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lundi, 12 novembre 2012

Il cancro del liberalismo secondo Moeller van den Bruck

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Il cancro del liberalismo secondo Moeller van den Bruck

di Luca Leonello Rimbotti

Fonte: mirorenzaglia [scheda fonte]

Che da circa tre-quattro secoli i popoli vengano giocati da un inganno assurdo e atroce è cosa nota a chiunque sia interessato alla storia come manifestazione della scienza politica applicata. Che questo inganno teso alla nazione abbia un nome e si chiami liberalismo appare evidente da oltre un secolo a tutti coloro che, davanti alla crisi sempre più chiara in cui l’Europa veniva e viene gradatamente sprofondata, si sono interrogati circa il destino che attende i popoli che si lascino irretire dalla fiaba della democrazia parlamentare. Il liberalismo come «rovina dei popoli» è un concetto utilizzato ad esempio da Moeller van den Bruck nel 1923, allorquando il piano di sovversione etica e di disintegrazione sociale ordito dal liberalismo era già evidente a chiunque avesse occhi per vedere. Interi schieramenti di alta cultura politica europea se ne resero conto in tempo, e lanciarono i loro poderosi avvertimenti. Gli Spengler o i Sombart, i Barrés o i Maurras, i Papini o i “vociani”, e dunque tutto l’ambiente vasto della Rivoluzione Conservatrice europea – da “destra” a “sinistra”: dai nazionalisti ai sindacalisti rivoluzionari, dai nazionalrivoluzionari ai nazionalbolscevici, dai fascisti ai nazionalsocialisti – avevano chiara una cosa: il liberalismo, sotto la scorza di una copertura “democratica”, è il più micidiale pericolo mai corso dalla civiltà non solo europea ma mondiale, diciamo mai corso dall’umanità, poiché nasconde una promessa di morte sociale di massa che avanza con le logiche di una inesorabile volontà di distruzione.

Moeller van den Bruck non fu che uno tra i migliori fra quanti seppero leggere con rigore e chiarezza la natura della minaccia. Novant’anni fa egli lanciò uno degli avvertimenti più crudi e veraci circa la natura dell’abisso verso il quale i popoli venivano sospinti dalla famelica volontà di corrosione di cui il liberalismo è strutturalmente animato. Qualcosa che va molto al di là delle stesse categorie politiche, che non riguarda solo la febbre economicista o il delirio usurario, ma che investe la stessa natura umana, sovvertendola. Il liberalismo come male morale, come lebbra dello spirito, come abbandono dei tratti di un umanesimo sociale in un lucido disegno di morte.

«È il distruttivo mondo ideologico di un liberalismo che, attraverso le sue soluzioni, diffonde una malattia morale nei popoli e penetra con la sua forza dominante in una nazione, decomponendola». Questa frase di Moeller, presente nel suo libro famoso intitolato Il Terzo Reich, ci dà conto della natura del contagio liberale. Esso non è solo politico o sociale, ma spirituale, anìmico, va alle viscere della mente e del cuore, e lì decompone senza posa. L’uomo liberale, soggiogato dalle logiche dell’individualismo acquisitivo, è una struttura trans-politica, è un risultato del lavoro che la macchina liberal-liberista va compiendo per lo meno dal Seicento e da quando in terra inglese si affermò la saldatura fra circuiti massonico-mercantili e puritanesimo biblista. Si tratta della sindrome visibile di una patologia che lavora negli interstizi coscienziali, fra le penombre di menti alterate dalla dis-umanizzazione della personalità, dando luogo al lucido incubo della società dei diritti: «Il liberalismo è la libertà di non avere princìpi, ma allo stesso tempo di sostenere che questi princìpi esistono». Questa asserzione di Moeller è la più potente diagnosi sul liberalismo che mai sia stata fatta da un’intelligenza europea. Facciamoci caso. Ha la portata di un aforisma nietzscheano. Essa nasconde, nella breve linearità di una frase sintetica, l’intero universo della debilitazione che va ascritta ad un disegno di snaturamento dell’uomo qual è il liberalismo. Una dottrina e una pratica che operano un vero e proprio attentato antropologico lavorando sull’uomo, destabilizzando e poi liquidando il suo arcaico onore di appartenere ad una comunità di simili tra i quali vigano amore e reciprocità. Dell’uomo animale sociale teso al suo simile il liberalismo fa una cellula afflitta da forme di egoica incontinenza sempre crescenti e che, simili al tumore, hanno nell’idea di “espansione” il loro vertice necrotico.

L’uomo liberale espande i suoi diritti e allarga il suo accesso al denaro con la logica aziendale di un procedere vorace sul mercato delle menti, egli agisce sotto la spinta di una necessità biologica, secondo istinti indotti da una rovinosa concezione dell’umano, che fa dell’interesse personale la molla prima ed unica dell’esistere. L’ignobile che diventa codice etico. Qualcosa che, nell’Antichità o nel Medioevo, sarebbe parso indegno e infame, cioè l’individuo che antepone il profitto al codice etico comunitario, sotto il trattamento dei “princìpi” liberali diventa titolo di accesso ai massimi prestigi sociali: l’uomo di successo, il ricco, il vincente. Un tale rovesciamento dei valori non riguarda solo l’uomo, ma soprattutto l’uomo associato. Investe non solo l’Io, ma soprattutto il Noi, facendolo a pezzi senza possibilità che si abbia una ricostruzione quale che sia del tessuto sociale così rozzamente e così a fondo lacerato.

L’analisi del liberalismo fatta da Moeller – che più di altri pose l’accento sugli aspetti generali, oggi diremmo “mondialisti”, di questa sinistra affermazione della disumanità – oggi attira l’attenzione di tutti coloro che ancora si pongono su posizioni antagoniste rispetto al potere mondiale liberal, proprio perché l’accento veniva da Moeller posto sul liberalismo in quanto sistema: un sistema attraverso il quale si distruggono le identità dei popoli e, su questo terreno desertificato, si erige un potere mondiale fondato sul profitto privato e sul gigantesco sfruttamento di massa. Il liberalismo ha una sostanza di progetto ultimativo. Non è una semplice dottrina politica. È una rete. È un piano mondiale ed epocale, un metodo col quale si intende chiudere la storia e liquidare le appartenenze (famiglia, nazione, etnia, cultura, civiltà), una volta per tutte.

Il liberalismo, quindi, come metodo, come prassi di un potere che non ha ideologia, né intende averla, ma ha solo un fine ultimo combaciante con una sorta di millenarismo in negativo ed invertito di segno: la «rete di intrighi estesa sul mondo» di cui parlava Moeller nel 1923 è ad esempio quella in cui ingenuamente cadde la vecchia Germania imperiale, sospinta a recitare la parte dell’imperialista aggressiva dagli stessi maggiori gestori e azionisti dell’imperialismo di rapina su scala planetaria, e così aprendo il ciclo guerresco con cui si ottenne la rovina politica dell’Europa e la sua uscita di scena come contropotere a livello globale.

Quella rete è esattamente la stessa nella quale cadono, una ad una, le nazioni al giorno d’oggi, in quella ultima fase che stiamo vivendo e in cui si assiste al passaggio finale dal liberalismo capitalista internazionale – ancora in qualche modo legato alla finzione dei “governi nazionali” – al liberalismo finanziario cosmopolita su base apertamente snazionalizzata. Moeller va oggi riletto proprio in questa chiave, come testimone diretto e di assoluto rilievo di una fase decisiva del liberalismo, già ai suoi tempi ben leggibile, nel suo passaggio da macchinazione ancora parlamentaristica e “democratica”, con vari gradi di applicazione della pantomima egualitaria, ad aperto gioco al massacro degli interessi vitali dei popoli, in nome della brutale prevalenza di quelli internazionali privati.

Moeller, con poche e illuminanti osservazioni, stilò una diagnosi del fenomeno liberale con categorie a tutt’oggi del più grande interesse. Egli seppe individuare nell’insieme delle contraddizioni del piano mondialista la natura stessa del progetto liberale: lotta contrapposta fra concentrazioni di potere divise dalle tattiche contingenti, ma unificate dalla strategia di asservimento. Un modo di procedere tipicamente massonico. Ma, attenzione: non si deve pensare alla vecchia massoneria di pensiero e di club, il metodo massonico essendo un insieme di circuiti anche in contraddizione tra di loro, ma sostenuti da un unico procedimento volto al medesimo fine. In questo, Moeller è stato un maestro come analista: «Ma il carattere ambiguo, mutevole della massoneria, la sua plasticità e quindi la sua capacità di adattarsi agli eventi» erano e sono la struttura del progetto liberale, il suo scheletro osseo, su cui si impianta l’intera operazione di sovvertimento.

«Dobbiamo inoltre considerare – continuava genialmente Moeller novant’anni, ripetiamo, novant’anni fa! – che, nel percorrere la storia della massoneria, ci si imbatte in una disgregazione di princìpi, che presuppone un uomo del tutto particolare, nel quale individuiamo la tipologia del liberale: un individuo con un cervello vacuo, debole, il quale o non è in grado di dare ordine ai propri princìpi, o si prende cura di metterli da parte. Un uomo cui non costa nessuna fatica rinunciare a tali princìpi, anzi è lieto di trarne vantaggio». Si tratta, quindi, essenzialmente di qualcosa di non-politico, anzi di a-politico e di anti-politico. La mutazione genetica dell’antropologia umana applicata dal massonismo liberale è la piattaforma su cui si erge la pratica di sbriciolamento dei legami umani. Le massonerie in competizione tra di loro – la Trilateral, il WTO, gli associazionismi ebraico-puritani, etc. – sono la maschera di un potere che nel suo fondamento è unico e unidirezionale. Questa la lettura: «La massoneria è solo una direttiva generale. Essa si rifà al liberalismo». E tutto, oggi ancora di più di ieri, è “massoneria”. Il potere mondiale è “massoneria”. Il fine agitato davanti alle masse e quello realmente perseguito dagli oligarchi liberali non sono altro che “massoneria”, esclusivamente “massoneria”. Poiché «l’appello al popolo serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse». Cos’altro c’è da aggiungere? Dallo scatenamento della Prima guerra mondiale fino alle “guerre umanitarie”, fino all’Iraq, fino alla Libia di oggi o all’Iran di domani, è tutto un unico piano inclinato, un unico procedere sulla via tracciata dallo stesso, immodificato progetto “massonico” che anima il liberalismo: «Il liberalismo ha distrutto le civiltà. Ha annientato le religioni. Ha distrutto le patrie. Ha rappresentato la dissoluzione dell’umanità». Può esserci qualcosa di più da dire, rispetto a queste plastiche osservazioni espresse agli inizi degli anni Venti del Novecento da Moeller, adesso che siamo vicini agli anni Venti del Duemila?

Il segreto del progetto di rovesciamento liberale – che si è sempre servito della “patria”, del “popolo”, della “nazione” come di grimaldelli coi quali abbattere la patria, il popolo e la nazione – è il segreto stesso del male americano e del suo estendersi nel mondo con la negatività di una metastasi inarrestabile. I progettisti liberali sono gli ingegneri della dissoluzione:

La loro ultima idea è diretta alla grande Internazionale in cui vengono del tutto ignorate le differenze di lingue, di razze, di culture: si dovrebbe essere governati come un unico popolo di una famiglia fatta di fratelli selezionati dalle intelligenze di tutti i paesi, i quali assommerebbero in sé le prerogative morali del mondo nella sua globalità. Essi piegano la nazionalità a questo internazionalismo, e per fare ciò si servono anche del nazionalismo.

I liberali si servono di quella macchina infernale che è il “patriottismo costituzionale”, impiantata sul diritto acquisito per ius solii, sull’indifferenziato inglobamento nella “repubblica mondiale”: il sogno spaventoso dei massoni di vecchia data è il tappeto su cui scivola veloce la macchina della globalizzazione, che Moeller così lucidamente osservò durante quella Repubblica di Weimar, un laboratorio nel quale si fece un ottimo esercizio di prova sui metodi e i tempi con i quali si potevano ottenere ad un tempo lo sbriciolamento politico dell’Europa e l’annientamento della sua cultura differenziante e identitaria.

Oggi l’occhio dell’uomo europeo che ancora sappia sottrarsi alla rete degli inganni liberali deve di nuovo posarsi su Moeller van den Bruck come su un antesignano, un veggente e un sicuro diagnostico in cui trovare parole di risveglio. E attingere dalle sue analisi potrà significare ricostruire dalle fondamenta quella cultura politica che occorre per ingaggiare con i mondializzatori il loro stesso gioco. La lotta per la vita o per la morte, che impegna le residue energie delle avanguardie popolari ancora potenzialmente risvegliabili, passa attraverso una presa di coscienza totale del pericolo di fronte al quale si trovano i popoli e che si chiama dominio mondiale delle banche anonime e fine fisica di ogni legame dell’uomo con i suoi patrimoni di bio-storia. Una lotta con questa posta e di questa virulenza presuppone, come negli anni Venti del secolo scorso, idee radicali e una potente volontà di rivolta.


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