra gli uomini in tutto ciò che non rientra nella sfera delle prime necessità”.
3. Alcune considerazioni finali
William Morris scrisse un romanzo utopico, News from nowhere, tradotto nella nostra lingua col titolo Notizie da nessun luogo, col preciso intento di raffigurare la società delle donne e degli uomini liberi. S’immagina che il narratore, un uomo di fine ‘800 nel quale è facile individuare un alter-ego dell’autore, venga trasportato magicamente in un futuro distante un centinaio d’anni, in un’Inghilterra liberata, grazie ad un’aspra guerra civile, dal dominio del capitale, un paese dove il benessere e la serenità sono condivisi dall’intera popolazione.
Va detto che la critica non considera il romanzo fra le vette più alte raggiunte da Morris in campo letterario, forse a causa di una raffigurazione fin troppo idilliaca e manichea di un tempo dove la felicità regna sovrana, tanto da far somigliare l’esistenza ad un “amoroso picnic”.
Ciò non sminuisce la cristallina volontà di pervenire ad una sostanziale rivoluzione, in grado di liberare l’essere umano da ceppi che sono prima di tutto di tipo culturale e psicologico. Morris non si tirò mai indietro, e nonostante le facili ironie engelsiane, seppe partecipare a cruente manifestazione di piazza, pur di accrescere il livello di protesta sociale. In particolare, è nota la sua partecipazione ad una delle tante Bloody Sunday, le domeniche di sangue, di cui è costellata la storia britannica.
In Londra in stato d’assedio, che come gli altri scritti finora citati fa parte della raccolta di articoli intitolata Come potremmo vivere, Morris ci racconta dei fatti del 13 novembre 1887, quando il governo tory-liberale, s’ispirò all’amorevole insegnamento di Bismarck per attaccare i disoccupati che avevano occupato Trafalgar Square.
La sua capacità d’immaginare un futuro e una società diversa ce lo restituisce come un fratello che solo l’ottusità e la parzialità di molto marxismo ci avevano tenuto nascosto, un obiettore di coscienza decrescista ante litteram. Valgano per William Morris le parole di Michail Bakunin:
“È ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non hanno mai avanzato di un solo passo”.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
00:05 Publié dans art | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : 19ème siècle, william morris, art, artisanat, angleterre | | del.icio.us | | Digg | Facebook
Les commentaires sont fermés.