lundi, 10 mars 2014
Le origini interne della strategia geopolitica statunitense
di Giulia Micheletti
Fonte: eurasia [scheda fonte]
“[…] ma se dobbiamo usare la forza, è perché noi siamo l’America: siamo la nazione indispensabile.”
Le parole di Madeleine Albright, Segretario di Stato durante la seconda amministrazione Clinton, sono state analizzate, criticate, citate in innumerevoli articoli, saggi e libri sugli Stati Uniti. Sebbene estrapolata dal contesto in cui venne usata, questa frase descrive con grande precisione e puntualità non solo il pensiero comune retrostante la politica estera statunitense, ma anche e soprattutto una visione del mondo, unica nella storia delle relazioni internazionali contemporanea.
È inoltre un buon punto di partenza per ripensare la strategia geopolitica degli Stati Uniti, visualizzandola come prodotto di processi più interni che internazionali. Le teorie classiche delle relazioni internazionali considerano solo Stati e organizzazioni come agenti che interagiscono con la struttura internazionale. Poco spazio è dedicato all’analisi dei processi formativi di politica estera, considerata variabile indipendente e non rilevante a fini esplicativi e di teorizzazione. Utilizzando invece l’analisi della politica estera si può comprendere la genesi e la natura della politica estera di un singolo Paese, e come agisce sul campo internazionale. Esaminando le variabili che intervengono nei processi decisionali, si può interpretare l’azione esterna degli Stati Uniti, e la loro postura geopolitica, come risultato di dinamiche e modelli comportamentali domestici. Si può dunque ipotizzare che, utilizzando le teorie dell’analisi della politica estera, e particolarmente il modello della rivalità burocratica e il modello del processo decisionale elitario, si possano meglio comprendere le difficoltà che gli Stati Uniti incontrano nell’operare un riassetto strategico e geopolitico che vada oltre schemi decisionali residui della Guerra Fredda.
Uno di questi residui cognitivi ed emotivi è perfettamente riflesso nelle parole della Albright: gli Stati Uniti si sono assunti il compito di “poliziotto del mondo”, e nella coscienza collettiva statunitense la percezione di essere “eccezionali” è forte e ben radicata. L’eccezionalismo americano è un concetto fondamentale per l’identità statunitense: un Paese nato da una guerra di liberazione coloniale non può non essere destinato, agli occhi dei cittadini, a essere un modello di libertà per il resto del mondo e ad avere la missione di rimodellare il mondo a propria immagine. È da quest’idea di “eccezionalità” che deriva la propensione “missionaria” degli Stati Uniti di promozione della democrazia; né d’altro canto è sorprendente che da essa derivi anche un’enfasi persistente sulla propria supremazia nell’ordine globale. Le ultime due affermazioni sono tra di loro collegate: un Paese eccezionale, che, secondo l’ottica occidentale, godrebbe del miglior sistema democratico del mondo, ha non solo la responsabilità di essere un buon esempio per gli altri Paesi, ma ha anche la responsabilità di controllare e sorvegliare l’ordine internazionale. Non è dunque un caso che in ogni National Security Strategy, il documento che delinea l’indirizzo strategico statunitense, obiettivo costante è il mantenimento dell’influenza globale (intesa sia come soft power che come tradizionale proiezione del potere) degli Stati Uniti; influenza che garantirebbe, dunque, autorità agli Stati Uniti e permetterebbe loro di legittimare le proprie azioni a livello internazionale.
Questo particolare modo di concepire se stessi e la realtà internazionale spiega l’atteggiamento unilaterale che gli Stati Uniti privilegiano negli affari internazionali: gli interventi internazionali, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la gestione ambigua e discontinua della questione iraniana, e una certa propensione a considerare con distacco le regole e normative imposte dalla struttura internazionale. Certi atti di politica estera possono essere interpretati come sintomi di imperialismo o effetti di una cultura politica realista; si può invece ipotizzare che la costanza e la coerenza di tali atti sia dovuta a un mancato ripensamento di schemi cognitivi e interpretativi. Ciò avviene a causa di modalità di decisione disfunzionali che hanno luogo a livello dell’esecutivo, e in particolare nei gruppi e dipartimenti burocratici preposti a definire la politica estera statunitense.
Molto è stato scritto in tempi recenti sui cosiddetti BRICS, sulla loro ascesa nell’arena internazionale, sul ruolo che in essa possano avere, e sull’incertezza che Paesi come la Cina, la Russia o anche il Brasile possano accettare di entrare a far parte di una struttura internazionale la cui architettura è di origine prevalentemente statunitense. Questo dibattito è spia di un processo in atto, di cui difficilmente si potrà invertire la rotta: il passaggio da un sistema unilaterale a un sistema multilaterale. Questo passaggio comporta sicuramente una nuova dimensione diplomatica, che sia inclusiva e negoziale, nell’approccio agli affari internazionali; potrebbe comportare una ridefinizione delle norme che ne regolano lo svolgimento. La politica estera statunitense nell’ultima decade ha segnalato una certa confusione riguardo a questo processo: la “dottrina Bush” era su un versante completamente unilateralista, mentre l’amministrazione Obama ha prodotto dei cambiamenti, ma non ha chiarito il ruolo degli Stati Uniti in un nuovo mondo multilaterale. La mancanza di chiarezza sul ruolo statunitense (nazione indispensabile o partner multilaterale?) ha impedito un serio ripensamento della postura geopolitica e strategica degli Stati Uniti: in questo senso il pivot verso l’Asia è la ripetizione di un vecchio schema, che ha come obiettivo il mantenimento di una posizione di supremazia, mascherato da cambiamento strategico. Gli Stati Uniti si muovono sullo scacchiere internazionale secondo una logica da Guerra Fredda, che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati. Cosa impedisce un ripensamento di questo modello anacronistico di concepire le relazioni internazionali?
La fine della Guerra Fredda non ha solo lasciato gli Stati Uniti nella posizione di unica superpotenza globale, ma ha riportato in vita conflitti etnici, nazionali e religiosi rimasti sopiti per oltre quarant’anni. Questa situazione di micro e macro-conflittualità regionale ha lasciato perplessa una nazione entrata nella scena internazionale con la prima grande guerra, e divenuta superpotenza dopo la seconda: l’approccio statunitense è sempre stato globale, non regionale. La difficoltà nell’interpretare fenomeni vecchi e nuovi, slegati da un contesto di balance of power internazionale, ha causato una grande confusione strategica negli anni ’90, confusione che è solo peggiorata dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Incapaci di interpretare il terrorismo come un fenomeno tattico, e non strategico, gli Stati Uniti lo hanno sostituito al comunismo come nuova minaccia esistenziale e hanno dato il via alla disastrosa politica mediorientale di inizio millennio. Il contesto mediorientale si presta bene all’analisi di una politica estera restia a ripensamenti strategici e ideologici, poiché alla difficoltà di creare un nuovo ruolo per gli Stati Uniti nella regione si aggiunge un radicato “orientalismo” come ulteriore complicanza. Il concetto di orientalismo, sviluppato dal teorico post-colonialista Edward Said, ripensa la contraddizione tra Est e Ovest interpretandola come il risultato di una distorsione intellettuale operata da scrittori, teorici e politici occidentali, i quali hanno contribuito a creare una percezione dell’Oriente (e del Medio Oriente) come insieme di realtà “altre”, stereotipate e immutabili. L’orientalismo americano, ben presente nella coscienza collettiva dei gruppi decisionali, segue questa teorizzazione classica e vi aggiunge elementi di profonda sfiducia e diffidenza nei confronti della religione islamica.
Vecchi schemi cognitivi sono dunque vivi e persistenti nella politica estera statunitense. La difficoltà nel sostituirli trova una spiegazione nel particolare modello decisionale adottato dagli Stati Uniti, modello che esalta la funzione dell’esecutivo, in primo luogo nella figura del presidente, e ne incoraggia la natura elitaria, favorendo dunque fenomeni come rivalità burocratiche e “groupthink”. Combinati con la pervicacia del Congresso nella difesa della natura “eccezionale” degli Stati Uniti, questi modelli possono gettare luce sulle modalità disfunzionali con cui la politica estera viene decisa e dunque, di conseguenza, su quanto la stessa politica estera sia, una volta implementata, fallace o fallimentare.
Il concetto di groupthink è stato elaborato da Graham Allison nel 1969, e prende come esempio la crisi missilistica cubana per esaminare le dinamiche decisionali in un gruppo elitario. In questo modello, gli individui che operano in un gruppo ristretto tendono a conformarsi al pensiero maggioritario, eliminando l’elaborazione critica e la valutazione oggettiva dei dati. Diverse variabili intervengono in questo processo, e il suo risultato dipende anche dalla personalità del presidente, dall’accessibilità o meno di agenti esterni al gruppo, dal tipo di gerarchie che si stabiliscono e dalla sua struttura interna. Questo modello è utile soprattutto in caso di crisi internazionali, dove il potere è nelle mani del presidente e del suo entourage, che consiglia e fornisce informazioni. La presenza di groupthink è più probabile in gruppi coesi, ed è stato notato che il modello si adatta bene all’esecutivo statunitense. Ovviamente i consiglieri presidenziali sono stakeholder nel gruppo: ognuno di loro avanza la proposta che meglio si accorda con i propri interessi (siano essi politici, economici, ideologici, personali) ed entra in conflitto con gli altri. La soluzione di questo conflitto può essere il compromesso, o la paralisi decisionale, in casi di minore coesione interna. Se il gruppo è invece più coeso, la soluzione di politica estera è spesso una decisione maggioritaria. Dunque la conformità, o il minimo comun denominatore, determinano la politica estera: in entrambi i casi il dissenso e la ricerca di nuovi metodi e interpretazioni sono ostacolati dal groupthink.
Il modello della decisione politica elitaria spiega molte delle decisioni prese dagli Stati Uniti riguardo la regione mediorientale. Nel suo ultimo libro, Fawaz Gerges pone l’accento sulla cronica mancanza di esperti di area nell’entourage presidenziale. Ciò è vero per ogni area del mondo, e dunque anche per il Medio Oriente; cosa comporta per lo sviluppo di una politica estera efficace? Gli esperti di area conoscono le sfaccettature e le dinamiche di una regione, e sarebbero dunque in grado di fornire una valutazione corretta delle informazioni e di suggerire risposte complesse a problemi complessi. Rappresentano però una parte minoritaria dei gruppi decisionali, dove il prevalere di un processo decisionale conforme impedisce la ricerca di nuove soluzioni e lo sviluppo di nuove strategie.
Al modello del groupthink va aggiunto il modello delle rivalità burocratiche. In presenza di rivalità burocratiche, la politica estera è la soluzione o la mediazione di un conflitto tra diversi rami e dipartimenti governativi: ciascuno di essi ha un’idea precisa, e diversa, di cosa sia l’interesse nazionale e di come dovrebbe essere perseguito: da queste differenti definizioni nascono i conflitti burocratici. Il Congresso, il Dipartimento di Stato, il personale diplomatico, la comunità dell’intelligence sono spesso in conflitto con e di fronte all’esecutivo per quanto riguarda la politica estera. Un facile esempio è l’approccio alla questione del nucleare iraniano: in questo caso, il Congresso, dove la pratica del lobbismo è diffusa (in questo caso fu forte la spinta all’intervento da parte dell’American Israel Public Affairs Committee) fece pressioni per un intervento armato, durante l’amministrazione Bush, mentre la CIA e il Dipartimento di Stato si espressero duramente contro questo tipo di soluzione. Le rivalità burocratiche, in ogni caso, emergono più facilmente in contesti di rilevanza minore, quando è assente la pressione dettata dall’urgenza di una crisi internazionale. Questo tipo di modello può essere utilizzato per spiegare i contrasti che spesso dividono esecutivo e Congresso, e può spiegare l’estrema riluttanza da parte di quest’ultimo a partecipare alla stesura di norme internazionali, e di conseguenza a rispettarle. Innumerevoli trattati, che diplomatici statunitensi hanno contribuito a redigere, non sono mai stati ratificati dal Congresso, una mancanza giustificata da una presunta minaccia alla sovranità nazionale degli Stati Uniti. Sembra dunque logico affermare che il Congresso crede prioritario il mantenimento dello status di nazione super partes nel consesso internazionale.
Unendo le due teorie, emerge la grande complessità del processo decisionale di politica estera statunitense. La rivalità tra Congresso ed esecutivo, aggravata nell’ultimo decennio dall’inasprimento della lotta partitica, è parte della difficoltà nel generare una postura geopolitica corretta: la supremazia statunitense e la superiorità alle regole internazionali mal si adattano a uno scenario globale multilaterale. A questo malfunzionamento politico si aggiungono gli effetti del groupthink e l’impatto deviante che hanno sull’elaborazione di una politica estera efficace e dinamica. Conformità, mancata elaborazione critica, difetti di informazione e persistenza di schemi cognitivi usurati guidano la politica estera seguendo schemi di comportamento familiari e non problematici. Nuove soluzioni, originate da schemi cognitivi rinnovati, non sono né cercate né trovate.
La strategia geopolitica statunitense può dunque essere interpretata come prodotto di processi domestici. È a causa loro che gli Stati Uniti faticano a ridefinire l’idea di se stessi e del loro ruolo nel mondo e, di conseguenza, ad adottare una nuova visione strategica che tenga conto delle esigenze e dei problemi di un mondo multipolare.
*Giulia Micheletti è laureata in Geopolitics and Grand Strategy presso la University of Sussex
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L’Inde soutient la Russie dans la crise ukrainienne
L’Inde soutient la Russie dans la crise ukrainienne
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Notre estimé MK Bhadrakumar attire notre attention sur une intervention du conseiller de sécurité nationale du gouvernement indien Shivshankar Menon (notamment rapportées par le Times of India de ce 7 mars 2014). Menon estime que la Russie a des “intérêts légitimes” en Crimée, ce qui revient, pour le moins, à “comprendre” avec une nuance presque approbatrice la position russe en Crimée et vis-à-vis de la crise ukrainienne.
Cette position indienne est doublement surprenante, d’une part parce qu’elle marque un engagement inhabituel de ce pays dans une crise majeure, contre le bloc BAO et les USA, d’autre part parce qu’elle surpasse largement le “soutien” ambiguë de la Chine à la Russie. La Chine favorise en général les coups d’arrêt à l’hégémonie du bloc BAO, ce qui implique un certain soutien à la Russie, mais se montre intraitable sur la question du principe de la souveraineté, ce qui porte une ombre sur ce soutien dans la circonstance présente, – et bien qu’il reste à savoir qui est investi et protecteur de ce principe lorsqu’on mesure les circonstances ayant mené à la chute de Ianoukovitch ... (Selon MK Bhadrakumar, «China is indulging in doublespeak. Its propaganda apparatus queers the pitch for the West’s confrontation with Russia and, in fact, blatantly admits that Moscow is also fighting China’s cause by resisting western hegemony, while at the same time, Beijing’s diplomacy marks a careful distance from the Russian stance and takes to the high ground of ‘principles’.»)
La position indienne est une marque de plus des bouleversements en cours dans la situation internationale, avec surprises et désordre à mesure... Voici comment Bhadrakumar salue cette prise de position de son pays, lui qui est rarement tendre pour l’équipe au pouvoir, le 7 mars 2014 sur son Indian PunchLine) :
«The National Security Advisor Shivshankar Menon’s remark to the effect that Russia has “legitimate interests” in the Ukraine developments, as much as other interests are involved, is a statement of fact at its most obvious level.
»Russia’s interests in a stable, friendly Ukraine are no less than what India would have with regard to, say, Nepal or Bhutan. Delhi simply cannot afford to have an unfriendly government in Kathmandu or Thimpu, and it is hard to overlook the gravity of Russian concerns that ultra-nationalists staged a violent coup in Kiev. But Menon’s statement inevitably becomes a big statement, not only because he is a profoundly experienced and thoughtful scholar-diplomat but also given the high position he holds and his key role as an architect of India’s foreign policy in the recent years. Simply put, he is India’s voice on the world stage.
»To be sure, what Menon said will reverberate far and wide and would have been the content of many coded cables relayed by the antennae atop the chancelleries in Chanakyapuri to the world capitals yesterday. The point is, what Menon said is one of the most significant statements made by Delhi in a long while regarding the contemporary international situation. No doubt, the Ukraine is a defining moment in the post-cold era world politics and by reflecting on its templates, Menon voiced India’s concern over the dangerous drift in world politics...»
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Pourquoi les Allemands n’ont guère envie de se fâcher avec Poutine
Pourquoi les Allemands n’ont guère envie de se fâcher avec Poutine
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Un rapport officiel alarmant sur la situation des droits-de-l’homme aux États-Unis
La Chine vient de publier un rapport officiel alarmant sur la situation des droits-de-l’homme aux États-Unis

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Eric Dardel et L’homme et la terre, 1952
Eric Dardel et L’homme et la terre, 1952
Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com
Attention, géographe non conforme.
Eric Dardel peut être présenté comme un mal aimé pour son temps, ou devrions-nous plutôt dire "un ignoré". Né en 1899, mort en 1967, Eric Dardel fut un professeur d'histoire géographie qui appréciait la philosophie, mais fut également un homme de foi, vivant "authentiquement" son protestantisme. C'est donc tout naturellement qu'il édifia un ouvrage géographique imprégné de philosophie et d'humanité.
Paru et aussitôt oublié en 1952, L'homme et la terre présente « des courants de pensée novateurs de la géographie contemporaine, celui de la phénoménologie, des perceptions et des représentations par les hommes de leur environnement terrestre » (7ème de couverture).4
Pourquoi cet auteur fut-il oublié et en quoi est-il au final une des clefs de voute de la pensée géographique actuelle ?
La question peut se poser, compte tenu du fond et de la forme de ce livre.
I- Un ouvrage de géographie ou de philosophie ?
A vrai dire, pour y répondre, il faut admettre le fait qu'Eric Dardel se place, dans ce livre, autant en géographe qu'en philosophe et en expérimentateur d'existence.
A ce sujet, on pourra noter que la géographie n'est absolument pas incompatible avec la philosophie.
Kant en fut la preuve vivante puisqu’avant d’être le philosophe réputé que l’on connaît et que l’on étudie encore beaucoup aujourd’hui, il fut professeur de géographie physique (Physische Geographie, 1802, – condensé des 49 cycles de cours à la géographie physique qu’il a a donné entre 1756 et 1796).
Par ailleurs, faut-il rappeler toutes les réflexions philosophiques qu’entoure la question de l’espace, notamment à travers les travaux de Leibniz pour qui « l’espace est quelque chose d’uniforme absolument ; et sans les choses y placées, un point de l’espace ne diffère absolument en rien d’un autre point de l’espace »[1] (pour résumer : l’espace est un tout immuable qui existe indépendamment des choses et des hommes (et de leur point de vue)) et de Kant pour qui « l’espace n’est rien autre chose que la forme de tous les phénomènes des sens extérieurs, c’est-à-dire la condition subjective de la sensibilité sous laquelle seule nous est possible une intuition extérieure […] Nous ne pouvons donc parler de l’espace, de l’être étendu, etc., qu’au point de vue de l’homme »[2] (pour résumer : l’espace est construit subjectivement par l’homme, il est à travers le point de vue de l’homme).
Dardel a un parcours philosophique fidèle aux grandes évolutions philosophiques de son temps. Il est à ce point héritier de Kant, et très proche de la pensée existentialiste et phénoménologique d’Heidegger surtout et de Merleau-Ponty.
Les questions entre autre posées par ces philosophes sont les suivantes : comment se place l'homme dans l'inventaire fait de toutes les choses du monde ? Comment est-on soi-même ?
En phénoménologie, l'homme n'est pas un spectateur extérieur du monde. L'homme est dedans, et ce dès qu'il le perçoit – la perception entrainant alors tout le registre de la sensibilité (que l'on retrouve beaucoup dans le style employé par Dardel dans son ouvrage).
Eric Dardel, suivant ces préceptes, semble l’un des premiers à voir ce que la géographie peut tirer de la phénoménologie et de l’existentialisme, à entrevoir le lien qui noue toute personne avec son environnement, sur les relations existentielles que nouent l'homme et la terre.
Cette approche permet à Dardel d’apporter une vision totalement novatrice, mais ignorée à l’époque, sur la géographie.
La structure même de son livre permet d’entrevoir les grandes lignes de son approche, à savoir d'abord les différents types d'espace, puis le fait que la géographie n'est pas la nature, mais la relation entre l'homme et la nature, ce qui entraine une relation à la fois théorique, pratique et affective (du terrestre dans l'humain, et non de l'humain au terrestre). C’est cette seconde partie qui est réellement le cœur de cette nouvelle approche géographique.
Avec ce livre, Eric Dardel a posé les bases de la géographie des perceptions. Il se place comme le porte flambeau de la "géographie de plein vent", expression inventée par Lucien Febvre et qui s'oppose à la "géographie de cabinet", celle qui se fait dans les bureaux grâce à des statistiques, des comptes rendus de voyage, des cartes, etc.
Cette géographie peut être aussi assimilée aux cours en plein air, la "géographie de terrain", du spécialiste de la géographie régionale André Cholley (1886-1968).
En outre, pour reprendre un passage très percutant du géographe Claude Raffestin – auteur d’une étude toute en finesse de Dardel, de son œuvre et aussi et surtout du Pourquoi n’avons-nous pas lu Eric Dardel ?[3], – on peut dire que Dardel fut un véritable avant-gardiste victime de sa clairvoyance :
« Le drame de Dardel est d'avoir été en avance d'un paradigme sur ses contemporains. Formé au paradigme du «voir», il a écrit au moment où triomphait celui de l'« organiser» alors qu'il postulait celui de l'« exister ». Dardel n'assure aucune transition, il n'est pas à une charnière, il anticipe... et il est seul ou presque. Il est même d'autant plus seul que ses références géographiques le desservent en partie auprès des jeunes géographes et que paradoxalement celles de nature historique, philosophique et littéraire appartiennent dans les années cinquante à un courant qui s'estompe... mais qui réapparaîtra un quart de siècle plus tard, juste hier et aujourd'hui. »[4]
II- Quelle géographie ressort de l’œuvre de Dardel ?
Et bien ce n’est pas à proprement parlé une géographie, mais des géographies.
Ce qui importe le plus à Dardel, c’est « de suivre l’éveil d’une conscience géographique, à travers les différents éclairages sous lesquels est apparue à l’homme le visage de la Terre. Il s’agit donc moins de périodes chronologiques que d’attitudes durables de l’esprit humain vis-à-vis de la réalité environnante et quotidienne, en corrélation avec les formes dominantes de la sensibilité, de la pensée et de la croyance d’une époque ou d’une civilisation. Ces « géographies » se rattachent chaque fois à une certaine conception globale du monde, à une inquiétude centrale, à une lutte effective avec le « fond obscur » de la nature environnante. »[5]
Au fond donc, ce qui anime le projet de Dardel, c’est de montrer les relations multiples et complexes, mais hautement colorées, qui existent entre des peuples, des hommes, ou une personne, avec son environnement. Et cette relation est de l’ordre de l’affectif.
Ainsi, lorsqu’il parle de « géographie mythique », il évoque une « relation existentielle [qui] commande quantité de rites et d’attitudes mentales. »[6]
Pour cette géographie mythique, il emprunte beaucoup à Mircéa Eliade et notamment son ouvrage Traité d’histoire des religions. Concrètement, donc, la terre, la mer, l’air, le feu, pour reprendre des thèmes chers à Gaston Bachelard, sont au cœur du processus d’échange et de coexistence entre la terre en sens large et les hommes. D’ailleurs notons que les « hommes » pris en exemple sont souvent des peuplades aux rapports très privilégiés avec leur environnement, qui est souvent peu maniable (nordicité, aridité, forêt sempervirente).
« Puisque la Terre est la mère de tout ce qui vit, de de tout ce qui est, un lien de parenté unit l’homme à tout ce qui l’entoure, aux arbres, aux animaux, aux pierres même. La montagne, la vallée, la forêt, ne sont pas simplement un cadre, un « extérieur », même familier. Elles sont l’homme lui-même. C’est là qu’il se réalise et qu’il se connaît.[7] »
Le mythe joue un rôle primordial dans l’élaboration d’un dialogue entre cette nature, cet environnement, et les hommes. Ces mythes permettent d’ailleurs de faire le lien entre une Terre « berceau » ou « origine », et une Terre qui est présence actuelle.
« La Terre se manifeste comme actualisation sans cesse renouvelée en vertu de la fonction éternisante du mythe.[8] »
Il n’y a donc pas de rupture, pas de discontinuité entre le mythe et le discours, entre le religieux et la logique (Raffestin, page 476), mais bien une « totalité ». Dardel parle du mythe comme d’un absolu, absout du temps comme date et moment[9].
III- Quel usage faire de ces propos avec la géographie ? Que peut en retenir la géographie ?
L’aspect novateur des idées développées par Dardel est de mettre en avant la tension qui existe entre le vécu et le connu. Il amène dans la géographie l’importance, non pas du décryptage de la Terre, mais du décryptage des relations mutuelles entre la Terre et les hommes.
Dardel oscille donc « entre géographie de plein vent et géographie scientifique ». Ici, la géographie de plein vent serait cette perception de la Terre et ses relations avec et en l’homme. La géographie scientifique serait surtout fondée sur une méthodologie et une problématique.
On le sait bien aujourd’hui que la géographie est le fruit des évolutions épistémologiques de ce dernier gros siècle et demi (depuis le milieu du XIXe siècle).
Dardel, qui fut redécouvert dans les années 70-80 par les géographes sensibilisés par les nouvelles thèses philosophiques, sociologiques et anthropologiques (pensons à Levi-Strauss et le structuralisme, Morin et l’approche systémique, Foucault et Derrida et le déconstructionnisme), a apporté le subjectivisme dans l’approche géographique. Cette dernière n’en était pas totalement à son premier coup d’essai puisque le géographe Armand Frémont avait déjà initié la géographie à l’« espace vécu » (La région, espace vécu, 1976). Mais, Dardel reste clairement en avance de 25 ans, soit une génération.
Cette subjectivité permet à la géographie d’aborder aujourd’hui les questions de l’exister dans un espace donné, d’habiter un territoire, et de saisir les liens et les relations multiples qui existent entre les acteurs ou actants, et ces espaces donnés (et cela à toutes les échelles d’analyse).
Enfin, il faut reconnaître à Dardel une plume qui se fait rare dans le monde de la géographie, et même de façon générale dans le monde scientifique. A croire que la rigueur scientifique ne peut s’exprimer que par une austérité du style.
En somme donc, le plaisir de lire Dardel va de pair avec la richesse conceptuelle qu’il ressort de son livre.
A lire.
Aristide pour le Cercle Non Conforme
Note du C.N.C.: Toute reproduction éventuelle de ce contenu doit mentionner la source.
Notes et ouvrages:
[2] E. KANT, Critique de la raison pure, Paris, Ed. PUF, 1944, pp. 58-59.
[3] RAFFESTIN Claude, « Pourquoi n’avons-nous pas lu Eric Dardel ? », Cahiers de géographie du Québec, 1987, vol. 31, n° 84, pp. 471-481. Disponible sur http://archive-ouverte.unige.ch/unige:4356 .
[4] Ibid, page 473.
[5] L’homme et la terre, page 63.
[6] Ibid, page 65.
[7] Ibid, page 66.
[8] Ibid, page 69.
[9] Ibid, page 69.
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Mondialismo e Sessualità. L’avvento dell’uomo senza identità
Mondialismo e Sessualità. L’avvento dell’uomo senza identità
Il nemico principale di chi, nella realtà contemporanea, si batta per valori comunitari e tradizionali, senza dubbio alcuno, va identificato nell’ideologia liberale. Essa ha saputo produrre e produce allo stato attuale delle cose un’azione profonda e pervasiva tale da condizionare visioni del mondo che, almeno al loro sorgere, avevano tratti oppositivi nei confronti del dominio incontrastato dell’utile e delle prassi sociali mirate alla realizzazione di profitti sempre più ampi. Oggi assistiamo ad una fuorviante e teatrale divisione dei ruoli politici che, falsamente, contrappone una destra ad una sinistra. Nella realtà la “destra del mercato” impone le regole economico-finanziare alle società globalizzate, mentre la “sinistra del costume” indica e contribuisce a diffondere i modelli e gli stili di vita funzionali alla riproduzione del sistema economico totalitario della governance. Entrambe, come è stato ben spiegato da Guy Hermet, segnano i confini intellettuali del politicamente corretto, oltre i quali sono posti in “isolamento ininfluente” (nei migliori dei casi), i Nuovi Reprobi, coloro che ripropongono Tradizione, ragione naturale o, addirittura, valorizzano il senso comune quale difesa dai Lumi rinascenti del Nuovo Regime.
Sul tema, e su altro ancora, ha attirato la nostra attenzione un recente volume di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità” edito da Arianna editrice (per ordini:051/8554602; redazione@ariannaeditrice.it). Dopo aver abbattuto gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del mondo global, dopo aver di fatto straziato ogni appartenenza identitaria, ogni forma residuale di legame o vincolo tradizionale tra gli uomini, dopo aver de-sacralizzato la natura, ridotta a mera estensione, ecco i potentati mondialisti porsi “laicamente” (questa è la loro religione) al servizio dell’ideologia di genere. Ciò nel tentativo di creare l’uomo nuovo, consumatore “senza identità”. Secondo tale ideologia il maschile e il femminile non sarebbero distinzioni naturali ma prodotti culturali, imposti dalle scelte educative “sessiste” nel corso di millenni. Tra il maschio e la femmina esisterebbero, inoltre, un numero indefinito di altri generi, comprendenti le diverse forme di omosessualità, la pedofilia, la bisessualità, considerate naturali allo stesso modo dell’eterosessualità.
Il libro, ricco di dati e statistiche e che coinvolge nel narrato il lettore, ripercorre la storia dell’ideologia di genere. Ricordano gli autori che padre ufficiale del gender è da considerarsi lo psichiatra americano John Money, sostenitore della “nuova sessualità”. A suo dire la differenziazione culturale dei sessi sarebbe riducibile a: “…mero ornamento, una realtà che quindi può diventare superata e obsoleta” (p. 41). Purtroppo, uno dei suoi primi e tristemente noti pazienti, David Reimer, divenuto a seguito di un intervento chirurgico subito da bambino, Brenda Reimer, lo smentì drammaticamente, suicidandosi per gli squilibri indotti dal cambio di sesso. Le tesi di Money cominciarono a circolare ampiamente nel momento in cui diventarono uno strumento che i Poteri Forti decisero, dopo gli anni Settanta, di utilizzare per i loro fini: creare l’Uomo Nuovo compatibile con il progetto del Nuovo Ordine Mondiale. Un essere: “… resettato e omologabile, stereotipato e apolide” (p. 33). Il braccio militante del gender è oggi facilmente individuabile nei movimenti gay che, allo scopo, come ricordano con dati puntuali Perrucchietti e Marletta, dispongono di ingenti fondi elargiti da Fondazioni e miliardari, tra i quali figurano gli immancabili George Soros e Bill Gates. Tra i sostenitori politici d’oltreoceano del movimentismo omosessuale, del resto, non vanno annoverati solo liberal come Obama, ma anche nomi importanti degli ambienti neoconservatori.
Il successo propagandistico delle loro azioni negli ultimi decenni è stato rilevante in tutto il mondo. Non solo nelle leggi di molti paesi occidentali, ma nell’immaginario collettivo dell’uomo medio, l’omofobia è equiparata al razzismo e all’antisemitismo, un reato, quindi, punibile penalmente e ritenuto esecrabile sotto il profilo etico. Le recenti polemiche internazionali che hanno coinvolto Putin e la Russia ortodossa e antimondialista stanno a testimoniare come le cose oggi procedano. Noi italiani non possiamo certo meravigliarci. L’imprenditore Guido Barilla, uno dei nomi più noti internazionalmente del nostro settore agroalimentare, ha subito un vero e proprio linciaggio mediatico per aver sostenuto in una intervista che non si sarebbe servito di una coppia gay in spot pubblicitari, ritenendo naturale la famiglia etero. Apriti cielo! In poco tempo è stato costretto a correggere il tiro e a “edulcorare” le dichiarazioni, affinché i prodotti delle sue imprese non venissero boicottati sul mercato.
Molto interessante, in un capitolo del libro, è l’analisi delle strategie messe in atto per diffondere l’ideologia gender. Innanzitutto la desensibilizzazione: consiste nell’inondare la società di messaggi di genere affinché l’opinione pubblica giunga a considerarli normali. Il secondo momento è detto del bloccaggio: fermare immediatamente, attraverso il discredito pubblico, bollando come reazionario, nazista, bigotto, chiunque si opponga alle tesi gender. Le prime due strategie sono mirate alla conversione finale, in parte già realizzata. Il comune modo di sentire ha accettato l’ideologia di genere. Il nuovo modello di umanità è costruito sull’idea dell’incontro di tratti somatici dell’uomo con quelli della donna. È l’Unisex trionfante. A ciò hanno contribuito la moda, la chirurgia estetica, il mondo dello spettacolo e i serial televisivi. I maggiori divulgatori di questa tendenza, in particolare presso le nuove generazioni, sono state star internazionali della musica che, a bella posta, hanno giocato sulla presunta o reale ambiguità sessuale. Basti al riguardo fare il nome di Lady Gaga. Lo stesso sistema educativo è ormai condizionato da un modello umano sessualmente e moralmente incerto, si parla di Genitore 1 o 2, anziché di padre e madre. In alcuni paesi europei, al momento della nascita, la definizione del sesso è facoltativa, si può addirittura indicare sul certificato il genere intersessuale con una “x”.
Siamo destinati, pertanto, ad andare verso un mondo che non conoscerà più le diversità che si attraggono e si respingono nell’eterno gioco cosmico della vita? Ci auguriamo di no. In ogni caso rispetto alla situazione attuale, descritta organicamente dai due autori, è necessario attivare degli anticorpi che inneschino una reazione salutare. E’ indispensabile recuperare la tensione all’originario, sempre centrale nelle dottrine tradizionali dell’eros. L’androgino platonico è l’archetipo cui guardare quale ancestrale aspirazione alla completezza perduta. L’uomo potrà incontrarlo di nuovo solo se la tensione che muove le polarità opposte e complementari del maschio e della femmina, sia esperita, prima che nella realtà fisiologica del corpo umano, sotto forma di potenza spirituale. Al riguardo, nel momento in cui il consumismo nell’Italia degli anni Cinquanta cominciava a travolgere le radici tradizionali del nostro popolo, Julius Evola scrisse un’opera in grado di rispondere alla follia del gender, Metafisica del sesso. Bisogna tornare a leggerla con attenzione. Nelle sue pagine l’eros apre all’Alto, è forza riconnetteva e realizzante. Una risposta forte alla debolezza, anche erotica, della modernità.
Giovanni Sessa
00:05 Publié dans Philosophie | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : philosophie, globalisation, identité, mondialisme, mondialisation, sexualité | |
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Syria will persevere!

00:05 Publié dans Actualité, Evénement | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : événement, syrie, bruxelles, politique internationale | |
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