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vendredi, 15 janvier 2010

Palestina: salvare Fatah

Palestina: salvare Fatah
 
Scritto da Antonio Albanese   

Ex: http://www.area-online.it/

«Perché ci si dovrebbe interessare del destino di Fatah?» Con questa domanda si apre un’interessante analisi dell’International crisis group del novembre scorso.
 Palestine: Salvaging Fatah è l’ultima fatica in materia di questa organizzazione non governativa, non profit, con personale sparso nei cinque continenti che lavora direttamente sul campo con analisi di alto livello e di elevato profilo che vengono utilizzate come fonte primaria da moltissime agenzie internazionali, Onu compresa. 
In questa analisi si cerca di dare una risposta all’interrogativo iniziale e di fornire anche delle indicazioni operative nello stile dell’Icg. 
Fatah ha 50 anni, è stato il cuore pulsante del nazionalismo palestinese, ma ha perso smalto, la sua capacità di mobilitazione sembra distrutta. Diviso al suo interno, ha perso le uniche vere elezioni nella storia dell’Autorità palestinese. Aveva promesso al suo popolo di combattere per la liberazione, raggiungere l’indipendenza attraverso negoziati e gestire la vita quotidiana del nuovo Stato ma non ha raggiunto nessuno di questi obiettivi; Hamas o la Jihad islamica gestiscono la resistenza, la diplomazia la gestisce l’Olp, la governance spetta al primo ministro Fayyad in Cisgiordania e alle forze islamiche a Gaza. 
La minaccia del presidente Abbas di non partecipare alle prossime elezioni politiche è l’ultimo segnale di un movimento allo sbando: le stesse difficoltà di Fatah rendono “spuntata” una simile minaccia, il movimento ha bisogno di una sterzata visibile. 
C’è più che mai bisogno di un movimento nazionale perché i negoziati abbiano successo pena il loro fallimento e la ricerca di una nuova via. La Conferenza generale di Fatah dello scorso agosto, la prima in venti anni, è stato il primo passo, afferma il report Icg. 
«I problemi di Fatah nascono dal suo stesso modus operandi», nascono cioè, secondo l’Icg, dall’unicità dell’esperienza palestinese: sotto occupazione ma impegnata nel processo di nation-building; ancora coinvolta nello scontro armato sebbene sia impegnata in negoziati. All’inizio è stato il movimento nazionalista a beneficiare di questa duplicità: fazione dominante nell’Olp, anima dell’Ap, Fatah controllava l’agenda politica, governava e attraverso Yasser Arafat, suo fondatore, gestiva la resistenza. Bilanciare questi aspetti divenne quasi subito impossibile: la governance dà sì un’opportunità di dispensare benefici alla popolazione, ma il suo corollario è la corruzione e la disaffezione conseguente. Fatah cominciò a crollare assieme al moribondo processo di pace e nel 2004 ha pianto la scomparsa del suo leader. 
Purtroppo Fatah non ha prodotto i germi per il suo aggiornamento nel processo di sviluppo di un sistema pluralistico. Ha visto, infatti la sua egemonia all’interno dell’Autorità palestinese come fine a se stessa. Non ha adeguato la sua agenda politica a un mondo che muta rapidamente. Non ha rinnovato la sua leadership, ha marginalizzato generazioni di attivisti e privato il movimento della necessaria linfa vitale. Inoltre, Fatah non ha tratto esperienza e non ha saputo rispondere adeguatamente a situazioni particolari: la seconda intifada, la devastazione dell’Autorità stessa, le vittorie elettorali di Hamas, la presa di Gaza da parte delle forze islamiche e il fallimento del processo di pace. 
La Conferenza generale, svoltasi a Betlemme, è stato il segnale della presa di coscienza che qualcosa andava fatto. I risultati sono stati superiori alle aspettative, a partire dal fatto che la conferenza si sia tenuta. Per la sua preparazione si sono svolte una serie di consultazioni regionali per designare i delegati, rinnovare la leadership a molti livelli; alla Conferenza, dice l’Icg, molte strutture a lungo dormienti di Fatah, come i Comitati centrale e rivoluzionario, sono state “risvegliate”. La maggior parte dei nuovi delegati oggi costituiscono la nuova leadership; a differenza dei loro predecessori si tratta di persone cresciute nei territori occupati, e questo fatto gli fornisce una comunanza unica con chi vive in quelle realtà. Ci sono stati, ovviamente, dei lati oscuri, accuse di manipolazione e brogli, ma secondo molti osservatori questo fatto è un segnale della vitalità di Fatah sul territorio. 
Se Fatah riuscisse a riformarsi internamente dovrebbe rivedere i suoi rapporti con l’Autorità palestinse, con Abbas, e con Hamas. 
Le sfide che Fatah dovrà affrontare nei prossimi mesi probabilmente daranno l’immagine della sua capacità politica. I dialoghi israelo-palestinesi sono allo stallo, la diplomazia statunitense segue gli eventi piuttosto che guidarli; i colloqui interpalestinesi sono all’impasse, un presidente nuovo e politicamente competente sarebbe necessario e le elezioni presidenziali previste per il gennaio 2010, se tenute, sconfiggeranno Hamas, secondo l’Icg, e metteranno Habbas in crisi nei suoi rapporti con Fatah stessa, che teme una elezione esclusivamente in Cisgiordania, che di fatto aumenterebbe la frattura con Gaza. 
L’annuncio di Habbas di non presentarsi, se mantenuto, creerebbe ulteriori tensioni: Fatah si dovrebbe confrontare con una tumultuosa transizione, situazione per la quale non è preparata. Tutto questo, per l’Icg, richiede azioni dirette di Fatah. 
Gli Usa e la comunità internazionale hanno fatto molte pressioni su Fatah per far svolgere la Conferenza generale affermando che un cambiamento era necessario per assicurare la vittoria futura; la diagnosi era giusta ma la terapia si è rivelata incompleta. Riformare il movimento e le sue sclerotiche strutture è un processo che non deve fermarsi. 
Per un movimento che ha “smarrito la via” ci vuole però qualcosa di più: ha bisogno di un’agenda di modalità operative e di alleanze politiche. 
L’Icg suggerisce: «1) Lo sviluppo di una strategia non violenta di resistenza. Nella conferenza si è menzionata la lotta armata, ma nonostante le ovazioni della sala, il progetto di lotta armata ha mostrato il suo fallimento morale e la sua scarsa politicità. Fatah deve andare oltre. Occorre trovare una strategia tra la violenza e la passività in forme d’azione popolare che possano orgogliosamente essere messe in pratica e che forniscano un modo per far andare avanti i negoziati. 2) Come relazionarsi con l’Autorità palestinese. Fatah è un movimento di liberazione nazionale, già dagli anni di Oslo si è fusa di fatto con il governo. Questa fusione ha incrementato la percezione della sua corruzione, mentre ha disorientato e smantellato i suoi quadri. Fatah deve decidere se incentrare la sua agenda politica sull’amministrazione dei territori occupati e sul processo di state-building o preferisce focalizzarla sull’agenda politica di liberazione dei territori stessi, disimpegnandosi dal governo. 3) Cosa fare con Hamas. La riconciliazione dipenderà dalle azioni di entrambe le organizzazioni e dalle visioni politiche di attori non palestinesi. Ciononostante Fatah dovrà decidere se l’unità nazionale sia prioritaria o meno, se è pronta a fare spazio alle forze islamiche e a quale prezzo (soprattutto in termini di relazioni con Israele e con gli Usa), e quale prezzo è disposta a pagare». 
«Una leadership» avvisa infine l’Icg, «con una visione più chiara, più democratica e più in sintonia con la gente potrebbe limitare la flessibilità e capacità di fare concessioni dei negoziatori. Sarebbe maggiormente credibile, legittimata e capace di portare avanti la sua costituzione. Attori esterni, come gli Usa e Israele, potrebbero non gradire tutte le risposte che Fatah potrebbe dare. Ma sarebbe meglio, comunque, che non avere alcuna risposta».
 
Luigi Medici