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mercredi, 06 mai 2009

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck

Democrazia come partecipazione: Moeller van den Bruck


«La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino»


Si fa presto a dire “democrazia”. Termine che mette effettivamente i brividi, a chi abbia un po’ di esperienza circa il modus operandi dei “democratici” d’Italia e del mondo. Ma si può essere sostenitori della democrazia nonostante i democratici? Può una democrazia essere organica, comunitaria, nazionale, antiliberale e antioligarchica? In un’epoca di tecnocrazia e grandi potentati transnazionali che espropriano i popoli di ogni brandello di sovranità può la partecipazione essere la bandiera di una politica non conforme? Arthur Moeller van den Bruck (1876 – 1925, in foto) avrebbe risposto in modo affermativo a tutte queste domande. Ma andiamo con ordine. Chi era, innanzitutto, l’autore che porta un nome tanto imponente e ridondante?

Nato il 23 aprile 1876 a Solingen, Moeller è considerato uno dei padri nobili e degli spiriti animatori della vasta corrente di pensiero conosciuta come “Rivoluzione conservatrice”. Chiamato Arthur dal padre in onore di Schopenhauer, il futuro cantore dei “popoli giovani” comincia, nelle sue prime uscite pubbliche, ad affiancare al cognome paterno anche quello – di origine olandese – della madre: Elise van den Bruck. Si forma su Nietzsche, Dostoewskij, Langbehn, Chamberlain e Gobineau. Nella giovinezza un po’ bohémien fa la conoscenza di Rudolf Steiner, August Strindberg, del pittore völkisch Fidus, Edvard Munch, Dimitri Merezkowskij, Theodor Däubler ed Ernst Barlach. Dal 1904 al 1910 scrive l’opera enciclopedica Die Deutschen (I Tedeschi) un ritratto dei maggiori geni della cultura tedesca, mentre nel 1906 inizia la traduzione delle opere complete di Dostoewskij. Nel 1913 pubblica Die italienische Schönheit (La bellezza italiana). Nel 1914 parte volontario. Nel 1916 pubblica Der prussische Stil (Lo stile prussiano) e, dopo la disfatta, nel giugno 1919 lo troviamo tra i fondatori dello Juniklub, comunità nazionalconservatrice di Berlino, e di Gewissen, importante rivista nazionalista. Del 1919 è il suo saggio politico Das Recht der jungen Völker (Il diritto dei popoli giovani). Nel 1923 pubblica invece il suo libro più celebre, Das dritte Reich (Il terzo Reich, traduzione italiana di Luciano Arcella, Settimo Sigillo, Roma 2000). Nel 1925 si suicida a Berlino.

Nel suo saggio più celebre, che porta un titolo oggi piuttosto impegnativo come Il terzo Reich (ma ricordiamo che il testo uscì 10 anni prima dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo e che l’autore si tolse la vita otto anni prima che Hitler divenisse cancelliere), Moeller traccia una originale visione politica basata su alcune istantanee fissate in modo vivido e caustico. Il libro è in effetti composto da diversi capitoli, ognuno dei quali prende le mosse da un termine del lessico politico e da una breve frase introduttiva. Das dritte Reich, per fare un esempio, si apre con il capitolo intitolato “Rivoluzionario – Vogliamo vincere la rivoluzione”, seguito da “Socialista – Ogni popolo ha il suo socialismo”. E così via. Ora, il quarto capitolo del saggio è dedicato esattamente alla democrazia ed ha per titolo: “Democratico – La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”. Frase già di per sé rivelatrice, non c’è che dire. Come nel resto del libro, Moeller prende le mosse dalla situazione concreta della Repubblica di Weimar, per poi passare a considerazioni di tipo più generale. Leggiamo quindi l’inquadramento generale del problema in questi termini: «La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino. Ed il destino del popolo, dovremmo dire, è pertinenza del popolo. La domanda è sempre la stessa: come è realizzabile una effettiva partecipazione?». Con il Parlamento, risponderebbe il liberale. Moeller la pensa diversamente. Per lui il Reichstag è «la struttura incaricata della diffusione delle frasi fatte». Il problema, per il teorico della konservative Revolution, non sono tuttavia le istituzioni, ma lo spirito che le anima. La democrazia, scrive Moeller, esiste da prima del Parlamento. Essa era anzi intrinseca nella mentalità degli stessi antichi Germani. «Fra i neoconservatori – spiega Alain de Benoist– la nozione di Reich non è a priori antagonistica nei confronti della democrazia. Di fronte a questo tipo di regime, i membri dello Juniklub non professano, d’altronde, alcuna ostilità di principio. Cercano piuttosto di creare una “democrazia tedesca” – così come si pronunziano per un “socialismo tedesco”. È un atteggiamento, molto caratteristico in loro, mirante a “nazionalizzare” una dottrina piuttosto che non a respingerla».

Esiste una democrazia tutta tedesca, quindi, che non ha a che fare con il parlamentarismo. Quest’ultimo «in Germania non ha nessuna tradizione», e la Germania stessa «è un paese troppo nobile per il parlamentarismo». In questo quadro, «la volontà di democrazia è volontà di autocoscienza politica di un popolo: essa è la sua autoaffermazione nazionale. La democrazia è l’espressione dell’autostima di un popolo, oppure non è nulla».
In concreto, «si potrebbe immaginare in Germania una democrazia che si prenda cura soprattutto della vita del popolo, che sia in grado di radicare la repubblica nella specificità del paese, nella differenza delle componenti etniche e nell’armonia generale del popolo. Non la forma dello Stato, ma lo spirito dei cittadini realizza la democrazia. La sua base è il senso del popolo […]. Se vogliamo salvare la democrazia tedesca dobbiamo rivolgerci lì dove l’elemento umano e l’elemento tedesco non sono stati contaminati: al popolo stesso, al carattere originario di questo popolo, che può sussistere anche in questo Stato. E potremmo forse dire che vi sarà vera democrazia in Germania solo quando non vi saranno più “democratici”. Vi sono popoli che si sono sollevati mediante la democrazia. Vi sono altri popoli che sono andati in rovina con la democrazia. La democrazia può significare stoicismo, concezione repubblicana, inflessibilità, durezza. Ma allo stesso tempo può significare liberalismo, chiasso parlamentare, lassismo».

Ora, cosa ci trasmettono queste parole al di là della problematica “tedesca, troppo tedesca” e fatti salvi tutti i mutamenti di contesto dal 1923 a oggi? L’idea, ad esempio, che la partecipazione è la base di ogni organismo politico sano, così come la decisione ne costituisce l’altezza e la selezione la profondità. L’intuizione che dall’èra delle masse non si torna indietro e che essa rappresenta il campo di battaglia in cui si scontrano differenti concezioni del mondo. La consapevolezza che le battaglie antistoriche sono sempre perdenti e che è necessario “cavalcare la tigre” dei fenomeni in atto senza essere da loro cavalcati. Ma di tutto questo, va da sé, ci sarà tempo di riparlare.

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