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mardi, 08 juin 2010

La persistenza di Yukio Mishima

La persistenza di Yukio Mishima

di Valerio Zecchini

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

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A quasi quarant'anni dalla morte, la persistenza della fortuna di Yukio Mishima non dà segni di cedimento, nemmeno in Italia: Madame De Sade (1965), uno dei drammi con cui riportò a nuova vita la tecnica tradizionale del teatro No, in questa stagione è stato rappresentato al teatro Dehon di Bologna con grande successo per due settimane; il brillante adattamento di Piero Ferrarini ne aggiorna l’ambientazione dalla rivoluzione francese al Maggio ’68. Intanto, la pubblicazione di testi ancora inediti nel nostro paese (che sembrano non finire mai), e la ristampa di libri ormai classici prosegue incessante. Mentre Mondatori ha fatto uscire il prezioso inedito “Abito da sera”,  la casa editrice SE ha di recente pubblicato, oltre al carteggio durato decenni col premio Nobel Yasunari Kawabata (“Kawabata – Mishima: Lettere), la novella La spada del 1963, della quale l'anno successivo uscì una versione cinematografica. In questo lungo racconto ambientato nel contesto di quella che è forse la più Giapponese delle arti marziali, il kendò, l'adesione ai valori tradizionali di lealtà, rigore morale, dedizione alla causa prende corpo con un'assolutezza che esclude ogni umano compromesso, fino all'inevitabile immolazione finale.

 Così come la novella Patriottismo del 1961 (dallo stesso Mishima trasformata in film quattro anni dopo), La spada ha tutte le caratteristiche del testamento spirituale in forma narrativa. E' per questo che il volume include anche il testamento spirituale “ufficiale” (il Proclama, manifesto che lo scrittore volle lasciare a giustificazione del suo gesto e che lesse a squarciagola alle truppe della caserma dove si suicidò), e una serie di testi sul martirio volontario di Mishima: “Riflessioni sulla morte di Mishima” di Henry Miller (1972), “L'ideologia della morte folle” (Hashikawa Bunzò, 1970), “Dietro tanta vivacità un senso di vuoto” (Donald Keene, 1970), e un estratto del magistrale saggio di Marguerite Yourcenar  “Mishima” del 1982. il libro si chiude con una sequenza di bellissime foto in bianco e nero che immortalano l'artista nel suo sublime narcisismo. In questi quarant'anni, scrivere sul suicidio valoriale e simbolico di Mishima sembra essere diventato un genere letterario a sé stante: oltre ai succitati autori e ai vari biografi, lo fece il maestro e sodale Yasunari Kawabata, il grande regista Paul Schrader nel 1984 ne fece un film memorabile, in Italia intervennero Alberto Moravia (ma lui non poteva capirci granchè) e Piero Buscaroli, che ne colse solo il movente politico.

Ma perchè il seppuku di Mishima, in cui un'etica eroica da antico samurai convive singolarmente con un estetismo pienamente dandy, continua ad affascinarci tanto? Probabilmente perchè più si esaspera il processo di modernizzazione e di decadenza (sia in Giappone, sia in Europa), più ci sentiamo attratti da quel mondo antico permeato di bellezza, onore, eroismo che lo scrittore giapponese ha costantemente evocato con le sue opere, la sua vita e soprattutto la sua morte. Una morte sconvolgente, ossessivamente annunciata, preparata con implacabile meticolosità e infine celebrata dinanzi al mondo come un rituale spettacolare e tragico. La sua uscita di scena ha rappresentato al tempo stesso l'apoteosi del personaggio, condannato da un demone inquieto a una vita perennemente sopra le righe, e la parola conclusiva dello scrittore, la sigla di un'opera totale in cui culto della gioventù, amore per la bellezza e morte eroica appaiono intrecciate in un destino ineluttabile. Il vero tradizionalista è un ribelle e un iconoclasta, come ben puntualizza Henry Miller nel suo scritto: “I veri pionieri nono iconoclasti; sono loro che salvaguardano la tradizione, non quelli che lottano per conservarla e così facendo ci soffocano. La tradizione può realmente esprimersi solo attraverso lo spirito dell'ardimento e della sfida, non con conformismi esteriori e col  mantenimento di usanze. Credo che fosse in questo senso che Mishima intendeva far rivivere i costumi dei suoi avi. Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi. L'autentico cameratismo, l'amore per la natura e non l'efficienza, l'amore di patria e non lo sciovinismo, l'imperatore quale simbolo di capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica.”

Il saggio di Marguerite Yourcenar rimane comunque a mio avviso il migliore sull'argomento Morte di Mishima: il più acuto e penetrante, l'unico che consideri l'importanza anzi la centralità dell'”omosessualità guerriera” in questa vicenda; vi si potrebbe addirittura individuare il disvelamento di quella “funzione sacra dell'omosessualità” di cui parlava Pasolini negli ultimi anni della sua vita. Dice la Yourcenar: “Circa due anni prima della fine, si produce per Mishima uno di quegli eventi insperati che sembrano manifestarsi puntualmente non appena la vita acquista una certa precipitazione e un certo ritmo. Un personaggio nuovo fa il suo ingresso, Morita, ventun anni, provinciale educato in un collegio cattolico, bello, un po' tarchiato, infiammato della stessa passione lealista che arde in colui che egli bel presto chiamerà maestro (Sensei), termine onorifico dato dagli studenti ai loro istruttori. Si è detto che, in Mishima, l'inclinazione verso l'avventura politica è cresciuta in proporzione alla foga del giovane”.

Morita fu l'ultimo a iscriversi all'Associazione degli Scudi (l'associazione paramilitare messa in piedi da Mishima) e in lui forse trovò il compagno e forse il fanatico che aveva sempre cercato, o almeno il risoluto spartano col quale condividere lo splendore della melanconia. Infatti, dopo che lo scrittore si fosse squarciato il ventre, avrebbe dovuto essere Morita a tagliargli la testa – ma non andò così, ci fu un terzo che dovette finirli entrambi. In Colori proibiti (1951) e successivamente nel racconto Onnagata Mishima aveva preso in esame il mondo dell'omosessualità moderna, mettendone in evidenza l'inconsistente vacuità, il frivolo estetismo. Nel suo rapporto con Morita sembrano invece rivivere le storie d'amore tra samurai descritte nel XVII secolo dal grande monaco/scrittore Ihara Saikaku, o l'amore folle dell'imperatore Adriano per il suo amante narrato dalla stessa Yourcenar nelle “Memorie di Adriano”, o ancora Alessandro Magno col fedele Efistione come ce lo ha fatto vedere qualche anno fa Oliver Stone in “Alexander” – o, per spingersi ancor più in là nella mitologia antica, il legame eroico tra Achille e Patroclo?

Come è reso evidente in vari scritti teorici, secondo Mishima il vincolo cameratistico dev'essere alla base anche del rapporto con la donna, essere quindi il fondamento del matrimonio. Ma, come aveva affermato nel corso del dibattito all'università con gli studenti comunisti (1968), era arrivato a pensare che l'amore stesso fosse diventato impossibile in un mondo privo di fede. Egli paragonava gli amanti ai due angoli di base di un triangolo, e l'imperatore, che essi venerano, al vertice: è la concezione di un sostrato di trascendenza necessario all'amore. Col suo lealismo incondizionato, Morita rispondeva a quell'esigenza.

Einaudi ha da poco ripubblicato “Una virtù vacillante”, romanzo uscito a puntate nel 1957, il quale ebbe un tale successo che nello stesso anno se ne realizzò un adattamento cinematografico. Qui Mishima, dal suo punto di vista privilegiato di bisessuale, analizza l'animo femminile con la precisione di un entomologo. Protagonista del romanzo è la sensuale Setsuko, una giovane signora dell'alta borghesia di Tokyo la quale, intrappolata in un matrimonio di convenienza, si ribella a ogni forma di moralità e si abbandona tra le braccia di un affascinante conoscente. L'autore descrive con maestria il conflitto che tormenta la giovane e bella Setsuko tra istinto ed etica, tra sentimento e razionalità, il misterioso e indomabile anelito a un amore travolgente, totale, eterno fino alla scoperta dell'ineluttabile verità: l'amante è  simile al marito e alla gran parte degli uomini, strutturalmente incapaci di corrispondere all'assolutezza dell'amore femminile. Questa consapevolezza la porterà alla catarsi finale della rinuncia ascetica. Setsuko a un certo punto spiega anche perchè non può esistere un dandy o un esteta donna: “Com'è profonda, a volte, la solitudine maschile! Quella femminile è diversa. Persino la solitudine di una vecchia è più carnale e avida. Per quanto sia sola, una donna non può vivere in un mondo ideale, perchè le è impossibile rinunciare alla propria femminilità. Se invece un uomo assurge all'alto dominio dello spirito, smette di esser una creatura terrestre”.

Questa avvincente storia d'amore è comunque pervasa da un'atmosfera di fatua decadenza, gli eleganti personaggi sono sempre mossi da biechi e meschini calcoli e spiegano benissimo cosa intendesse Mishima quando parlava dell'amore diventato impossibile in un mondo privo di fede.

Agli amori borghesi di “una virtù vacillante” si contrappone il profondo amore tra marito e moglie narrato nel racconto “Patriottismo”, offerto al pubblico come esemplare da Mishima: profondo perchè radicato nel sacrificio comune e nel cameratismo, sulla superiore devozione verso l'imperatore, nel sacro ruolo della donna come custode della tradizione. Tutto ciò che non poteva più esistere, se non come sopravvivenza, nel Giappone del 1970, e tanto meno nel Giappone di oggi.

 

Yukio Mishima

UNA VIRTU' VACILLANTE
Einaudi

Euro 10,00

 

Yukio Mishima
LA SPADA

SE

Euro 19,00

 

 


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